La pagina sportiva

«Blain è una parola inglese?» domandò Mario agli amici, riuniti per la cena che radunava mensilmente i Vedovi Neri. (Blain:vescicole cutanee)

«Hai detto brain?» domandò James Drake, trascinando la sedia sino alla tavola e indugiando a guardare la varietà di panini e tartine.

«Blain!» replicò Gonzalo, calcando sulla parola.

«Prova a sillabare» disse Roger Halsted, che non aveva esitato a prendersi due fette di pane di segale e se le stava imburrando.

«E se sillabassi, che differenza farebbe?» domandò Gonzalo, annoiato, stendendo accuratamente il tovagliolo sui pantaloni a righe sottili su fondo decisamente rosa. «Sillabatela come vi pare, ma è una parola inglese sì o no?»

Thomas Trumbull, che quella sera ospitava gli amici, aggrottò la fronte abbronzata e sbottò: «Accidenti a te, Mario. Sin qui, la discussione è stata più che interessante. Cosa cavolo ti rode visto che insisti tanto con quella parola?».

«Insomma, vi ho fatto una domanda. Volete rispondere, sì o no?»

«E va bene! Non è un termine inglese.»

«Tutti d’accordo?» domandò Gonzalo, fissando gli altri a uno a uno. «Dunque, blain non è un termine della lingua inglese?»

Gli altri assentirono in coro, sia pur con qualche esitazione. Persino Emmanuel Rubin, gli occhi resi più grandi dagli occhiali, la barba arruffata più corta del solito come se se la fosse accorciata pensando ad altro, sorrise e disse: «Mai sentita pronunciare».

«E sta bene» disse Gonzalo. «Tutti quanti siete convinti che non si tratta di un termine inglese. Vedremo fra poco, ma per ora ditemi, come potete esserne certi? Ripassate mentalmente una lista di termini inglesi che conoscete e vi accorgete che “blain” non è fra quelli? Ricercate le affinità con altri suoni che vi sono familiari? Oppure…»

«Perché lo chiedi?» replicò Halsted. «Nessuno sa quale sia il meccanismo che gli permette di ricordare le parole. Nemmeno le persone che hanno formulato qualche teoria sul meccanismo della memoria, sul suo funzionamento sanno spiegare come le informazioni possono essere ripescate fuori una volta che vi siano state inserite. Ogni parola che uso dev’essere ripescata dal mio vocabolario; tutte le parole che conosco son lì e posso usarle quando occorre.»

«Capita spesso che la parola giusta, quella che cerchi, non ti viene quando ti occorre» osservò Trumbull.

«Sì» disse Halsted, che aveva iniziato a mangiare la zuppa di tartaruga che Henry, l’incomparabile cameriere di quei convegni, gli aveva messo davanti. «E il fatto che non si riesca a trovare la parola giusta ti mette in imbarazzo. Molti ci restano male, ci si arrabbiano, si turbano come se fosse andata male qualcosa che non doveva. Io, per esempio, incomincio a balbettare quando non riesco a trovare la parola giusta.»

Halsted, infatti, incespicava leggermente nel parlare anche in quel momento.

«Aspettate! Aspettate!» disse Avalon, con la sua voce baritonale, sovrastando le voci degli altri. «Per la precisione, nella lingua inglese esiste la parola “blain”. È una parola arcaica, ma è inglese. È una malattia degli animali, una specie di eruzione cutanea, qualcosa del genere.»

«Esatto!» disse Gonzalo, soddisfatto. «È una parola che si trova nella Bibbia e sta a indicare una delle sette piaghe d’Egitto nel libro dell’Esodo. Lo sapevo che qualcuno avrebbe ricordato, ma pensavo che sarebbe stato Manny.»

«Ma io pensavo che tu ti riferissi all’inglese moderno!» replicò Rubin, indignato.

«Io non ho detto che apparteneva all’inglese corrente» replicò Gonzalo

«Niente affatto» replicò Rubin, accalorandosi ancora di più. «E poi…»

«Smettila di protestare, Manny» intimò Trumbull. «Io, invece, vorrei che Mario mi dicesse come fa a sapere queste cose. E, sia detto per inciso, questa sera filetti di merluzzo; li ho ordinati io, ma se a qualcuno non dovessero piacere, può sempre mettersi d’accordo con Henry per farsi dare qualcosa di diverso. E adesso, Mario, sentiamo…»

«Io ne ho letto qualcosa in un libro di psicologia» rispose Gonzalo. «Dico che l’ho letto e non pretendo di essere nato sapiente, non penso di sapere tutto come Manny. Io, il sapere, lo acquisisco tenendo gli occhi e le orecchie aperti, ma adesso voglio solo fare un’affermazione: rammentare troppo bene è pericoloso.»

«È un pericolo che tu non correrai mai» brontolò Rubin.

«Me ne infischio» replicò Gonzalo. «E poi, senti, ho fatto una domanda e ho ottenuto una risposta sicura, subito, da tutti, tranne che da Jeff, che era incerto ed esitava solo perché rammentava troppo bene. Lui rammentava l’uso della parola “blain” nella Bibbia. Ma gli esseri umani si trovano a dover prendere decisioni improvvise, si può dire a ogni minuto. Quando una decisione s’impone in fretta, bisogna basarla sulle conoscenze di chi deve prenderla. Ma se quello sa troppo, allora esita.»

«E con ciò?» ribatté Drake, che dopo aver infilzato un pezzo di merluzzo con la forchetta se l’era infilato in bocca come incerto, poco convinto della scelta, ma adesso pareva soddisfatto.

«Con questo, l’esitazione è un malanno» rispose Gonzalo. «In ogni caso, ciò che conta maggiormente è una risposta pronta, agile. Anche una decisione che non sia ottimale è sempre preferibile alla indecisione. È una verità valida in quasi tutti i casi, ed è per questo motivo che gli esseri umani hanno sviluppato una memoria imperfetta.»

