Il secondo classificato
Quando i Vedovi Neri diedero inizio al nuovo ciclo di riunioni con la cena del mese di settembre che seguiva la recente Convenzione Nazionale, la discussione cadde, com’era ovvio, sulla politica.
Non poteva certo sorprendere che Emmanuel Rubin, che quella sera faceva gli onori di casa, avesse molto da ridire sul conto di entrambi i candidati alla presidenza degli Stati Uniti. Da un’analisi minuziosa, ne emergevano come due entità decisamente inaccettabili.
«Insomma, si può sapere per quale candidato vorresti votare tu?» domandò Thomas Trumbull, sogghignando.
«Per se stesso» rispose prontamente Mario Gonzalo, lisciandosi il bavero della giacca dal disegno sgargiante. «Sono anni che Manny vota esclusivamente per sé e per il proprio programma!»
«Che senso avrebbe se votassi per un individuo che ritengo meno capace di me?» replicò Rubin. «se io riconoscessi di non essere all’altezza di fare il presidente degli Stati Uniti, si fa per dire, allora sarebbe assurdo che io dessi il mio voto a un uomo meno capace di me. Nessuno dovrebbe votare per un uomo simile.»
Geoffrey Avalon, che stava sorseggiando il secondo bicchierino e non aveva ancora raggiunto il momento in cui smetteva spontaneamente di bere, intervenne austero: «A me non sembra che sia un bene per la Nazione costringere alle dimissioni un presidente in carica. A parità di ogni altra condizione, l’esperienza e la continuità del mandato sono fattori molto importanti».
James Drake, che fissava il fumo della sigaretta, si raschiò la gola e disse piano: «E che esperienza aveva due anni fa, quando…».
Rubin lo interruppe. «Non discutere con lui, Jim. Geoff ha votato per Nixon nel ‘72.»
Rubin lo fissava da dietro le spesse lenti degli occhiali, la barbetta arruffata puntata in su in atto di sfida e Avalon arrossì un poco. «Non me ne vergogno affatto» rispose, impettendosi un poco. «Nel ‘72, il problema più importante fra quelli sul tappeto era la politica estera, e io continuo a credere che la politica estera di Nixon è stata vantaggiosa e razionale.»
«Nixon era corrotto» replicò Rubin.
«Allora nessuno poteva saperlo, e io non posso basare il mio voto su fatti che devono ancora accadere.»
«Macché fatti che devono ancora accadere! Io lo sapevo che di lui non ci si poteva fidare prima ancora che lo eleggessero deputato al Congresso, nel 1947.»
«Non tutti possono avere quelle facoltà divinatorie che ti consentono di fare previsioni con la certezza di indovinarle al cento per cento!» replicò Avalon, con dignità ferita.
«Ma che facoltà divinatorie d’Egitto!» brontolò Rubin. «Potrei darti i nomi di cento testimoni, e quelli potrebbero dirti che per trent’anni io ho denunciato Nixon per quello che era.»
«Ti abbiamo sentito più volte dir male di lui anche qui, ai nostri convegni» disse Roger Halsted, fissandolo con occhio critico da sopra il vassoio degli antipasti.
Avendo vuotato il bicchiere per metà, Avalon lo posò fermamente e disse: «Manny, io credo che ognuno di noi sia libero di pensarla politicamente come crede. Il fatto di far parte di questo circolo d’amici non m’impedisce di esercitare i miei diritti civili».
«Vota come vuoi» ribatté Rubin. «Però vorrei rammentarti che di tutti i Vedovi Neri tu fosti il solo che quell’anno votò repubblicano.»
Avalon si toccò i baffi ben curati e grigi, come se volesse assicurarsi di non esserseli bagnati bevendo, e domandò: «Nel numero hai incluso anche Henry?»
«Henry, per chi ha votato lei, nel ‘72?» domandò spensieratamente Gonzalo.
«Lei, Henry, non è tenuto a rispondere!» disse Avalon. «Le sue opinioni politiche riguardano solo lei.»
Henry, l’impareggiabile cameriere sempre presente alle cene dei Vedovi Neri, stava finendo di ordinare la mensa. «Non ho motivo per nasconderlo, signor Avalon» rispose. «Come il signor Rubin, anch’io diffidavo del presidente Nixon e perciò, sia pure con qualche esitazione, ho votato per l’altro candidato.»
«Geoff, sei a uno contro di te» disse Rubin, sorridendo senza ritegno.
«E cosa ci dici del tuo ospite?» domandò Avalon. Poi, con una certa punta di disprezzo, aggiunse: «Dopo tutto, è per lui che reciti questa scena».
«Forse perché mi sta intervistando?» domandò Rubin, indignato.
L’ospite richiuse il taccuino con un tonfo secco, forte abbastanza per attirare l’attenzione di tutti, e con una voce stranamente gentile, disse: «Veramente, io ho votato per Nixon. Non m’interesso affatto di politica, ma di solito voto repubblicano».
«Sei a due» osservò Avalon, piano, ma visibilmente soddisfatto, lanciando un’occhiata rapida a Rubin, che pareva un tantino imbarazzato.
«Com’è possibile che lei, un giornalista, non si interessi di politica?» domandò Gonzalo, distogliendo l’attenzione dal ritratto dell’ospite che andava rapidamente abbozzando.
«Io non sono precisamente un…»
«Mario, risparmialo per la torchiatura, accidenti a te» protestò Trumbull, alzando la voce. «Se tu fossi stato puntuale, ti avrebbero presentato il signor Gardner.»
