CAPITOLO DODICESIMO IL PIANO E LA FIGLIA

 

Era parecchio tempo che Amadiro non pensava ai robot umanoidi. Trattandosi di un ricordo doloroso, pur con qualche difficoltà era riuscito ad imporsi di evitare di rivangare quell’argomento. E adesso Mandamus inaspettatamente lo aveva riportato alla luce.

I robot umanoidi erano stati l’asso nella manica di Fastolfe nel periodo ormai lontano in cui Amadiro si era trovato vicinissimo a vincere la partita, strappando al nemico l’asso e tutto il resto. Fastolfe aveva progettato e costruito due robot umanoidi (dei quali uno esisteva tuttora), mentre nessun altro era in grado di costruirli. Neppure l’intero personale dell’Istituto di Robotica.

L’unica cosa rimasta in mano ad Amadiro dopo la grande disfatta patita era stato quell’asso. Infatti, Fastolfe aveva dovuto divulgare pubblicamente i suoi progetti.

Così, erano stati costruiti dei robot umanoidi, e sorprendentemente erano stati respinti. Gli Auroriani non li volevano nella loro società.

La bocca di Amadiro si piegò in una smorfia di disappunto... La storia della Solariana era finita ben presto sulle labbra di tutti, e tutti avevano saputo in che modo si fosse servita di Jander, uno dei due robot umanoidi di Fastolfe... se n’era servita per scopi sessuali. Teoricamente, gli Auroriani non avevano alcuna obiezione morale di fronte a un episodio del genere.

Però, soffermandosi un istante a riflettere, le donne di Aurora non avevano gradito l’idea di dover competere con delle donne robot. Proprio come gli uomini di Aurora non gradivano l’idea di dover competere con dei robot maschi.

L’Istituto si era sforzato di spiegare che i robot umanoidi non erano destinati a un impiego su Aurora, ma che dovevano formare l’ondata iniziale di pionieri che avrebbero trasformato nuovi pianeti abitabili rendendo possibile in un secondo tempo l’occupazione auroriana di nuovi mondi.

Purtroppo, la gente non aveva accettato simili spiegazioni, e il sospetto e la diffidenza si erano ingigantiti. Qualcuno aveva definito i robot umanoidi il cuneo di sfondamento... un’espressione forte che aveva preso piede, e alla fine l’Istituto era stato costretto ad arrendersi.

Ostinato, Amadiro aveva comunque insistito perché gli esemplari esistenti fossero messi da parte e conservati in previsione di un uso futuro... un uso che finora non si era mai concretizzato.

Perché i robot umanoidi erano stati respinti? Amadiro avvertì in parte l’irritazione che gli aveva quasi avvelenato l’esistenza tante decadi addietro. Lo stesso Fastolfe, pur con riluttanza, aveva appoggiato il progetto, anche se non vi si era dedicato con lo slancio che riservava di solito alle questioni che gli stavano veramente a cuore. Ma non era servito a nulla.

Eppure... eppure... forse adesso Mandamus aveva architettato un piano attuabile che richiedeva l’utilizzo di quei robot...

Amadiro non aveva alcuna simpatia per le esclamazioni misticheggianti del tipo: “Era destino! Lo sapevo di aver visto giusto!” Ma dovette reprimere considerazioni del genere, mentre l’ascensore li portava a un livello sotterraneo... l’unico posto su Aurora che potesse somigliare in modo vago ai mitici Abissi d’Acciaio della Terra.

A un gesto di Amadiro, Mandamus uscì dall’ascensore ritrovandosi in un corridoio fiocamente illuminato. L’aria era gelida, mossa da una lieve corrente di ventilazione. Mandamus rabbrividì, mentre Amadiro gli si accostava.

«Non viene molta gente, qui,» disse sbrigativo Amadiro.

«A che profondità siamo?»

«Circa quindici metri. Ci sono diversi piani sotterranei. Questo ospita il magazzino dei robot umanoidi.» Amadiro indugiò un attimo, assorto, quindi girò deciso a sinistra. «Da questa parte.»

«Non ci sono cartelli indicatori?»

«Come vi ho detto, viene poca gente qui. Le persone che vengono, sanno dove dirigersi per trovare quello che cercano.»

Mentre parlava, giunsero a una porta dall’aspetto massiccio e impenetrabile, sorvegliata ai lati da due robot... non umanoidi.