Avalon annuì e sorrise. «Non è una teoria da scartare, Mario» disse, forse con una traccia di condiscendenza nella voce. «Non ti ho mai parlato della mia teoria sull’importanza dell’aggressività nella evoluzione delle specie? In una società di cacciatori…»

Ma Gonzalo alzò tutte e due le mani per farlo tacere. «Non ho ancora finito, Jeff, non ho finito! È per questo motivo che il nostro Henry è molto più bravo di noi quando si tratta di risolvere enigmi che noi non riusciamo a penetrare. Non ve ne siete accorti? Ognuno di noi ha una cultura profonda…»

«No, Mario. Non ognuno di noi» lo interruppe Rubin. «A meno che tu non abbia incominciato da poco.»

Gonzalo lo ignorò. «Henry, invece, non s’inquina la mente con una quantità d’informazioni di nessuna importanza come facciamo noi, e così può ragionare senza intoppi, chiaramente.»

Henry, che stava togliendo i piatti vuoti, rimase impassibile, ma dal suo viso di sessantenne traspariva un’intelligenza non comune. «Se posso interromperla, signor Gonzalo» disse amabilmente «temo che non potrei mai fare quello che faccio se voi, signori, non sbarazzaste quasi sempre il terreno da tutto ciò che altrimenti potrebbe imbarazzarmi e confondermi.»

Henry tacque e incominciò a versare il vino bianco.

«Mario, la tua teoria non vale un fico» ribatté Trumbull. «Quanto a lei, Henry, quella falsa modestia non le si addice. Lei ha più cervello di ciascuno di noi e lo sa.»

«No, signore. Con rispetto, al massimo posso riconoscere che ho il dono di vedere ciò che è ovvio.»

«Perché lei non incontra la difficoltà di dover considerare i fatti attraverso uno strato più o meno folto di informazioni inutili, come invece accade a Manny» rispose Gonzalo.

Henry chinò leggermente la testa e parve quasi sollevato quando l’infuriato Rubin si lanciò in una analisi del valore che per uno scrittore può avere un’informazione composita e infervorandosi a mano a mano che parlava, sostenne l’importanza del quoziente intellettivo generale sulla capacità di rammentare, analizzare e sintetizzare.

Ma Pentili, l’ospite d’onore di quella sera, pareva distratto. Quasi che avesse perso ogni interesse in quella conversazione, il suo sguardo seguiva pensosamente Henry intento alle sue faccende.

* * *

Dopo aver atteso che gli altri finissero il dolce, preso il caffè, Trumbull batté col cucchiaino sul suo bicchiere e, ottenuto il silenzio, annunziò che era venuta l’ora di iniziare la torchiatura. «E siccome sono il padrone di casa» aggiunse «vi dirò la mia contentezza di non dover essere io a torchiare il nostro ospite. Mario, visto che tu non hai fatto altro che predicare per tutta la cena, perché non lo metti tu sotto il torchio?»

«Con vero piacere» rispose Gonzalo, incapace di nascondere la pronunzia spagnola. «Signor Pentili, cosa fa lei su questa terra per giustificare il suo diritto all’esistenza?»

Pentili sorrise ampiamente, gonfiando i pomelli delle guance tanto da sembrare un babbo natale senza barba, sorridente e bonario. «Ringraziando il cielo, non occorre più che giustifichi il mio diritto all’esistenza. Sono in pensione, e delle due l’una: o la mia esistenza l’ho già giustificata, oppure ho fatto miseramente fiasco.»

«E negli anni in cui doveva pur giustificarla, in un modo o nell’altro, cosa faceva per renderla possibile?»

«Respiravo. Ma se intende chiedermi cosa facevo per guadagnarmi da vivere, ebbene, servivo lo Zio Sam più o meno come lo serve il nostro comune amico Tom.»

«Ah! È dunque un esperto di codici cifrati?»

«No. Ho avuto a che fare col servizio informazioni.»

«E le pare che basti per giustificare la sua esistenza?» domandò Rubin.

«Vuoi discutere l’argomento?» domandò amabilmente Pentili.

«No» intervenne Trumbull. «È stato discusso cinquanta volte. Continua, Mario.»

«L’ultima volta che Tom ha invitato un ospite a casa sua, qui cioè, quell’ospite aveva un problema da risolvere» riprese a dire Mario, contento dell’occasione. «Ha qualche problema anche lei?»

«Attualmente no, certo. Oggi come oggi, i problemi li lascio a Tom e agli altri e io mi accontento di essere spettatore e spensierato. Ma avrei una domanda, però, se posso formularla.»

«Certo che può.»

«Lei ha detto che Henry… che credo sia il nostro cameriere…»

«Henry è un membro apprezzato dei Vedovi Neri» lo interruppe Trumbull. «È il migliore di noi tutti.»

«Capisco. Ma mi sembra di aver capito che Henry sa risolvere anche enigmi difficili. Di che genere?»

Un’ombra d’imbarazzo apparve sul volto di Henry, ma svanì veloce com’era apparsa. «Nelle discussioni che quasi sempre accompagnano questi incontri conviviali, nascono a volte interrogativi ai quali i membri hanno sempre saputo dare una risposta» rispose.

«Lei ha risposto» affermò energicamente Gonzalo.

«Protesto!» esclamò Avalon, alzando una mano. «Questo è un argomento che non dovrebbe essere nemmeno discusso. Tutto quanto viene detto qui deve rimanere strettamente riservato; nessuno di noi dovrebbe menzionare quanto è avvenuto nelle sessioni precedenti in presenza dell’ospite di questa sera!»

«No, no!» protestò Pentili, scuotendo la testa. «Io non chiedevo questo. Nessuna indiscrezione, però ho pensato che, se non c’è nulla che lo vieta, avrei un piccolo problema per Henry.»

«Ma non aveva detto di non avere alcun problema?» gli fece osservare Gonzalo.

«Ho detto che non ho problemi attualmente» replicò Pentili, momentaneamente imbarazzato da quell’osservazione. «Però ne ho avuto uno, parecchi anni or sono; un problema, un enigma che, per me, non è stato mai risolto in maniera soddisfacente. Ora quel problema non ha più alcuna importanza, come potete immaginare. È solo, se posso esprimermi con un paragone, come un minuscolo granello di sabbia nell’ingranaggio della mia curiosità.»

«Larry, di cosa si trattava?» domandò Trumbull, subito incuriosito.