«Tom, non sei tu che puoi insegnarmi la puntualità» ribatté Gonzalo, offeso. «Stanno asfaltando Park Avenue e il mio taxi…»
Henry, che attendeva pazientemente, s’intromise appena la conversazione ebbe un attimo di sosta. «Signori, su richiesta del signor Rubin, che questa sera fa gli onori di casa, lo chef ha preparato degli smörgasbörd. (antipasti freddi) Se volete essere così gentili da prendere i piatti che sono sulla dispensa…»
S’avvicinarono tutti, mettendosi disciplinatamente in fila con un appetito da boscaioli che scoppiano di salute e Halsted, la cui pancetta incipiente testimoniava la sua dedizione alla buona tavola, disse: «Sai, Manny? Non abbiamo mai gustato degli smörgasbörd prima di questa sera».
«Non c’è niente di male a provare qualcosa di nuovo» rispose Rubin.
«Oh! Io sono d’accordo, sono d’accordo!» rispose Halsted, i cui occhi vagavano sui vari piatti disposti davanti a lui.
«Questa cenetta la lascia mezzo disoccupato, Henry!» disse Gonzalo.
«Vedrò di darmi da fare, signore» rispose Henry, col suo tono bonario.
Di quel che Henry aveva apparecchiato sulla dispensa eran rimaste poche briciole, il caffè era stato servito due volte e il brandy era nei bicchierini quando Rubin, picchiando col cucchiaino il bicchiere dell’acqua, disse: «Fratelli Vedovi Neri, è venuto il momento della torchiatura e Mario ha starnazzato tanto per ottenere questo onore. Con mio grande rammarico, glielo concedo. Mario…».
Gonzalo sorrise e s’accomodò meglio contro lo schienale della sedia, poi incominciò: «Signor Gardner, le chiedo scusa per essere arrivato in ritardo, ma siccome asfaltano Park Avenue…».
«Questo lo sappiamo già» disse Rubin, interrompendolo. «Continua.»
«Comunque, ho potuto aggiornarmi durante la cena. Lei è Arthur Gardner e collabora, senza un impegno fisso, per la rivista “Personalities”. Esatto, sin qui?»
«Sì.»
Soltanto dai capelli grigi, folti e moderatamente lunghi, si capiva che Gardner era sulla cinquantina, ma la freschezza del volto contrastava assai con quel particolare. Con un po’ di tintura, il giornalista avrebbe mostrato tranquillamente meno di quarant’anni; la dentatura era sana, ma il viso restava serio. Si capiva benissimo che Gardner non si trovava a suo agio in quella compagnia.
«Inoltre, ho saputo che lei ha l’incarico di intervistare Manny Rubin per un articolo che dev’essere pubblicato su “Personalities”, appunto.»
«Esatto. Per un articolo di prima pagina.»
«E lei è venuto a questa cena, come ospite di Manny, per poter assolvere l’incarico.»
«Sì» rispose Gardner. «Questa non è una semplice intervista. Io devo cercare di esaminare criticamente le attività del signor Rubin, in un certo senso.»
«Ah!» esclamò Gonzalo. «Ma questo ci conduce alla domanda più importante. Se la sua attività si limita a presentare Manny al pubblico di quella rivista, come può giustificare la sua esistenza?»
«Se il signor Rubin può giustificare la sua esistenza, di conseguenza si giustifica anche la mia» ribatté Gardner.
«Questa è una buona risposta!» esclamò Avalon, ridendo di cuore. «Ti ha messo nel sacco, Mario.»
«Era stato imbeccato» replicò Gonzalo, indignato. «Ma non fa niente. Signor Gardner, prima di cena lei ha detto che non s’intende di politica. Non è un ostacolo serio nel suo lavoro?»
«No. Lo sarebbe se fossi un cronista politico, ma io mi occupo di biografie!»
«Nemmeno se il personaggio fosse un uomo politico?»
«Per questo so come cavarmela.»
«Non ha mai combinato alcun pasticcio per la sua ignoranza in fatto di politica?»
«Io non sono ignorante in materia di politica» rispose tranquillamente Gardner, senza alterarsi. «Quanto conosco è più che sufficiente, anche quando… ho intervistato Hubert Hum…»
«Mario, aspetta» disse Trumbull, interrompendo la conversazione. «Signor Gardner, noi Vedovi Neri abbiamo sviluppato una sensibilità tutta particolare anche per le sfumature. Lei ha detto: “anche quando…” poi si è interrotto. Vorrei pregarla di non farlo. Anche quando che cosa? Sentiamo.»
«Ma io non capisco!» rispose Gardner, che pareva veramente confuso.
«Lei era sul punto di dire qualcosa, ma poi si è interrotto e non ha continuato. Adesso io le chiedo: cosa stava per dire prima di interrompersi?»
Parve che Gardner ricordasse di colpo. «Oh!... È una vecchia storia, un episodio accaduto in guerra che, a quanto pare, riaffiora ogni volta che ci sono le elezioni presidenziali. Non ha la minima importanza.»
«E non può raccontarcela ugualmente?»
«Ma è accaduta venticinque anni fa! Ormai è finita.»
«Non importa. La torchiatura alla quale lei è sottoposto ha preso questo indirizzo e fa parte del gioco: lei deve rispondere. Posso garantire che nulla di quanto ci dirà verrà divulgato.»
Gardner si guardò intorno come un animale preso in trappola. «Non c’è niente di segreto o di riservato in questo episodio. Era l’inverno del 1950. In Corea, l’esercito al comando del generale MacArthur, aveva raggiunto i confini mancesi verso la fine di novembre e, se le cose continuavano così, prevedevamo di poter tornare a casa prima di Natale.»
«Me lo rammento» disse Drake, cupamente. «Poi vennero i cinesi. Sciamarono verso sud e ci sorpresero coi pantaloni in mano.»