Mandamus li osservò con aria critica. «Questi sono modelli comuni.»

«Comunissimi. Non pretenderete che sprechiamo dei modelli sofisticati per sorvegliare una porta, vero?» Poi Amadiro alzò la voce, senza alterarne il tono. «Sono Kelden Amadiro, Capo dell’Istituto!»

Gli occhi dei due robot emisero un breve lucore. Le sentinelle si scostarono, voltandosi verso le pareti, e la porta si aprì silenziosa scorrendo verso l’alto.

Amadiro fece entrare l’altro e, passando accanto ai robot, disse: «Lasciatela aperta e regolate l’illuminazione interna.»

«Immagino che non tutti possano entrare,» commentò Mandamus.

«No, infatti. Questi robot riconoscono il mio aspetto e la mia impronta vocale, e senza questi due fattori la porta rimane chiusa.» È rivolto più che altro a se stesso, Amadiro aggiunse: «Sui mondi spaziali non c’è bisogno di serrature né di chiavi né di combinazioni... I robot ci proteggono, fedeli e assidui.»

«Però, se un Auroriano prendesse uno di quei disintegratori che i Coloni portano sempre con sé, non si arresterebbe di fronte at alcun ostacolo,» fece Mandamus meditabondo. «Sì, potrebbe distruggere qualsiasi robot in un istante ed entrare in qualsiasi posto, fare qualsiasi cosa volesse.»

Amadiro gli lanciò un’occhiata adirata. «Nessuno Spaziale si sognerebbe mai di usare armi simili su uno dei nostri mondi! Noi viviamo senz’armi e senza violenza. Non capite che è per questo che ho dedicato la mia vita alla distruzione della Terra e della sua stirpe malefica? Certo, un tempo avevamo la violenza, però molto tempo fa, quando i mondi spaziali erano appena stati creati e non ci eravamo ancora sbarazzati delle maligne influenze terrestri, prima che imparassimo il valore della sicurezza offerta dai robot.

«Non vale la pena di battersi per la pace e la sicurezza? Mondi senza violenza! Mondi in cui regna la ragione! È stato giusto da parte nostra cedere decine di

pianeti abitabili a barbari dalla vita corta che, come avete detto, girano armati di disintegratori?»

«Però, siete disposto a ricorrere alla violenza per annientare la Terra.» mormorò Mandamus.

«Una violenza di durata limitata, e sorretta da uno scopo ben preciso, è il prezzo che probabilmente dovremo pagare per porre fine alla violenza in maniera definitiva.»

«Comunque, essendo uno Spaziale, io voglio che anche in questo caso usiamo la violenza il meno possibile,» ribatté Mandamus.

Intanto erano entrati in una sala enorme, e al loro ingresso il soffitto e le pareti si erano illuminati sprigionando un chiarore diffuso.

«Bene, è questo che vi occorre, dottor Mandamus?» chiese Amadiro.

Mandamus si guardò attorno, stupefatto. Infine, riuscì ad esclamare: «Incredibile!»

Erano là... un reggimento di esseri umani, una via di mezzo tra un gruppo di statue inerti e un gruppo di uomini che dormissero. «Ma... sono in piedi,» commentò Mandamus.

«Evidente. Occupano meno spazio.»

«Ma sono in piedi da decadi e decadi. È impossibile che funzionino ancora! Avranno le articolazioni bloccate, gli organi rotti...»

Amadiro si strinse nelle spalle. «Può darsi. Ma le articolazioni difettose possono sempre essere sostituite, se necessario. Basterebbe che ci fosse un motivo valido per farlo.»

«C’è,» disse Mandamus, osservando quel mare di teste. Fissavano in direzioni leggermente diverse, creando un effetto inquietante... sembrava quasi che stessero per rompere le righe e muoversi.

«Hanno tutti lineamenti diversi... corporature diverse...»

«Sì. Vi sorprende?» fece Amadiro. «Dovevano essere i primi pionieri dell’ondata espansionistica di Aurora. Volevamo che fossero umani per quanto possibile, così li abbiamo costruiti fornendoli di identità individuali. Non vi sembra logico?»

«Certo. E sono contento che abbiano questa caratteristica. Ho letto tutto quello che sono riuscito a trovare riguardo i due prototipi umanoidi di Fastolfe, Daneel Olivaw e Jander Panell. Ho visto alcuni loro ologrammi, e sembravano identici.»