«Tu eri stato assunto da poco, Tom, e quel problema non ti riguardava. Anzi, tranne me, non ha interessato quasi nessuno.»

«Possiamo sapere di che si trattava?» domandò Gonzalo.

«Come ho già detto» riprese a dire Pentili «è un fatto senza alcuna importanza e io non avevo pensato di parlarvene. L’idea mi è venuta sentendo che Henry ha un talento particolare per…»

«Se posso permettermi una parola, signore…» disse Henry. «Vorrei spiegarle che io non sono quell’esperto risolutore di misteri che il signor Gonzalo ha così cortesemente dipinto. Ci sono state alcune occasioni nelle quali ho potuto dare una mano, è vero, ma solo dopo che i signori avevano dibattuto l’argomento e avevano eliminato molto di quanto non era essenziale. A ogni modo, se salta fuori qualche indizio, posso scoprirlo anch’io come chiunque, ma non so fare più di questo.»

«Oh!» esclamò Pentili, che pareva deluso. «Bene! Vuol dire che sottoporrò il problema a tutti i convenuti, in generale.»

«In questo caso, signor Pentili, noi l’ascolteremo con la massima attenzione» disse Avalon.

Dopo aver finito il brandy e averne rifiutato un secondo, Pentili incominciò a raccontare.

«Signori, vorrei pregarvi di ritornare, con la memoria, al 1961. John Fitzgerald Kennedy aveva assunto da qualche mese appena il suo tragico mandato presidenziale e proprio in quel periodo si facevano i preparativi per l’invasione di Cuba, che doveva essere effettuata da esuli cubani armati e addestrati da noi. Assumendo la presidenza, Kennedy aveva ereditato quei progetti, ma temendo le ripercussioni politiche internazionali aveva negato agli esuli che dovevano sbarcare a Cuba l’appoggio delle Forze Aeree americane. Del resto, i responsabili dei nostri servizi segreti gli avevano assicurato che il popolo si sarebbe ribellato al regime castrista e si sarebbe unito agli invasori. Questi avrebbero formato rapidamente un governo di liberazione che avrebbe chiesto il riconoscimento e l’appoggio degli Stati Uniti, e noi avremmo potuto intervenire militarmente salvando la faccia dinanzi al mondo.

«Adesso, col senno di poi, è facile affermare che agimmo con imperdonabile leggerezza, che sottovalutammo la saldezza del potere castrista sull’esercito e sul popolo cubani, ma in quel periodo tutti quelli che se ne occuparono vedevano l’impresa avvolta in una nube rosea, una semplice passeggiata militare. Voi tutti sapete cosa accadde. Gli esuli cubani sbarcarono nella Baia dei Porci e immediatamente vennero assaliti da reparti castristi ben armati e organizzati; il popolo cubano non si ribellò e, mancando ogni appoggio aereo, gli invasori vennero uccisi o fatti prigionieri. Per quei poveretti fu una tragedia, per gli Stati Uniti fu uno smacco imbarazzante. Kennedy si assunse la responsabilità della sconfitta perché il Presidente era lui, perché era stato lui a dare il via all’invasione. Non occorre dire che c’erano in ballo responsabilità ben più gravi della sua, ma nessuno si fece avanti per pagare di persona. In quell’occasione, Kennedy stesso disse che “la vittoria ha mille padri, la sconfitta è una povera orfanella”.»

«Me lo rammento perfettamente» disse Rubin, che aveva ascoltato fissando il fondo della tazzina del caffè. «Riferendo quella frase, Kennedy disse che si trattava di una vecchia sentenza, ma nessuno, che io sappia, ne ha mai scoperto l’origine e io credo che gli storici l’attribuiranno a lui e non ad altri.»

«Certe esperienze lasciano il segno» disse Avalon, dopo essersi raschiata la gola. «Una sconfitta, o anche un semplice insuccesso, vogliono vendetta. Scosso dall’insuccesso della Baia dei Porci, Kennedy decise di non subire altre umiliazioni e l’anno dopo affrontò decisamente i sovietici nella questione dei missili russi installati a Cuba. Per gli Stati Uniti fu il più grosso successo ottenuto nel corso della guerra fredda.»

«Ma anche le vittorie lasciano il segno!» replicò Rubin, con veemenza. «Deciso a non mostrarsi meno fermo del suo predecessore, il presidente Johnson trascinò pian piano il paese nella trappola senza uscita dell’intervento nel Vietnam e come risultato…»

«Ma finitela, voi due idioti!» gridò Trumbull. «Questa non è una lezione di storia contemporanea. Dobbiamo ascoltare quello che deve dirci Pentili.»

Nel silenzio improvviso che seguì quella sfuriata, Pentili riprese a raccontare. «Oggi sappiamo come andarono le cose» disse con espressione piuttosto cupa. «I veri responsabili dello scacco subito nella Baia dei Porci erano i Servizi d’Informazione. Se noi fossimo riusciti ad apprezzare correttamente la situazione cubana, Kennedy avrebbe potuto annullare l’invasione o le avrebbe assicurato la necessaria copertura aerea. Né in un caso, né nell’altro, ci sarebbero stati insuccessi e né Castro né Krusciov si sarebbero illusi di poter installare impunemente i missili a centocinquanta chilometri dalle coste della Florida e, se accettiamo l’interpretazione psicostorica di Rubin, non avremmo avuto nemmeno la tragedia del Vietnam.

«Per me, quell’errore si poteva evitare. Avevamo un informatore piazzato a Cuba. Quell’uomo dovette tornare a Washington circa sei mesi prima dello sbarco nella Baia dei Porci per riferire cose che non aveva potuto trasmettere per radio…»

«E perché mai?» domandò Gonzalo.

«Perché quell’uomo giocava una partita molto difficile e non voleva correre rischi inutili. Era un agente sovietico, capite? Per noi era utilissimo, perché i sovietici non sospettavano di lui e gli consentivano di venire liberamente negli Stati Uniti, di avere contatti a Washington. Pensavano che spiasse noi per conto loro.»

«Forse non s’ingannavano affatto» disse Drake, fissando il fumo della sigaretta. «Come si fa a sapere chi sta per essere ingannato da una spia che fa il doppio gioco?»

«Forse tradiva gli uni e gli altri» disse Halsted.