«Ha proprio ragione» rispose amaramente Gardner. «Non sono mai riuscito a comprendere come sia stato possibile sorprenderci così impreparati. Comunque, le divisioni sudcoreane si disfecero semplicemente. Del resto, gli uomini che le componevano non avevano alcuna difficoltà a nascondersi; loro erano di casa e bastava che gettassero l’uniforme per mescolarsi coi contadini, ma per gli americani e per i loro pochi alleati occidentali era tutta un’altra cosa. Noi dovemmo correre verso sud con tutta la velocità che ci era consentita e restare uniti sino a quando riuscimmo a formare una linea difensiva capace di sostenere l’assalto nemico.
«Molti di noi rimasero tagliati fuori dai loro reparti e io fui tra questi. Continuai a fuggire verso sud per cinque giorni, chiedendomi quando sarei stato raggiunto da qualche unità cinese o quando i civili coreani mi avrebbero assalito per rubarmi quello che avevo.
«Durante quella fuga, mi nascondevo di giorno e camminavo di notte. I viveri che avevo erano finiti, incominciai a soffrire la fame. Non sapevo più cosa avrei trovato davanti a me e se esisteva ancora un esercito americano. Era la più grave disfatta in campo aperto che l’esercito americano avesse mai subito dalla guerra civile in poi.
«Il terzo giorno della ritirata incontrai un soldato americano. Non lo riconobbi subito e per poco non gli sparai e lui per poco non sparò a me. Era ferito e poteva camminare a stento; lo aiutai, ma siccome rallentava la mia marcia, fui più volte tentato di abbandonarlo. Non ne ebbi mai il coraggio, ma non fu per spirito umanitario che lo portai con me: quell’uomo rappresentava un altro paio d’occhi, e quattro occhi possono vedere più di due e, quel che contava anche di più, mi faceva compagnia, la sola che avessi, la sola possibile, e la compagnia mi era necessaria più di ogni cosa al mondo.
«La quinta notte il mio compagno si aggravò. Compresi che stava morendo e lo comprese anche lui. Non sapevo cosa fare per aiutarlo o per rendergli meno penoso il trapasso. Rimasi con lui; il poveretto continuava a parlare, ma io non ascoltavo nemmeno; cercavo di tenere gli occhi aperti, di osservare tutto quanto ci circondava e quasi desideravo che morisse in fretta per poter riprendere la fuga, ma poi mi pentivo perché la solitudine mi faceva paura.
«Il morente delirava. Parlava, parlava, passando da un argomento all’altro. Prese a parlare di politica, disse che la carriera politica di Truman era finita e che nel ‘52 i repubblicani avrebbero mandato Taft alla Casa Bianca. Disse che Taft sarebbe stato il quarto presidente ad avere avuto parenti eletti in precedenza alla Casa Bianca, il secondo ad aver avuto il padre presidente prima di lui. Questo particolare mi è sempre rimasto impresso nella mente, non so spiegarmi perché, mentre il resto l’ho dimenticato. Di tutto quel delirare, rammento solo questo particolare che riguarda i presidenti degli Stati Uniti. Comunque, credo che quel poveretto fosse un patito della materia e che conoscesse tutta la storia dei nostri presidenti.
«Poco prima di morire prese a parlare di sé e della sua famiglia. Era sposato e aveva una figlia, una bimbetta di due mesi che lui non aveva mai vista. Riuscì a tirar fuori di tasca qualcosa e me la diede: “Tieni, portagliela, ti prego. Così saprà che l’ho vista con la bimba in braccio, saprà che ho pensato a lei”. Prima di darmela, cercò di baciarla. Era la fotografia di una donna con una bimbetta in braccio, che doveva essergli arrivata prima che l’esercito si sbandasse.
«Gli risposi di sì e gli chiesi il nome e l’indirizzo. Nei due giorni trascorsi assieme non ci eravamo detti nemmeno il nostro nome e, del resto, sapere chi eravamo non aveva la minima importanza in quei momenti.
«Gli occhi erano accesi dalla febbre, delirava sempre. “Come mi chiamo?” disse. “È un buon nome, un nome da presidenti. Niente parenti, naturalmente. Secondo nella lista dei candidati alle elezioni. Gli vogliono bene.” Poi la sua voce si spense. Ma io rammento precisamente le sue parole. Le ho ripensate e ci ripenso ancora, come vedete.
«Lo scossi, ma ormai era morto. Cosa potevo fare? Non potevo certo indugiare oltre, nemmeno per dargli una sepoltura cristiana o qualcosa del genere. Volevo solo fuggire, ma prima di allontanarmi cercai la sua piastrina di riconoscimento per portarla con me nel caso fossi riuscito a raggiungere le nostre linee. Sentivo che se mi fossi salvato avrei dovuto compiere quel gesto pietoso.
«Non mi riuscì nemmeno di toccarlo. Udii voci cinesi, o almeno a me parvero tali. Qualcuno mi piombò addosso, o forse inciampò e mi cadde addosso senza avermi visto nel buio. Mi liberai e stordii l’uomo col calcio del fucile, poi scappai. Udii degli spari, ma nessun proiettile mi colpì e io continuai a correre. Poi davanti a me udii qualcuno che bestemmiava in inglese e, alzate le mani, presi a gridare: sono americano! Sono americano!
«Avevo raggiunto una compagnia di soldati americani, ecco com’era andata. Mi ci vollero più di due giorni per riprendermi, per poter riordinare le idee, i ricordi, e buona parte di quei due giorni penso di averli trascorsi su una barella.»
Ci fu una pausa. «E così, lei non riuscì a prendere la piastrina di riconoscimento di quel soldato» disse Halsted, alla fine.