«Sì,» annuì Amadiro impaziente. «Non solo erano identici, ma in pratica erano una caricatura dello Spaziale modello. Il romanticismo di Fastolfe. Scommetto che avrebbe costruito una intera razza di robot umanoidi identici, compresi gli esemplari femminili... tutti con quel bell’aspetto etereo, così da farli sembrare invece completamente inumani. Forse Fastolfe è un roboticista brillante, però è un uomo incredibilmente stupido.»

Amadiro scosse il capo. E dire che era stato sconfitto da quel campione di stupidità... no, non era stato battuto da Fastolfe... era stato quel Terrestre diabolico a batterlo. Immerso nei propri pensieri, non sentì la domanda successiva di Mandamus.

«Scusate?» disse, leggermente irritato.

«Vi ho chiesto se siete stato voi a progettare questi robot, dottor Amadiro.»

«No. Per una strana, ironica coincidenza, sono opera della figlia di Fastolfe, Vasilia. È brillante quanto il padre e molto più intelligente... probabilmente uno dei motivi per cui non sono mai andati d’accordo.»

«Ho sentito la loro storia, e...» iniziò Mandamus.

Amadiro lo zittì con un cenno. «Anch’io l’ho sentita. Lasciate perdere. Vasilia è abile nel suo lavoro, ed è da escludere che un giorno possa simpatizzare per una persona che odia e considera un estraneo, nonostante si tratti accidentalmente del suo genitore biologico. Ha anche cambiato nome. Adesso è Vasilia Aliena.»

«Lo so. Avete gli schemi cerebrali di questi robot?»

«Certo.»

«Di tutti?»

«Certo.»

«E potrei disporne, io?»

«Per una valida ragione, sì.»

«Validissima,» fece Mandamus deciso. «Dato che erano stati progettati per attività pionieristiche, dovrebbero essere in grado di esplorare un mondo ed affrontare condizioni primitive, vero?»

«È evidente.»

«Perfetto... però forse sarà necessaria qualche modifica. Credete che Vasilia Fast... Aliena sarebbe capace di aiutarmi in questo, se necessario? Lei dovrebbe conoscere meglio di chiunque altro questi schemi cerebrali.»

«Certo. Ma non so se sarebbe disposta ad aiutarvi. Comunque so che per il momento è materialmente impossibile che vi aiuti, dato che non è su Aurora.»

Mandamus parve sorpreso e dispiaciuto. «Dov’è, dottor Amadiro?»

«I robot li avete visti, e io non intendo rimanere più a lungo in questo squallido ambiente,» rispose Amadiro. «Mi avete fatto aspettare parecchio, quindi non lamentatevi se ora vi faccio aspettare io. Risponderò alle vostre domande quando saremo tornati nel mio ufficio.»

Una volta nell’ufficio, Amadiro indugiò ancora. «Aspettatemi qui,» disse perentorio, e uscì.

Mandamus attese, riflettendo; chiedendosi quando sarebbe tornato Amadiro e se sarebbe tornato. Lo avrebbe fatto arrestare, o lo avrebbe semplicemente cacciato? Si era per caso stancato di aspettare che lui venisse al dunque?

Mandamus si rifiutava di crederci. Aveva intuito che Amadiro desiderava disperatamente regolare un vecchio conto. No, non si sarebbe stancato di ascoltare finché non avesse intravisto la possibilità di vendicarsi grazie all’aiuto di Mandamus.

Osservando l’ufficio, Mandamus si domandò se potessero esserci informazioni preziose per lui nella memoria del computer li a portata di mano. Sarebbe stato utile non dipendere completamente da Amadiro.

Che idea assurda. Mandamus non conosceva il codice di accesso, e anche se lo avesse conosciuto c’erano diversi robot di Amadiro nelle nicchie, e lo avrebbero

fermato se avesse accennato a muoversi verso qualcosa che nelle loro menti era etichettata come riservata o delicata. I suoi robot avrebbero fatto la stessa cosa.

Amadiro aveva ragione. I robot erano utili, efficienti e incorruttibili, incapaci di qualsiasi azione criminosa, illegale o semplicemente clandestina. Erano talmente efficienti che certe tendenze si erano atrofizzate anche negli esseri umani che loro proteggevano.