«Forse» concesse Pentili. «Ma resta il fatto che i sovietici non riuscirono a scoprire nulla di più di quello che noi stessi passavamo alla loro spia perché lo rivelasse. Invece grazie a quell’uomo noi venimmo a scoprire molte cose che i sovietici non avevano interesse a farci sapere.»

«Io mi chiedo se i sovietici non abbiano fatto esattamente lo stesso ragionamento» replicò Rubin, con una forte nota di sarcasmo nella voce.

«Non credo» rispose Pentili. «Non lo credo perché, alla fine, furono i sovietici che eliminarono quell’uomo e non noi. Come fecero a scoprirlo, cosa fece lui per tradirsi non riuscimmo mai a saperlo, ma sappiamo con certezza che, alla fine, si convinsero che spiava per noi e non contro di noi. Fu un vero peccato, ma dal punto di vista dei russi quell’uomo era un traditore. Al loro posto, noi avremmo fatto la stessa cosa.»

«Francamente, io avrei esitato assai prima di fidarmi di un traditore» disse Avalon. «Chi ha tradito una volta, può tradire ancora.»

«Infatti» rispose Pentili. «E proprio per questo motivo quell’uomo non venne mai a sapere cose che potevano essere pericolose per noi. Tuttavia io, per esempio, ebbi sempre fiducia in lui, ho sempre avuto la convinzione che avesse scelto di lavorare per noi perché aveva finito per condividere i nostri ideali e durante i tre anni della sua collaborazione non ci diede mai motivo di sospetto, di preoccupazione.

«Si chiamava Stepan. Era un tipo molto serio, quasi privo del senso dell’umorismo; faceva il suo lavoro con zelo e coscienza. Deciso a imparare l’inglese alla perfezione, era un ascoltatore assiduo delle nostre trasmissioni radiotelevisive non per il loro contenuto, ma perché si rendeva conto della necessità di imparare bene la pronuncia cancellando ogni inflessione straniera; per arricchire il proprio vocabolario risolveva schemi di parole crociate senza curarsi se riusciva o meno ed era un giocatore accanito di scrabble (scarabeo) al quale, regolarmente, perdeva.»

«Non è quel gioco che si fa ordinando lettere scritte su pezzetti di legno in modo da formare parole?» domandò Avalon.

«Ha le sue regole e le sue complicazioni…» incominciò a spiegare Rubin.

Pentili lo interruppe. «Vedo che conosce l’essenziale, signor Avalon. Ho parlato di questo gioco perché ha qualcosa a che vedere con l’enigma che voglio sottoporvi. Stepan non riuscì mai del tutto nelle sue aspirazioni; non riuscì mai a cancellare l’accento russo, il suo frasario non s’arricchì quanto avrebbe voluto, ma continuammo a incoraggiarlo perché ci pareva un mezzo per legarlo maggiormente a noi e i russi fecero altrettanto, forse convinti che la perfetta conoscenza della nostra lingua gli avrebbe facilitato il compito di spiarci per conto loro.»

«Forse non si sbagliavano affatto» osservò seccamente Rubin.

«Lo uccisero loro, non lo dimentichi» replicò Pentili. «Nel settembre 1960 Stepan giunse negli Stati Uniti da Cuba. Noi, allora, avevamo solo un vago sentore delle sue attività nell’isola di Castro, ma sin dai primi, guardinghi contatti capimmo che aveva informazioni della massima importanza. Restava solo da scoprire un metodo sicuro per farci dare quelle informazioni senza bruciarlo come agente al nostro servizio.

«Ricorremmo a tutte le astuzie e stabilimmo con lui un contatto indiretto nella stanza di un albergo, ma disgraziatamente i russi avevano già scoperto che Stepan li tradiva. Qualcuno lo raggiunse prima di noi, e quando il nostro uomo giunse all’appuntamento, gli aveva già tappato la bocca. Lo avevano accoltellato e noi non potemmo mai sapere cos’aveva da dirci di tanto importante.»

«Ma è proprio sicuro che furono i russi a ucciderlo?» domandò Avalon, passando un dito intorno all’orlo della tazza del caffè, ormai vuota da un pezzo. «Quella in cui viviamo è una società violenta, molte persone vengono uccise quotidianamente per una quantità di motivi.»

«Voler attribuire a chissà mai quale motivo la morte di una spia che è sul punto di passare informazioni importantissime è chiedere troppo al caso! La polizia di Washington era propensa a considerare il delitto come un fatto ordinario, privo di addentellati politici e siccome la vittima era un cittadino sovietico, noi convalidammo questa tesi. Ma dalle indagini non scaturirono indizi di nessun genere: non c’eran stati furti, la sua vita privata non offriva motivi che inducessero a sospetti; chi l’aveva ucciso non aveva lasciato indizi di nessun genere, ma un criminale comune non sarebbe mai riuscito a fare un lavoro così pulito.

«Secondo: l’ambasciata sovietica mostrò un certo interesse per quel delitto, ma non quanto bastava per fugare i sospetti. Le nostre spiegazioni li convinsero subito. Terzo: certi canali d’informazione, che sarebbero rimasti aperti se i russi non avessero sospettato di Stepan o se fosse morto per tutt’altro motivo non connesso col suo lavoro, si chiusero di colpo. No, signor Avalon, per me non ci sono dubbi che Stepan morì come muoiono spesso gli agenti segreti.»

«Ma il mistero dov’è, insomma?» domandò Gonzalo, mentre si toglieva le briciole dal bavero della giacca, fatta su misura. «Signor Pentili, vorrebbe forse scoprire chi l’ha ucciso? Ora? Dopo che sono trascorsi tanti anni?»

«No! Non ha la minima importanza sapere chi l’ha ucciso. Tuttavia resta il fatto che dopo essere stato colpito a morte, Stepan deve aver cercato di farci sapere qualcosa, forse quel tanto che sarebbe bastato a darci un’idea sufficiente di quello che ci attendeva. Ma se la mia supposizione è esatta, bisogna dire che non vi riuscì. Dopo essere andato in pensione, mi è capitato di ripensare spesso, e con dispiacere, a quell’episodio; mi sono sempre chiesto se un maggior acume, una maggior insistenza da parte nostra sarebbero stati in grado di risparmiare al nostro paese scacchi cocenti negli anni che seguirono quel delitto.»