«No. Eravamo in piena ritirata e ci fermammo solo quando giungemmo molto più a sud di Seul» disse Gardner, calcando sulle parole. «Solo allora tornammo a far fronte al nemico e la controffensiva che seguì ci portò su una linea che correva pressappoco lungo il vecchio confine fra le due Coree. Quello sconosciuto era morto nella Corea del Nord ed era rimasto là. Nessuno avrebbe potuto recuperarne le spoglie.»
«E conseguentemente, lei non ha potuto consegnare quella foto» insistette Halsted.
«Ho tentato, ma disgraziatamente non sapevo nemmeno a quale unità apparteneva quel poveretto. Come se non bastasse, durante la ritirata avevamo perso molti uomini, il che complicava le ricerche volte a identificare quel particolare caduto. Avrei potuto far pubblicare quella foto su un giornale a diffusione nazionale e aspettare che la vedova si facesse viva, ma il farlo costava più di quanto io fossi disposto a spendere. Vi rinunciai, ma ogni tanto, quando rammento quell’episodio, mi chiedo che cosa ne sia di quelle due donne. La vedova dovrebbe avere pressappoco la mia età; la figlia dovrebbe essere sulla trentina; forse è già sposata, forse ha messo al mondo qualche figlio e non pensa più a un padre che non ha mai visto. Tuttavia, penso che forse vorrebbero avere un ricordo, un oggetto che gli era appartenuto, che aveva toccato mentre agonizzava; la certezza che, morendo, pensava a loro, ma cosa posso fare?
«Comunque sia, non riesco a dimenticare quell’episodio, e specie quando siamo in periodo di elezioni me lo rammento e sento più che mai il desiderio di fare qualcosa.»
«Non è il caso di provare rimorso per qualcosa che esula dalle nostre possibilità» osservò Avalon.
«Signor Gardner, lei ha detto di aver tentato» osservò Halsted. «Ma cosa poteva mai fare, se non aveva elementi sui quali impostare una ricerca?»
«Certo che ho provato. Prima di morire, quel poveretto mi aveva confidato di chiamarsi come un presidente americano. Forse era stata quell’omonimia a spingerlo verso la storia dei nostri presidenti. Aveva detto anche che quel particolare presidente era il secondo nella graduatoria per numero di voti ottenuti e che il popolo lo amava assai, e questo particolare mi sembrava significativo. Dopo aver effettuato le ricerche del caso, scrissi a Washington e l’ufficio al quale mi rivolsi controllò il nome dei dispersi. Siccome ero sicuro che era rimasto nella Corea del Nord e che nessuno aveva potuto recuperarne le spoglie, doveva per forza essere nel numero dei dispersi, il che limitava le ricerche a un numero ristretto di casi.»
«Immagino che le ricerche non abbiano dato esito» disse Drake, accendendosi un’altra sigaretta.
«Infatti. Non c’era nessun Roosevelt fra i dispersi.»
«Roosevelt?» sbottò Rubin. «E perché proprio Roosevelt?»
«E perché no?» replicò Gardner, meravigliato. «Era ovvio, dopo quello che aveva detto quel soldato! Anzi, era il solo nome possibile e io non so proprio spiegarmi perché non comparisse nell’elenco dei dispersi. Immagino che si sia trattato di uno dei tipici errori della nostra burocrazia militare, ma siccome quel nome non venne fuori, io mi trovai in un vicolo cieco.»
«Ma come poteva pensare che dovesse chiamarsi Roosevelt?» domandò ancora Rubin.
«Lei rammenterà certamente le elezioni del 1936. Io, allora, avevo dieci anni, ma ricordo ancora il clamore che suscitarono. Franklin Delano Roosevelt venne eletto in quarantasei dei quarantotto stati, lasciando otto voti, quelli del Maine e del Vermont, al povero Alf Landon.»
«E quel risultato poneva Roosevelt al secondo posto fra i presidenti americani, per numero di voti ottenuti?»
«Be’, Washington era stato eletto due volte con voto unanime del collegio elettorale, nel 1788 e nel 1792, e quel risultato lo colloca al primo posto non potendosi ottenere più dell’unanimità. Franklin Delano Roosevelt viene al secondo posto.»
Seduto eretto, con la barba color pepe e sale che gli dava l’aspetto di un antico saggio, specie quando corrugava la fronte come se meditasse chissà che, Avalon intervenne: «Non è esatto. James Monroe, il nostro quinto presidente, si era presentato per la rielezione nel 1820. In quell’epoca si può dire che negli Stati Uniti ci fosse un solo partito, perché il Partito Federalista si era praticamente autodistrutto impegnandosi in una attività che era stata giudicata alla stregua di un tradimento durante la guerra del 1812. Come conseguenza, tutti i personaggi che contavano politicamente qualcosa si erano affrettati a dichiararsi democratico-repubblicani e solo in seguito fazioni e partiti vennero a riformarsi attorno ad altre personalità politiche capaci di imporsi. All’epoca in cui Monroe si presentava per la rielezione, tuttavia, quei partiti, quelle fazioni non erano ancora risorti e lui non ebbe praticamente oppositori.»
Avalon tacque e fissò gli altri visibilmente compiaciuto.
«Andiamo, Geoff!» replicò Trumbull. «Questi particolari tu li hai appresi solo recentemente, li hai letti chissà dove. Non darti le arie di chi è andato a frugare in chissà quale recesso della memoria per tirarle fuori adesso. E poi, dove vuoi arrivare?»
«Non le ho lette recentemente. Son cose che sanno anche i bimbi delle elementari, o almeno dovrebbero saperle se le scuole funzionassero come si deve. Quello che voglio dire, è che Monroe ottenne tutti i voti tranne uno. L’unico stato dissenziente fu il New Hampshire, mi sembra, che votò per Quincy Adams e coll’intento palese di far mancare l’unanimità del suffragio affermando che nessuno, dopo Washington, doveva essere eletto all’unanimità.