«Si domandò come potessero i Coloni fare a meno dei robot. Mandamus provò a immaginare le personalità umane che si scontravano, senza alcun paraurti robotico che assorbisse i conflitti, senza alcuna presenza robotica che desse un senso di sicurezza e garantisse automaticamente il rispetto di un codice morale.

Date le circostanze era logico che i Coloni fossero dei barbari, e non si poteva lasciare in mano loro la Galassia. Su questo punto Amadiro aveva sempre avuto ragione, mentre Fastolfe commetteva un clamoroso errore di valutazione.

Mandamus annuì tra sé, quasi si fosse convinto per l’ennesima volta della correttezza di quanto aveva ideato. Sospirò. Purtroppo era un intervento necessario. Stava per riesaminare razionalmente l’inevitabilità della decisione presa, quando Amadiro tornò.

Amadiro era ancora una figura imponente nonostante fosse vicinissimo al compimento della sua ventottesima decade. Era l’incarnazione quasi perfetta dell’archetipo dello Spaziale, eccettuato il particolare stonato del suo naso informe.

«Scusate se vi ho fatto aspettare, ma dovevo sbrigare alcune faccende,» disse Amadiro. «Come Capo di questo Istituto, ho delle responsabilità.»

«Potreste dirmi dove si trova la dottoressa Vasilia Aliena? Poi vi illustrerò il mio progetto senza altri indugi.»

«Vasilia è in viaggio. Sta visitando tutti i mondi spaziali per scoprire a che punto sono nelle ricerche robotiche. Secondo lei, dato che l’Istituto di Robotica è nato per coordinare la ricerca individuale su Aurora, un coordinamento interplanetario non potrebbe che giovare alla causa comune.»

«Mi sembra un’ottima idea.»

Mandamus proruppe in una risatina acre. «Non le diranno nulla. Dubito che i mondi spaziali siano disposti a favorire la posizione di vantaggio di cui già gode Aurora.»

«Non siatene troppo sicuro. L’espansione dei Coloni preoccupa tutti quanti. Sapete dove sia adesso la dottoressa?»

«Abbiamo il suo itinerario.»

«Fatela rientrare, dottor Amadiro.»

Amadiro aggrottò le ciglia. «Non è cosi semplice. Credo che voglia assentarsi da Aurora finché suo padre non sarà morto.»

«Perché?» chiese Mandamus sorpreso.

Amadiro scrollò le spalle. «Non lo so, e non mi interessa. Però so che il tempo a vostra disposizione è scaduto. Chiaro? Venite al dunque, o andatevene.» E indicò la porta con aria minacciosa, ormai spazientito.

«D’accordo... La Terra ha una terza caratteristica che la rende unica...» iniziò Mandamus.

Parlò senza intoppi, conciso, quasi si trattasse di un discorso preparato con cura, provato e riprovato, limato e rifinito proprio per sottoporlo all’attenzione di Amadiro.

E Amadiro ascoltò con interesse crescente, pervaso da un immenso sollievo. Aveva intuito giusto. Quel giovanotto non era affatto uno squilibrato. Tutt’altro!

E dopo il sollievo, un senso di esultanza, di trionfo. Il piano avrebbe avuto sicuramente successo. Certo, il punto di vista di Mandamus deviava leggermente dalla rotta che secondo Amadiro avrebbe invece dovuto seguire, ma quel problema sarebbe stato risolto a tempo debito. Qualche modifica era sempre possibile.

E quando Mandamus ebbe terminato, Amadiro, frenando a stento l’emozione, disse: «Non avremo bisogno di Vasilia. Coi mezzi e l’esperienza dell’Istituto possiamo iniziare anche subito. E... dottor Mandamus, una volta realizzato il progetto, cosa in cui credo fermamente, quando sarò Presidente del Consiglio voi diventerete Capo dell’Istituto.»

Mandamus abbozzò un sorriso, mentre Amadiro si rilassava sulla poltroncina e per un attimo pensava al futuro soddisfatto e fiducioso... cosa che non gli accadeva da venti lunghe decadi.

Quanto tempo sarebbe occorso? Decadi? Una decade? Meno di una decade?

Non molto. Non molto. Bisognava assolutamente stringere i tempi, in modo tale che lui potesse essere ancora vivo e vedere ribaltata l’ingiusta situazione, diventare il signore di Aurora… di Aurora e di tutti i mondi Spaziali... e, dunque, signore della Galassia.