«Signor Pentili, le chiedo scusa per la domanda che sto per farle» disse Halsted «ma l’hanno forse costretta ad andare in pensione in seguito alla morte di quello Stepan?»

«Vuol sapere se mi hanno costretto a dimettermi per punizione? Ebbene no. Quell’episodio non gettava nessun discredito sul mio operato e io sono andato in pensione solo recentemente, in maniera del tutto regolare e devo dire che il trattamento che mi hanno riservato è stato abbastanza generoso, segno della stima di cui godevo e del riconoscimento particolare del presidente Nixon. Per la precisione, il rischio che corsi in quell’occasione non derivava dalla morte di Stepan, ma dalla mia insistenza. Io continuavo a credere che Stepan avesse cercato di farci pervenire un messaggio prima di spirare, ma il mio ufficio aveva già archiviato il caso, e secondo me aveva commesso un grosso errore. Comunque, io fui più o meno costretto a disinteressarmene, ma ho continuato a pensarci e adesso che sono in pensione il dubbio mi tormenta più di prima.»

«Quale sistema usava Stepan per passare le sue informazioni?» domandò Gonzalo.

«Noi eravamo quasi sicuri che Stepan non avesse con sé documenti, né lettere né messaggi scritti» disse Pentili. «Non era quello il suo metodo. Con sé aveva quello che ha ogni viaggiatore che si ferma in un albergo: abiti, indumenti personali, oggetti da toeletta, il tutto in una sola valigia, e un abito di ricambio in una sacca da viaggio. C’erano tracce di una perquisizione, ma fatta da gente esperta che non aveva lasciato tracce. Forse chi aveva frugato aveva asportato qualcosa, e questo non potevamo escluderlo.

«Unico oggetto poco comune in una camera d’albergo era un giornale enigmistico con una metà circa degli enigmi e degli schemi di parole crociate risolti, e la calligrafia era quella di Stepan. C’era anche la scacchiera per i giochi di parole che Stepan portava sempre con sé…»

«Per poter fare una partita con qualche giocatore occasionale?» domandò Rubin, interrompendolo.

«No» rispose Pentili. «Stepan giocava da solo, quando non aveva nulla da fare; organizzava le partite come se fossero stati in quattro e si aiutava con un dizionarietto tascabile. Diceva che non c’era niente di meglio per imparare una lingua. Quel dizionarietto era nella tasca della giacca appesa nell’armadio.

«L’assassino, o gli assassini, lo avevano colpito mentre lui stava in piedi, almeno da quello che si poté giudicare in seguito, e quello fu l’unico errore in un delitto altrimenti perfetto, perché non lo uccisero sul colpo. Costretti a fuggire in fretta, lo lasciarono che era ancora vivo, a terra, accanto allo scrittoio; rimasto solo, riuscì a sollevarsi e a rimettersi in piedi. Sullo scrittoio c’era un giornale, il “Washington Post” per l’esattezza, e la scacchiera.

«Stepan aprì il cassetto dello scrittoio e frugò per prendere una penna; ne trovò una e tentò di scrivere qualcosa, ma la penna era scarica e allora la lasciò cadere a terra. La sua penna l’aveva lasciata nella tasca interna della giacca, nell’armadio dall’altra parte della stanza e lui sentiva che non ce l’avrebbe fatta a prenderla, sapeva di avere un paio di minuti di vita ancora e di doverli sfruttare come poteva servendosi di quello che c’era sullo scrittoio. Quando l’avevano accoltellato, il giornale era ancora piegato come quando l’aveva portato in camera un’ora prima, ma lui…»

«Come ha potuto scoprire tutti questi particolari?» domandò Halsted.

«Sono scoperte perfettamente normali, in casi del genere e posso assicurarvi che, in materia, siamo degli esperti. Il tiretto dello scrittoio era aperto, la penna era a terra completamente scarica ma, particolare più importante ancora, Stepan aveva perso sangue anche da una mano, feritasi nel tentativo di parare una coltellata; il suo sangue aveva lasciato tracce che segnavano tutti i suoi movimenti, tutto ciò che aveva toccato.

«In quegli ultimi istanti di vita Stepan aprì il giornale alla pagina sportiva, sollevò il coperchio della scacchiera, ne tolse la tavoletta e riuscì a tirar fuori cinque lettere che dispose nella stecca, ma poi la morte lo interruppe. Le lettere che aveva potuto ordinare erano E P O C K.»

«Disposte in quell’ordine?» domandò Drake.

«Sì, in quell’ordine, da sinistra a destra.»

«Epoca significa un ampio periodo di tempo definito da fattori storici, no?» disse Gonzalo.

«Certamente» rispose Rubin. «Ma in inglese, epoca si scrive epoch, con la h finale e non con la k.»

«Un errore non dovrebbe sorprendere, in quelle condizioni. Quell’uomo stava morendo, forse la vista stessa gli si era appannata» disse Gonzalo, con l’aria di volersi giustificare. «Forse aveva scambiato la k per una h e poi, era russo, forse non sapeva l’esatta ortografia della parola.»

«Questo particolare non ha alcuna importanza» disse Pentili, con una traccia d’impazienza.

«Che differenza fa una k o una h in questo caso? Nessuna.»

«In materia di codici, l’esperto è Tom» disse Avalon.

Trumbull si strinse nelle spalle. «Larry si è rivolto a voi, ragazzi» replicò. «Vedetevela con lui. Quanto a me, se noterò qualcosa di particolare, lo interromperò.»

«Signor Pentili» disse Avalon, «avevate per caso un codice nel quale la parola epock avesse qualche significato speciale? Una frase, un messaggio…»

«Posso assicurare che né epoch, né epock avevano un significato particolare in nessuno dei codici che Stepan conosceva. No, la risposta doveva trovarsi nella pagina sportiva del giornale e se la parola aveva un significato, bisognava cercarlo in quella pagina e non altrove.»

«Come può affermarlo con tanta certezza?» domandò Halsted.