«Stando così le cose, voi capite che fu Monroe e non Roosevelt il presidente che ottenne il maggior numero di suffragi dopo Washington, e quindi Roosevelt fu soltanto terzo. Ecco perché lei, signor Gardner, non ha trovato alcun Roosevelt nelle liste dei dispersi. Il nome di quel soldato doveva essere Monroe.»
Gardner si guardava attorno sbalordito. «Incredibile» disse alla fine. «Quasi non riesco a crederlo. Non ho mai avuto dubbi, nemmeno per un istante; ho sempre avuto la convinzione che fosse Roosevelt. Ma lei ne è proprio sicuro?»
«Possiamo controllare» rispose Avalon, stringendosi nelle spalle. «Sullo scaffale ci sono alcuni almanacchi…»
«Henry, non si scomodi a prendere gli almanacchi!» disse Rubin. «Geoff ha ragione, questa volta, almeno.»
«Penso che ora potrò ritentare. L’esercito dovrebbe conservare per sempre i propri archivi, e a Washington dovrei trovare qualcosa» disse Gardner. «Sono veramente mortificato. Se non fossi stato tanto presuntuoso, se avessi controllato, forse sarei riuscito a rintracciare quelle due donne vent’anni fa.»
«Non ne sarei tanto sicuro» rispose Drake, meditabondo. «Mi sembra che ci siano due aspetti da tenere presenti prima di poter dire che l’identificazione è possibile. Quel presidente era il secondo classificato per numero di voti ottenuti, ma era anche molto amato dal popolo, se non erro. Ora, noi tutti possiamo garantire che Roosevelt godette di molta popolarità, ma Monroe?»
«Nulla» rispose prontamente Rubin. «Nulla. Monroe aveva ereditato la presidenza perché in quel tempo era diventata quasi una tradizione l’assegnazione di quella carica a un virginiano. Era il quarto virginiano, su cinque presidenti eletti. I tre virginiani che l’avevano preceduto erano Washington, Jefferson e Madison. Monroe fu l’ultimo dei virginiani, e il più insignificante di tutti. L’unica sua opera degna di menzione è la dottrina che porta il suo nome, (anticolonialismo) ma la formulazione di quella dottrina fu, in realtà, opera di John Quincy Adams, che era diventato il suo segretario di stato.»
«Insomma, è Monroe sì o no il secondo classificato?» domandò Gardner. «Voi, signori, avete scombussolato tutte le mie idee in proposito. Ebbene, qual è la risposta?»
«Non ne sono sicuro» rispose Rubin. «Quanto a popolarità, sono sicuro che non poteva essere Monroe. E poi, la Costituzione attribuisce al collegio elettorale il privilegio di eleggere il presidente, ma per le prime otto elezioni, se rammento bene, non vi sono tracce di un voto popolare. Nessun candidato alla presidenza doveva impegnarsi per ottenere i favori del pubblico in quei primi tempi della nostra repubblica; doveva solo intrigare per ottenere i voti di pochi grandi elettori e le manovre che il sistema comportava non avevano niente a che fare con le nostre campagne elettorali. Ne consegue che, volendo fare una graduatoria per numero di suffragi ottenuti, dobbiamo eliminare i primi presidenti, eletti con un sistema che nulla aveva a che fare col sistema moderno. Per me, io sono convinto che quel soldato morente non pensava affatto né a Washington né a Monroe.»
«E quando ebbe inizio la nomina dei presidenti con suffragio universale?» domandò Gardner, soffregandosi il mento.
«La prima campagna elettorale di tipo moderno, una specie di pagliacciata ricca di calunnie, libelli e trucchi ignobili, fu quella del 1840» rispose Rubin, aggrottando la fronte. «La vinse William Henry Harrison e lo sconfitto fu Martin Van Buren. Io penso che dovremmo partire da lui.»
«No, Manny» obiettò Avalon. «La campagna elettorale del 1840 può aver impresso uno stile che dura ancora oggi, ma io credo che dovremmo risalire al presidente Andrew Jackson e alla campagna elettorale del 1832.»
«E sta bene! Sta bene!» rispose Rubin, alzando le mani come se volesse scartare un’ipotesi di nessuna importanza. «Iniziamo pure da Andy Jackson, se vuoi.»
«Johnson ottenne una valanga di voti nel 1964 e Nixon ne ottenne un’altra nel 1972» fece osservare Drake, fissando gli altri da dietro le lenti a contatto. «Però quel soldato era morto nel 1950…»
«Esatto» rispose Gardner. «Quando quel poveretto morì, era presidente Truman, e quindi noi dobbiamo fermarci a lui.»
«Sono sicuro che se limitiamo le nostre ricerche ai presidenti che abbiamo avuto a partire da Jackson per finire a Truman, quello che ottenne il maggior numero di voti fu senz’altro Roosevelt nelle elezioni del 1936» disse Avalon. «Quanto al secondo classificato, sono assolutamente certo che fu Warren Harding, che batté James Cox nelle elezioni del 1920.»
«Dunque, lei afferma che fu Harding?» domandò Gardner.
«Non credo davvero» replicò prontamente Rubin. «Nessuna persona sana di mente potrebbe supporre che quel soldato si sarebbe vantato degli addentellati politici del proprio nome se si fosse chiamato Harding!»
«Ma se Geoff ha ragione, e se Harding vinse davvero le elezioni col secondo maggior numero di voti, allora il nome che cerchiamo è il suo» obiettò Drake. «Non si può negare la realtà dei risultati numerici!»