Quando Han Fastolfe morì, sette anni dopo l’incontro tra Amadiro e Mandamus e dopo l’inizio del progetto, le trasmissioni iperonda diffusero la notizia in ogni angolo dei mondi abitati. Era una notizia che meritava la massima attenzione.

Sui mondi spaziali era importante perché per oltre venti decadi Fastolfe era stato l’uomo più potente di Aurora e conseguentemente della Galassia. Sui mondi dei Coloni e sulla Terra era importante perché Fastolfe era stato un amico - per quanto poteva essere amico uno Spaziale - e adesso ci si chiedeva se la politica spaziale sarebbe cambiata e, se sì, in che modo.

La notizia giunse anche a Vasilia Aliena, complicata dall’amarezza che aveva sempre viziato i suoi rapporti col padre biologico.

Si era preparata psicologicamente a non provare nulla quando lui fosse morto, però aveva preferito non trovarsi su Aurora quando fosse successo, per evitare le raffiche di domande che le avrebbero rivolto.

Il rapporto genitore-figlio tra gli Spaziali aveva scarso peso. Una logica conseguenza della longevità. Sotto questo aspetto Vasilia non era certo un personaggio che facesse notizia. No, attirava l’attenzione altrui perché Fastolfe era un eminente capo-partito, e lei un’esponente altrettanto eminente del partito opposto.

Era qualcosa di indelebile. Lei era arrivata al punto di cambiare il proprio nome in Vasilia Aliena, usandolo sui documenti, in pubblico, nelle interviste... eppure

sapeva che la maggioranza della gente continuava a considerarla Vasilia Fastolfe.

Sembrava quasi che nulla potesse cancellare quel rapporto insignificante, quindi lei era stata costretta ad accontentarsi di essere chiamata solo col nome di nascita. Perlomeno, Vasilia era un nome poco comune.

Ma sfortunatamente questo fatto pareva accentuare la sua somiglianza con la Solariana che, per motivi del tutto diversi, aveva ripudiato il primo marito come Vasilia aveva ripudiato suo padre. Anche la Solariana aveva rinunciato ai cognomi, e adesso era nota solo come Gladia.

Vasilia e Gladia, disadattate, rinnegate... unite addirittura da una somiglianza fisica.

Vasilia guardò di sfuggita nello specchio appeso alla parete della cabina dell’astronave. Non vedeva Gladia da parecchie decadi, però era certa che quella somiglianza esistesse ancora. Erano entrambe piccole, snelle, bionde, con lineamenti simili.

Ma Vasilia aveva sempre perso, mentre Gladia aveva sempre vinto. Quando Vasilia aveva abbandonato il padre escludendolo dalla propria vita, lui aveva trovato Gladia... in Gladia aveva trovato la figlia docile e passiva che desiderava, condizioni che Vasilia non avrebbe mai potuto soddisfare.

Nonostante tutto, Vasilia si era sentita amareggiata. Lei era una roboticista stimata, Gladia era solo un’artista che si divertiva con la scultura luminosa e l’illusorio abbigliamento robotico. Com’era possibile che Fastolfe fosse soddisfatto di quello scambio?

E quando quel poliziotto terrestre, Elijah Baley, era venuto su Aurora, con metodi prepotenti aveva strappato a Vasilia confessioni che lei non aveva mai fatto a nessuno. Con Gladia, invece, era stato la delicatezza in persona, e l’aveva aiutata... aveva aiutato lei e il suo protettore, Fastolfe, a vincere contro ogni previsione, anche se finora Vasilia non era riuscita ad afferrare i meccanismi di tale vittoria

Era stata Gladia a restare al capezzale di Fastolfe nei giorni dell’agonia, a stringergli la mano, a sentire le sue ultime parole. Vasilia non capiva come mai provasse del risentimento per tutte queste cose, dato che per lei quel vecchio non esisteva, dato che non sarebbe mai andata a fargli visita nell’attimo fatale del passaggio all’aldilà. Eppure la presenza di Gladia la riempiva di rabbia.

“Provo quel che provo e basta”, si disse arcigna. “Non devo spiegazioni a nessuno.”