«Lasci che spieghi» rispose Pentili. Ma poi si interruppe per rivolgersi a Henry. «Vorrei ancora un po’ di brandy, Henry, per cortesia» disse. «Lei ascoltava, vero?»

«Sì, signore» rispose Henry.

«Bene. Ora, in quelle condizioni, Stepan avrebbe potuto condensare maggiormente le informazioni, ossia concentrarne un maggior numero per ciascun simbolo, scrivendo o formando un numero. Ogni numero può rappresentare una frase prefissata. Coi numeri si formano, com’è ovvio, frasi prestabilite che non è possibile cambiare a piacere; è un sistema rigido, nel quale può darsi che la frase voluta non sia contemplata, ma se ne può formare una che le si avvicini assai. In punto di morte, Stepan non poteva fare di più. Aprì il giornale su una pagina che conteneva dei numeri, e uno di essi poteva avere un significato particolare.»

«Ma potrebbe darsi che cercasse più semplicemente un foglio di carta sul quale scrivere qualcosa» gli fece osservare Halsted.

«No, perché non aveva niente per scrivere» rispose Pentili.

«Aveva il proprio sangue.»

Pentili storse la bocca, disgustato. «Avrebbe potuto, ma non lo fece. Forse, in quelle condizioni, non si rese nemmeno conto di sanguinare, e se avesse voluto scrivere col suo sangue, perché mai avrebbe dovuto aprire il giornale? Poteva andare bene anche la prima pagina!»

«Poteva aver aperto il giornale a casaccio» insistette Halsted.

«E perché mai? Stepan era un professionista. Era vissuto per anni nel pericolo, sapeva che le informazioni di cui era in possesso potevano costargli la vita. In quelle condizioni un uomo come lui poteva desiderare solo una cosa: trasmettere le informazioni di cui era latore.»

«Roger, smettila» disse Trumbull. «Ti stai comportando puerilmente.»

«Oh, non è nulla, Tom!» disse Pentili. «Per la verità, nel nostro ambiente era diffusa l’opinione che non ci fossero misteri, enigmi da risolvere; erano tutti convinti che il tentativo fatto da Gregory Stepan in punto di morte fosse privo di qualunque significato; che indipendentemente da quel che aveva tentato di fare, non ci fosse riuscito. Solo io decisi di seguire quella traccia, e devo ammettere che non sono riuscito a tradurre il messaggio.

«Il guaio era che Stepan aveva aperto la pagina sportiva, capite? Proprio quella che, normalmente, è zeppa di numeri più di tutte le altre, fatta eccezione per la pagina finanziaria. Come potevamo controllare tutti quei numeri e scegliere, fra essi, quello giusto?»

«Se partiamo dal principio che quell’uomo sapeva cosa faceva in punto di morte, quel numero particolare, quello che aveva un significato speciale fra tutti gli altri doveva pure saltar fuori» rispose Avalon. «Per esempio, poniamo che nessuno dei numeri contenuti in quella pagina di giornale avesse un significato segreto. Poteva averne il numero della pagina stessa.»

«Fu la prima cosa che pensammo. Comunque, la pagina aveva il numero 32, e il 32 significava: “Annullare il messaggio precedente”. Ma non c’era stato alcun messaggio precedente, e quindi non era quello il numero che cercavamo.»

«Ma cosa conteneva mai quella pagina di giornale?» domandò Avalon.

«Non saprei ripeterlo a memoria e non ho una fotocopia da mostrarvi. Quella pagina conteneva quasi esclusivamente resoconti di partite di baseball, perché era l’ultima settimana di campionato; si diffondeva maggiormente su alcune partite, sulle classifiche, sui punteggi e sul comportamento di alcuni giocatori.»

«E Stepan seguiva il campionato di baseball? Era un esperto?»

«Sino a un certo punto» rispose Pentili. «La sua professione lo portava a interessarsi maggiormente della storia degli Stati Uniti, della quale era un lettore appassionato, e questo poteva indurlo ad interessarsi del nostro sport nazionale. Rammentate quanti film della seconda guerra mondiale mostravano spie naziste che si tradivano perché non conoscevano i risultati dell’ultimo campionato di baseball? Ebbene, Stepan non voleva tradirsi per una sciocchezza del genere, ma non si può dire che fosse un esperto.»

«Be’» fece Avalon «se l’ignoranza del baseball era il marchio delle spie naziste, tanto vale che mi ci metta anch’io nel mazzo. Non ci capisco niente di quel gioco.»

«E nemmeno io» disse Drake, stringendosi nelle spalle.

«Andiamo!» disse Gonzalo. «Nessuno può parlare con altre persone, leggere i giornali e guardare la televisione e malgrado ciò ignorare tutto dei campionati di baseball. Voi volete semplicemente darvi delle arie. E se la smetteste? Se provassimo a risolvere l’enigma? Che numero doveva essere? Di quante cifre?»

«Almeno due, possibilmente tre» rispose Pentili. «Non più di tre, comunque.»

«Bene. Se Gregory Stepan non era un esperto di baseball, allora doveva scegliere qualcosa di più semplice e di più evidente. I punteggi delle partite hanno tre cifre. Forse c’era qualche punteggio riportato nei titoli.»

Pentili scosse la testa. «Nessun punteggio nei titoli. Ci saremmo arrivati in un lampo. Posso garantirvi che in tutta la pagina non c’era un numero, uno solo, che potesse avere anche il minimo significato. No, signori. Io sono perfettamente convinto che la pagina sportiva da sola era insufficiente, che Gregory Stepan la usò nei suoi ultimi istanti di vita solo perché non poteva ricorrere ad altro. Il numero doveva essere lì, ma non c’era alcuna speranza di trovarlo senza una traccia, e allora lui si accinse a preparare quella traccia, quell’indicazione.»

«Vuole alludere alle lettere che formavano la parola epock?» domandò Rubin.

«Sì.»

«Non vedo che genere di traccia potessero costituire.»

«Può darsi che non abbia potuto terminare» disse Gonzalo. «Forse riuscì a tirar fuori soltanto quelle cinque lettere prima di morire, ma che dovesse estrarne altre ancora. Forse avrà deciso di lasciar perdere la pagina sportiva per formare un numero e non ci sarà riuscito. Se avesse voluto scrivere il numero centoventidue, per esempio, gli ci sarebbero volute ben più di cinque lettere.»