«E invece sì che puoi» replicò Rubin. «Basta che il giudizio da formulare debba basarsi su una serie di dati diversi da quelli che abbiamo considerato sin qui. Il fatto è che in tutta la storia delle nostre elezioni presidenziali nessuno raccolse più voti di quanti ne raccolse Roosevelt, e proprio per questo motivo io sono rimasto assai sorpreso quando ho sentito che Gardner lo classificava al secondo posto. Ma per quale motivo Roosevelt è considerato il primo di tutti? Non per la percentuale di voti ottenuti, ma perché venne eletto presidente in quattro elezioni successive: nel 1932, nel 1936, nel 1940 e nel 1944, mentre nessun altro presidente è stato eletto più di due volte. È il numero delle elezioni quello che conta.»
«Non mi sembra che con questo facciamo un qualche passo avanti» obiettò Gardner. «Se la sua teoria è quella giusta, chi dobbiamo mettere al secondo posto?»
«Be’, non lo so» rispose Rubin. «Dovrebbe essere uno dei presidenti eletti due volte, ma come si fa a dire quale di essi? Dipende dai pregiudizi, dalle preferenze del vostro amico.»
«Forse no» disse Avalon. «Se era un esperto in materia, doveva pur avere un criterio logico sul quale basare le sue scelte, e in questo caso noi dovremmo essere in grado di scoprirlo.»
«C’è il particolare delle simpatie del pubblico» disse Gonzalo. «Quale presidente fu più amato dal popolo, dopo Roosevelt? Questo criterio potrebbe darci la risposta che cerchiamo.»
«Io sono di parere diverso» disse Rubin. «Tutti i presidenti sono amati o stimati da quelli che votano per loro. È una specie di riflesso condizionato. Insomma, io penso che almeno una quarta parte dell’elettorato sia ancora convinta che a Nixon hanno giocato un brutto tiro e che lo stimi e lo rispetti ancora. Io penso che dovremmo andar cauti quando si tratta di ricorrere a questo criterio.»
«Cerchiamo di non parlare a vanvera» disse Avalon. «Roosevelt è il solo presidente che sia stato eletto quattro volte e non c’è stato alcun presidente che sia stato eletto tre volte. Come conseguenza, siamo costretti a cercare il secondo classificato fra quelli che sono stati eletti due volte e ce ne sono sei se limitiamo la ricerca ai mandati presidenziali compresi nel periodo da Jackson a Truman, e purché io non abbia errato. Io ne dirò i nomi, e tu, Manny, controlla; se poi non fossimo d’accordo, potremmo sempre consultare un almanacco per vedere chi ha ragione. Dunque, di presidenti eletti due volte abbiamo: Andrew Jackson, Abraham Lincoln, Ulysses S. Grant, Grover Cleveland, William McKinley e Woodrow Wilson.
«Adesso possiamo incominciare le eliminatorie, e tu, Manny, continua a controllare e correggimi se occorre. La prima elezione di Lincoln nel 1860 fu un colpo di fortuna e non depone certo a favore delle simpatie che poteva suscitare nell’elettorato, senza contare che si trovò a lottare contro un partito democratico diviso che presentò contro di lui addirittura due candidati: Stephen Douglas e John Breckenridge e mi sembra inoltre che si fosse presentato candidato anche un terzo individuo, un certo Bell. Se Lincoln si fosse trovato dinanzi un’opposizione unita, compatta, non c’è dubbio che sarebbe stato sonoramente battuto. Invece le cose andarono diversamente e Lincoln riuscì a racimolare la maggioranza dei voti elettorali pur avendo la minoranza nel voto popolare.
«La stessa cosa può dirsi di Woodrow Wilson, che nel 1912 si trovò a competere contro due rivali: Theodore Roosevelt e William Howard Taft. Se il partito repubblicano si fosse presentato unito, compatto a quelle elezioni, Wilson avrebbe subito una brutta batosta. Grover Cleveland vinse le elezioni due volte, ma non successive! Batté James Blaine nel 1884 e Benjamin Harrison nel 1892, ma venne sconfitto nel 1888. Così Cleveland è il ventiduesimo e il ventiquattresimo presidente, l’unico, nella nostra storia, i cui mandati presidenziali abbiano due numeri distinti.
«Restano solo tre presidenti che vinsero le elezioni senza poter trarre vantaggio da fratture e discordie dell’opposizione: Jackson, Grant e McKinley. Il secondo classificato dovrebbe essere uno di questi tre.»
Avalon tacque un momento. «Solo che io non saprei dire quale dei tre» disse poi, vedendo che gli altri tacevano.
«E a che serve un’analisi che ci lascia con tre candidati?» brontolò Trumbull.
«Io insisto sul fatto che quel presidente doveva essere amato dal popolo» disse Gonzalo. «Quella frase doveva avere un senso!»
«Non lo so» rispose Rubin, stringendosi nelle spalle. «Per esempio, McKinley era una persona gentile, amabilissima nella vita privata, ma come presidente fu un debole e non riscosse mai molte simpatie. Invece fu il suo antagonista, uscito sconfitto alle elezioni, che riscosse sempre le simpatie fanatiche dei suoi sostenitori.»
«E questo fa di McKinley una figura anche più significativa, se è vero che riuscì a spuntarla contro un concorrente tanto quotato» replicò Gonzalo.
«Forse» ammise Rubin. «Ma adesso noi stiamo lavorando sul presupposto che il nostro presidente fosse un tipo capace di ottenere un gran numero di voti e di farsi amare! E allora non può essere McKinley. Grant era un eroe, l’idolo che aveva vinto la guerra di secessione, e dovevano essere in parecchi a idolatrarlo. Ma quelle vittorie le aveva ottenute in una guerra civile, sconfiggendo una parte del nostro popolo, ed è ragionevole supporre che non fosse molto benvoluto negli stati del sud.»