E aveva perso Giskard. Giskard era stato il suo robot, il robot di Vasilia ragazzina, il robot concessole da un padre che allora sembrava affettuoso. Era stato tramite Giskard che aveva imparato la Robotica e percepito il primo affetto sincero.

Essendo piccola, non aveva considerato le implicazioni delle Tre Leggi e degli automatismi positronici. Giskard le era parso affezionato, si comportava come se nutrisse dell’affetto per lei, e per una bambina era più che sufficiente. Era un sentimento che non aveva mai trovato in alcun essere umano... soprattutto in suo padre.

Fino a questo momento, non era ancora stata abbastanza debole da abbandonarsi allo stupido gioco dell’amore con qualcuno. L’amarezza provata per la perdita di Giskard le aveva insegnato che qualsiasi guadagno iniziale non valeva la perdita finale.

Quando se n’era andata, ripudiando il padre, Fastolfe non le aveva permesso di portare con sé Giskard, anche se lei lo aveva riprogrammato attentamente apportando miglioramenti enormi al suo funzionamento. E quando era morto, Fastolfe aveva lasciato il robot alla Solariana. Le aveva lasciato anche Daneel, però a Vasilia non importava nulla di quella assurda parodia umanoide. Voleva Giskard, che era suo!

Ora Vasilia stava per tornare. Il suo viaggio era terminato. Per quel che riguardava i risultati utili era terminato già da mesi, ma lei era rimasta su Hesperos per un meritato riposo... E come aveva spiegato nel suo avviso ufficiale all’Istituto.

Ora che Fastolfe era morto, poteva tornare. E poteva cambiare anche parte del passato, se non tutto. Giskard doveva essere di nuovo suo.

Era decisa.

Amadiro accolse il ritorno di Vasilia con sentimenti contrastanti.

Vasilia aveva atteso che Fastolfe fosse nell’urna da un mese, prima di rientrare. Amadiro era lusingato per il proprio intuito. Non aveva detto a Mandamus che si sarebbe assentata da Aurora finché suo padre non fosse morto?

Vasilia, poi, era di una trasparenza esemplare. Non era esasperante come Mandamus, il suo nuovo pupillo, che dava sempre l’impressione di nascondere qualcosa, di avere qualche pensiero inespresso celato chissà dove.

D’altro canto, Vasilia era un tipo difficile da controllare, non era una persona che seguisse docilmente la strada indicatale.

Negli anni trascorsi lontano da Aurora, aveva sicuramente sondato all’osso gli altri mondi spaziali... ma adesso sicuramente avrebbe interpretato i risultati con frasi oscure ed enigmatiche.

Così Amadiro la accolse con un entusiasmo non del tutto sincero. «Vasilia, sono felicissimo che tu sia tornata. L’Istituto zoppica quando manchi tu, si muove su una sola gamba.»

Vasilia rise. «Via, Kelden,» (solo lei lo trattava con tanta familiarità, pur avendo quasi tre decadi meno di lui) «la gamba che rimane è la tua, e tu sei il primo a sapere che la tua gamba è più che sufficiente.»

«Ho cominciato a dubitarne durante i tuoi anni di assenza. Trovi che Aurora sia cambiata nel frattempo?»

«Nemmeno un po’... e forse dovremmo preoccuparci. La staticità è decadenza.»

«Un paradosso. Non c’è decadenza senza un cambiamento in peggio.»

«La staticità è un cambiamento negativo, Kelden, se guardiamo i mondi dei Coloni che ci circondano. Cambiano rapidamente, espandendosi. La loro forza e la loro sicurezza aumentano, mentre noi restiamo immobili a sognare, e ad accorgerci che il nostro immutabile potere si riduce progressivamente.»

«Splendido, Vasilia! Ho l’impressione che tu abbia imparato a memoria questo discorsetto durante il volo. Comunque, c’è stato un mutamento nella situazione politica di Aurora.»

«Intendi dire che il mio genitore biologico è morto, vero?»

Amadiro allargò le braccia, chinando lievemente la testa. «Infatti. Era il principale responsabile della nostra paralisi, ed è scomparso, quindi immagino che assisteremo a dei cambiamenti, anche se non si tratterà necessariamente di cambiamenti visibili.»

«Mi nascondi dei segreti, vero?»

«Mi credi capace di una cosa simile?»

«Certo. Quel tuo sorriso falso ti tradisce ogni volta.»