«Vorresti forse farci capire che c’è un numero che inizia con la parola epock?» ghignò Rubin, levando gli occhi al cielo come disperato.

«Ma non è detto che quelle lettere fossero in ordine!» replico Gonzalo. «In quel gioco, le lettere vengono spostate continuamente. Forse Stepan pensava di tirar fuori prima tutte le lettere che gli ci volevano e di ordinarle poi, ma non fece in tempo.»

«Mario, mi rincresce, ma è impossibile» disse Halsted, che da buon matematico andava infervorandosi a quella discussione. «La forma scritta dei numeri annovera una ben strana distribuzione delle lettere e nella lingua inglese la a non compare in nessun numero dallo zero sino al novecentonovantanove.»

«E con ciò?» ribatté Gonzalo. «Nella parola epock la lettera a non figura nemmeno!»

«È vero, ma ci sono una c e una p! Ebbene, se tu scrivessi i numeri in ordine progressivo, la prima lettera p potresti incontrarla solo… uhm… in un numero di ventiquattro cifre, e una c solo in un numero che ne abbia ventisette nel sistema numerale americano, mentre in quello inglese…»

«Hai chiarito sufficientemente il tuo punto di vista» brontolò Trumbull.

«Ma resta sempre la possibilità che Stepan non sia riuscito a finire quel che voleva» disse Rubin. «Può darsi che avesse rinunciato a servirsi della pagina sportiva e che volesse estrarre un’altra lettera, una t, per formare la parola pocket, ossia tasca in inglese. Forse voleva far sapere che c’era qualcosa nella tasca dei suoi indumenti…»

«Non c’era niente» lo interruppe bruscamente Pentili.

«Potrebbero averla presa i suoi assassini, e lui, in quelle condizioni, magari non se n’era accorto.»

«Lei cerca di puntellare un’ipotesi che non regge con un’altra che è tutta da dimostrare. Prima lei aggiunge una t per far quadrare la sua supposizione, poi inventa una sottrazione per giustificare l’aggiunta di quella lettera. È del tutto inverosimile.»

«La parola pocket poteva avere un qualche significato in un codice in uso nei servizi segreti?» insistette ancora Rubin.

«No!» replicò Pentili, accompagnando la risposta con un gesto brusco della mano. «Signori, è divertente ascoltare le vostre congetture, ma vi muovete nella direzione sbagliata. Le abitudini sono saldamente radicate e restano tali anche in punto di morte. Stepan era una persona ordinata, metodica; quando la morte venne a interrompere quello che si proponeva di fare, lui teneva una mano sulla scacchiera e chiaramente si apprestava a rimetterla al suo posto e io sono convinto che avesse già estratto tutte le lettere che gli ci volevano. Ora noi abbiamo queste cinque lettere e nient’altro.»

«Può darsi che non abbia avuto il tempo per sistemare le lettere che aveva preparato» disse Halsted.

Pentili sospirò, annoiato. «Ci sono esattamente centoventi modi diversi nei quali si possono disporre cinque lettere. Nessuna di queste centoventi disposizioni forma una parola che nella lingua inglese abbia senso, non più di quanto ne abbia blain nel linguaggio moderno.» Sorrise brevemente e riprese a spiegare. «Una di queste sistemazioni forma la parola kopec, che in russo, con la c dura, indica una moneta di scarso valore, ma questa parola non ha alcun significato per noi. Non c’è sbocco possibile per questa strada; quelle cinque lettere dovevano per forza riferirsi a un numero.»

«In quella pagina di giornale non c’era nient’altro, oltre alle notizie sportive?» domandò Avalon, come colpito da un’idea improvvisa. «Per esempio, non c’erano anche avvisi economici?»

Gli occhi di Pentili si persero fissi nel vuoto, quasi che volessero scrutare un invisibile foglio di giornale. «Nessun avviso economico» disse alla fine, pensieroso. «Però c’era una colonna dedicata al bridge.»

«Ah! E quelle cinque lettere non potevano riferirsi al bridge? Vede, signor Pentili, io non sono un esperto di bridge, ma lo conosco e qualche volta lo gioco. Mi capita anche, ogni tanto, di dare un’occhiata ai problemi di bridge che vengono pubblicati sui giornali. Le coppie dei giocatori vengono indicate con i nomi: nord e sud, est e ovest e le carte di ciascuno, nell’ordine, sono: picche, cuori, quadri e fiori e ogni seme è indicato in ordine decrescente.»

«Ebbene?» domandò Pentili, impassibile come un pezzo di marmo.

«Prendiamo in esame la parola epock: la e può essere l’iniziale di est, la c l’iniziale di clubs, che in inglese vuol dire fiori. Quindi il giocatore indicato con est potrebbe avere in mano cinque carte di fiori che, tanto per fare un esempio, potrebbero essere J, 8, 4, 3, 2. Il fante e il tre sono esclusi perché sono occupati da lettere che non indicano numeri, sicché resta 842 che potrebbe essere il suo numero di codice.»

Pentili lo fissava piuttosto sorpreso. «Devo ammettere che non ho mai pensato a questa possibilità» disse. «Quando tornerò a casa, riproverò a considerare questa possibilità offerta dal bridge. Sono sbalordito, signor Avalon; non avrei mai creduto che, giunti a questo punto, sarebbe saltata fuori un’altra possibilità.»

«Ho fatto solo quel poco che potevo» rispose Avalon.

«Tuttavia» riprese a dire Pentili «non credo che il suo suggerimento possa risolvere il mistero. Che io sappia, il povero Stepan non era un giocatore esperto di bridge e sono convinto che solo un vero e proprio maniaco avrebbe potuto pensare al bridge per trasmetterci un numero di codice in quella maniera nel momento in cui stava per morire. Io penso che debba trattarsi di un sistema semplicissimo. Potrebbe aver usato il numero della pagina come numero di codice, ma penso che i suoi occhi non riuscissero a scorgere i caratteri minuscoli del giornale. Forse riusciva ancora a riconoscere la pagina nel suo insieme, distingueva ancora i titoli, scritti in caratteri più grossi delle pedine di legno, ma con tutto ciò non siamo riusciti a trovar nulla di decifrabile.»