«E poi, era anche corrotto, se non sbaglio» disse Gonzalo.
«Non lui. Erano corrotti quelli che lo circondavano, ma questo particolare non emerse appieno se non dopo la sua rielezione nella campagna elettorale del 1872, e quindi non ha nulla a che vedere col nostro caso. Così ci resta solo Andrew Jackson, un uomo capace di accentrare su di sé masse di voti, idolatrato da molti dei suoi sostenitori, che godeva di una popolarità estesa in tutti gli stati e in tutti gli strati della popolazione.»
«Un uomo abbondantemente odiato da molti, anche» brontolò Trumbull.
«Come ogni presidente. Persino Franklin Delano Roosevelt non sfuggì a questa regola. No! Io sono quasi sicuro che il secondo presidente da classificare in questa graduatoria dev’essere Jackson, senza contare che il suo è un nome assai diffuso. Scommetterei che c’è una quantità di soldati che si chiamavano Jackson, dispersi nella guerra di Corea.»
Seguì un silenzio prolungato. «Bene!» disse Gardner, come se volesse chiudere la discussione. «Vedrò di rintracciare tutti i dispersi che si chiamavano Jackson. Forse, per maggior sicurezza, dovrei effettuare ricerche anche sui nomi Harding, Monroe e McKinley.»
«Forse farebbe meglio a fare ricerche sui nomi di tutti i presidenti» disse Avalon. «Le argomentazioni di Manny sono ingegnose, ma troppo raffinate per convincere, e io penso che anche lui se ne sia accorto.»
«Ma nemmeno per idea!» protestò Manny, accalorandosi in quella difesa. «Coi dati disponibili, non vedo quali soluzioni ci siano più ragionevoli di questa. Se qualcuno ne trova una che sia migliore della mia, l’ascolterò volentieri.»
«È una sfida che vale per tutti?» domandò Gonzalo.
«Sì.»
«Anche per Henry?»
«Anche per Henry» rispose Rubin, dopo una breve esitazione. «Io non vedo come si possa correggerla o migliorarla.»
«Henry, adesso è affar suo» disse Gonzalo. «Lo faccia pure a pezzi, se crede.»
Henry, che da tempo aveva sparecchiato e riordinato la cucina, era rimasto ad ascoltare la conversazione col massimo interesse. «Quando si tratta di storia americana, non posso certo competere col signor Rubin né col signor Avalon» disse.
«Suvvia, Henry!» rispose Gonzalo. «Manny e Geoff le diranno tutto quello che vuole sapere in fatto di storia. A me basta che lei corregga, che migliori la teoria esposta da Manny!»
«Non sono sicuro di poterci riuscire» protestò prudentemente Henry. «Però avrei una domanda per il signor Gardner, se posso permettermi.»
Gardner, che pareva confuso dall’intromissione del cameriere in quella discussione, si affrettò ad acconsentire. «Sì, certo.»
«Alcuni dei signori presenti, e anche lei, hanno accennato al secondo presidente classificato per numero di voti ottenuti e anche per la popolarità goduta. Tuttavia, non sono proprio queste le esatte parole pronunciate da lei, quelle che a me sembra di rammentare. Quel soldato moribondo aveva detto testualmente: “Gli hanno voluto bene”?»
«No» rispose Gardner, dopo aver riflettuto brevemente. «Aveva detto: “Gli vogliono bene”.»
«Ne è sicuro, signor Gardner? Son trascorsi tanti anni da allora…»
«D’accordo. Ma vi ho ripensato molto nei primi mesi e quella frase mi era rimasta profondamente impressa. Disse proprio: “Gli vogliono bene”.»
«Ho capito cosa vuol dire Henry» intervenne Gonzalo. «Dicendo: “Gli vogliono bene”, quel poveretto non si riferiva al popolo, alla massa degli americani, e quando avremo scoperto a chi si riferiva, avremo risolto il mistero. È così, Henry?»
«Be’, no, signor Gonzalo» rispose Henry. «Io penso piuttosto che si riferisse proprio al popolo nel suo insieme, ma volevo solo sentir ripetere la frase esatta. Signor Gardner, fu, come dire, un discorso concluso, oppure quel soldato cercò di aggiungere qualcosa ancora?»
«Henry, questa volta lei mi ha messo nel sacco. Non lo rammento più.»
«Ma fu l’ultima cosa che disse? “Gli vogliono bene” e non aggiunse altro? Forse voleva dire qualcosa ancora, voleva chiarire, spiegare e non vi riuscì?»
«Penso di sì, ma non ne sono sicuro.»
«E tutto questo cosa c’entra?» domandò impazientemente Trumbull.
«Non potrei ancora dire con certezza» rispose Henry. «Comunque, il signor Rubin ha detto qualcosa che ha suscitato la mia curiosità. Signor Rubin, lei ha detto che Grover Cleveland è stato eletto due volte, in due elezioni non consecutive?»
«Sì, Henry. Nel 1884 e nel 1892.»
«E venne battuto nel 1888?»
«Sì, da Benjamin Harrison, sul quale si prese la rivincita nel 1892. Fu un avvenimento decisamente insolito quello di un presidente in carica battuto nella sua seconda candidatura dall’avversario che era stato battuto nella campagna elettorale precedente, e tutti e due subirono, in due sole campagne elettorali, la sconfitta e trionfarono sull’avversario.»
«Sì, signor Rubin» disse pazientemente Henry. «Ma ciò che interessa è che Cleveland si presentò candidato di uno dei maggiori partiti per tre volte di seguito.»
«Infatti. Ma vinse solo due volte.»
«Capisco. Degli altri cinque presidenti che furono eletti due volte ce n’è qualcuno che si sia presentato candidato per una terza elezione?»
«C’è Andrew Jackson. Anche lui si presentò candidato tre volte e fu eletto solo due.»
«Henry Clay e William Jennings Bryan si presentarono candidati tre volte e vennero sempre sconfitti» disse Avalon. «Henry Clay…»
«Nixon si era presentato tre volte e aveva vinto due volte» disse Trumbull, interrompendolo in fretta. «Ma questo è stato dopo la guerra di Corea.»
«E come se la cavò Cleveland nella seconda candidatura, quando vinse Harrison?» domandò Henry.
«Non saprei dirle le cifre esatte, ma credo che sia stato battuto per uno scarto esiguo di voti» rispose Rubin.
«Forse, a questo punto, dovremmo consultare un almanacco» disse Henry, prendendone uno.
«Lo dia a me» disse Rubin. «So dov’è.» Prese a sfogliare l’almanacco, fermandosi finalmente e scorrendo con l’indice verso il basso, poi gli altri lo udirono fischiare, piano. «Guarda guarda! Cleveland era stato battuto nella votazione dei collegi elettorali per 233 voti contro 168, ma aveva ottenuto la maggioranza nel suffragio popolare. Quasi quattrocentomila voti più di Harrison. E non si era trattato nemmeno di una maggioranza assoluta, perché si erano presentati anche due candidati con scarso seguito, proibizionisti e sindacalisti!»
«E allora io penso che se Franklin Delano Roosevelt ha vinto quattro elezioni in ordine successivo, Grover Cleveland ha ottenuto la maggioranza dei voti in tre elezioni pure successive, e dev’essere considerato come il secondo classificato.»
«Calma!» disse Avalon, intento a sfogliare l’almanacco. «Manny ha detto che anche Jackson si era presentato una terza volta e infatti, era stato sconfitto nel 1824, anche se proprio in quell’anno aveva ottenuto la maggioranza dei suffragi popolari. Anche Jackson, quindi, ha avuto la maggioranza in tre elezioni!» concluse, tenendo l’almanacco aperto davanti a Henry.
«Infatti, signor Avalon» disse Henry. «Ma il signor Rubin ha scartato le vittorie ottenute contro un’opposizione divisa e discorde e nel 1824 Jackson dovette lottare contro ben tre candidati di tutto rispetto mentre Cleveland ottenne la maggioranza dei voti popolari in tre elezioni successive ogni volta contro un’opposizione compatta. Il secondo classificato resta sempre lui.»
«Henry, lei mi convince» disse Rubin. «Ma come ha fatto a indovinare? O forse lo sapeva che Cleveland aveva avuto più voti popolari di Harrison quando venne sconfitto da quest’ultimo?»
«Ma è chiaro, no?» disse Gonzalo. «Mentre noi discutevamo, Henry ha consultato le statistiche contenute nell’almanacco. Vero Henry?»
«No, signore» rispose il cameriere. «Non è stato necessario.»
«Francamente» disse Gardner, piuttosto annoiato «non mi sembra che l’analisi di Henry sia migliore delle altre.»
«Infatti non lo sarebbe se si basasse solo sui dati statistici» ammise Henry. «Però lo diventa quando i dati statistici vengono usati a conferma di una deduzione nata da altre premesse.»
«Quali altre premesse, Henry?» domandò Avalon. «Andiamo, la smetta di tenerci sulle spine.»
«Signor Avalon, mentre il signor Gardner narrava l’episodio, ho pensato che forse quel poveretto non intendeva affatto alludere a un episodio attuale dicendo quella frase: “Gli vogliono bene”, ma ho pensato che quella fosse una citazione non terminata e quest’idea mi sembra particolarmente giusta se pensiamo che il tempo usato è il presente.»
«E con ciò?»
«Allora ho rammentato che i nostri politici fanno largo uso di una frase: “Gli vogliono bene soprattutto per i nemici che s’è fatto”. Io, però, pensavo che quella frase si riferisse al presidente Franklin Delano Roosevelt, ma non ne ero sicuro. Allora, mentre voi discutevate, io ho consultato Bartlett. Quella frase era stata pronunciata il 9 luglio 1884 da un certo Edward Stuyvesant Bragg che in quell’anno si adoperava per far eleggere Grover Cleveland.»
«Henry, lei mi ha messo nel sacco» disse Gardner, alla fine, rompendo il lungo silenzio meravigliato seguito alle parole del cameriere. «Le dispiacerebbe se facessi un articolo su di lei, un giorno o l’altro?»
(Titolo originale: Second best)
“Il secondo classificato” l’ho scritto nell’agosto del 1976, quando la campagna elettorale era nel suo massimo fervore. Forse era inevitabile che, con quel che stava accadendo intorno a me, ne traessi un racconto per questa raccolta.
Non è stata una bella idea, comunque. Sono smaliziato quanto basta per sapere che non si dovrebbe mai scrivere su avvenimenti attuali, ma su fatti capaci di interessare i lettori nel momento in cui questi scritti saranno pubblicati. Dopo tutto, occorrono circa nove mesi prima che un racconto, accettato, venga pubblicato dalla «Ellery Queen’s Mystery Magazine».
Presentai in tutta tranquillità il mio racconto, perché mi piaceva, ma Fred Dannay volle pubblicarlo solamente a elezioni avvenute, quando i lettori ne avrebbero avuto fin sopra i capelli di elezioni e di campagne elettorali.
Un simile errore era a dir poco imbarazzante, ma aveva anche i suoi vantaggi. In ciascuno dei primi due volumi della serie io avevo incluso tre racconti che non erano stati pubblicati in precedenza. In questo volume avevo deciso di inserire tre racconti mai pubblicati prima e “Il secondo classificato” è il primo dei tre.