«A meno che Henry non abbia qualche idea» disse Gonzalo.

«Ah!» esclamò Pentili. «E così la mano passa a Henry, alla fine. Henry, sentiamo, cosa significa?»

Henry, che era rimasto appoggiato alla credenza durante tutta la discussione, senza interferire, disse: «Non saprei, signore, a meno che il numero venti non abbia un qualche signifi…».

«Venti!» lo interruppe immediatamente Pentili, aggrottando la fronte. «Tira forse a indovinare, Henry?»

«Non del tutto, signore. Ha un significato, dunque?»

«Se ha un significato? Ma io ho speso anni sognando quel numero, pensando che fosse proprio quello che Stepan voleva indicarci. Il venti significa: “Il governo tiene in pugno la situazione”. Ma io non ho mai menzionato il numero venti durante il mio racconto, vero?»

Negarono tutti quanti, in coro.

«Se fossi riuscito a dimostrare che era proprio il venti il numero che Stepan voleva indicarci, forse avrei potuto fermare l’operazione della Baia dei Porci. Almeno avrei tentato. Però non vedo in che modo lei abbia potuto ricavare il numero venti da quelle cinque lettere.»

«Se è vero che il signor Stepan possedeva solo un’infarinatura delle regole del baseball, bisogna pensare che in quella pagina sportiva capisse solo quello che potevano capirci altri lettori poco esperti come me. Il signor Gonzalo direbbe che è proprio l’ignoranza che, di tutta la pagina sportiva, mi permette di capire solo i risultati delle partite… Ossia, detto con altre parole, i punteggi nella nostra lingua si chiamano anche score… E allora il numero venti viene in mente per forza, perché score significa anche ventina, venti, insomma.»

«Non mi sembra affatto una idea brillante, questa» disse Avalon, forse contrariato dal fallimento della teoria avanzata poco prima. «Score, per venti, ventina, è parola piuttosto arcaica, e io non credo che Stepan conoscesse il suo significato.»

«Io credo che lo sapesse, signor Avalon» rispose Henry. «Il signor Pentili ci ha già detto che Stepan era un avido lettore della nostra storia, e una delle frasi storiche che ricorrono più di frequente è appunto: fourscore and seven years ago (87 anni fa)

Pentili pareva deluso. «Come deduzione è veramente originale. Peccato che non sia convincente, Henry. Peccato.»

«Ma diviene convincente, signore, se pensa che le cinque lettere, disposte in ordine sulla scacchiera dello scrabble, formano anch’esse il numero venti!»

«In che modo?»

«Quando il signor Gonzalo ha citato la parola blain, ha chiesto espressamente se si trattava di un termine della lingua inglese. Ebbene, nessuno ha detto espressamente che epock doveva essere una parola inglese.»

«Henry, lei vuol dire, forse, che quella parola significa venti in russo?» domandò Gonzalo, raggiante.

«No» rispose prontamente Pentili. «Epock non significa venti in lingua russa. Ho già menzionato la possibilità offerta dalle parole epock-kopec, ma epock non significa sicuramente venti.»

«Io non pensavo ad alcuna parola russa» spiegò Henry. «Come ha già osservato lei, signore, le abitudini son dure a morire, resistono anche in punto di morte e forse il signor Stepan aveva in mente lettere dell’alfabeto russo in quel momento…»

«L’alfabeto cirillico!» esclamò Rubin.

«Sì, signor Rubin. Ora, io ho visto la sigla della federazione russa in caratteri cirillici, e mi sembra che sia scritta così: CCCP. Perciò suppongo che la C russa sia l’equivalente della nostra S e che la loro P corrisponda alla nostra R.»

«Proprio così» disse Pentili, come stordito.

«E la K dell’alfabeto cirillico corrisponde alla nostra C, sicché le nostre cinque lettere che formano la parola epock, in russo formerebbero la parola erosc che, anagrammata, diventa, appunto, score, ossia venti.»

«Henry, lei ha vinto» riconobbe Pentili, che pareva in preda a un forte avvilimento. «Perché non me l’ha detto nel 1960?»

«Ah, signore! Se l’avessi saputo!...» replicò Henry.


(Titolo originale: The sports page)


In un certo senso, vi sono alcune regole inflessibili nello schema che seguo per i miei racconti che parlano dei Vedovi Neri. C’è sempre una cena e la discussione generale, poi c’è la torchiatura dell’ospite e la presentazione dell’enigma alla quale segue la discussione e la risoluzione.

Ma non tutto è rigido; c’è una certa flessibilità perché il mistero in sé può essere ben poca cosa. Può trattarsi di un omicidio, di un furto, di un caso di spionaggio, di un testamento scomparso. Può anche, in certi casi, trattarsi del più antico dei misteri: quello della morte. Perché no? Dopo tutto, questo mistero ha sempre in sé qualcosa di divertente.

Sia detto per inciso: ogni tanto un lettore mi scrive per suggerirmi qualche soluzione alternativa. Nel caso di questo racconto, due lettori mi suggerirono due soluzioni che, devo riconoscerlo, erano migliori della mia. Uno di essi era Dan Button, redattore di «Science Digest», e l’altro era Paul Edwin Kennedy, un avvocato di Boston. Permettetemi di citare quella di Kennedy: “Stepan ci aveva lasciato un messaggio segreto formato dalla parola "epock". Chiunque conosca anche superficialmente le regole del baseball avrà qualche dimestichezza anche col frasario corrente. Per lui, quelle cinque lettere dovevano significare rispettivamente: error, put, out, strike e la lettera c doveva significare Cuba, sicché si poteva costruire la frase che, tradotta, doveva suonare così: "errore annullate attacco a Cuba”.

Ricorrendo a un ragionamento analogo, Dan Button proponeva di interpretare il messaggio nel modo seguente: “Andrete incontro a un disastro se attuerete il progetto”, oppure: “Invasione impossibile causa erronee informazioni ricevute”.

Sembra incredibile che, mentre io mi affannavo tanto per escogitare una soluzione accettabile per l’enigma che avevo ideato, gettassi a mia insaputa le basi per altre due soluzioni migliori della mia.