«Allora dovrò imparare a restar serio con te. Ho qui il tuo rapporto. Dimmi quello che non è incluso.»

«È incluso tutto... quasi. Ogni mondo spaziale asserisce di essere infastidito dall’arroganza crescente dei Coloni, di essere pronto ad opporsi ai Coloni fino alle estreme conseguenze, seguendo deciso la guida di Aurora con risolutezza e sprezzo del pericolo.»

«Seguendo deciso la nostra guida... E se noi non guideremo nessuno?»

«Allora aspetteranno, e cercheranno di mascherare il loro sollievo... sollievo per non essere trainati da noi. Per il resto... be’, ognuno è impegnato nel progresso tecnologico, anche se nessuno vuole rivelare cosa stia facendo di preciso. Lavorano tutti indipendentemente, non c’è unità nemmeno all’interno dei singoli pianeti. Sugli altri mondi spaziali non esiste nulla che assomigli al nostro Istituto di Robotica. Tutti ricercatori isolati, che custodiscono gelosamente il proprio lavoro.»

«Suppongo che nessuno sia al nostro livello,» commentò Amadiro compiaciuto.

«Purtroppo è così,» replicò acida Vasilia. «Con una tale barriera di individualismo, il progresso è lentissimo. I mondi dei Coloni si riuniscono regolarmente, hanno i loro istituti... e anche se sono ancora distaccati, è scontato che ci raggiungeranno. Comunque, sono riuscita a scoprire alcuni progetti tecnologici a cui stanno lavorando gli altri Spaziali, e li ho elencati sul mio rapporto. Stanno tutti dedicandosi all’intensificatore nucleare, per esempio, ma credo che siano ancora a livello di esperienze di laboratorio. Non sono ancora arrivati a costruirne uno utilizzabile a bordo di astronavi.»

«Spero che tu abbia ragione, Vasilia. L’intensificatore sarebbe un’arma utilissima alle nostre flotte, perché sistemerebbe subito i Coloni. Comunque, io ritengo che sarebbe preferibile avere noi quell’arma, prima dei nostri fratelli spaziali. Ma hai detto di avere incluso quasi tutto nel tuo rapporto. Il quasi non mi è sfuggito. Cos’hai tralasciato?»

«Solaria.»

«Ah, il mondo spaziale più giovane e particolare.»

«Da loro non ho ricavato praticamente nulla. Mi hanno osservata con la massima ostilità, alla stregua di un Colono. E bada bene che ho detto osservata... in senso solariano. Sono rimasta sul loro mondo per un anno, e in tutti quei mesi non ho mai visto un Solariano faccia a faccia. Li ho sempre dovuti osservare per

ologrammi ipervisivi. Ho avuto a che fare con delle immagini. Solaria è un mondo comodo, lussuosissimo, un vero paradiso per un amante della natura... però, come mi è mancato il rapporto diretto con le persone!»

«Be’, quella dell’osservare è una loro tradizione. Lo sappiamo tutti, Vasilia. Vivi e lascia vivere.»

«Bah! Forse la tua tolleranza è malriposta... Questi robot hanno le unità di registrazione disattivate?»

«Sì. E ti assicuro che nessuno ci sta spiando.»

«Lo spero, Kelden... Ho la netta impressione che i Solariani siano ormai vicini alla realizzazione di un intensificatore nucleare miniaturizzato, un apparecchio portatile con un consumo sufficientemente basso da permetterne l’installazione a bordo di navi.»

Amadiro corrugò la fronte. «Come ci sono riusciti?»

«Non sono in grado di dirlo. Non penserai che mi abbiano mostrato i progetti, vero? Le mie sono impressioni vaghe, ho preferito lasciarle fuori dal rapporto... però, da piccoli particolari, sentiti, notati qui e là, credo che siano prossimi alla meta. Una questione da valutare attentamente, mi pare.»

«Lo faremo. Nient’altro che vorresti dirmi?»

«Sì, e anche questo non figura nel rapporto. Solaria sta lavorando ai robot umanoidi da parecchie decadi, e credo che finalmente abbiano centrato l’obiettivo. Nessun altro mondo spaziale, a parte noi, ha provato a cimentarsi in questo campo. Durante il mio viaggio, quando ho chiesto se stessero facendo qualcosa riguardo i robot umanoidi, ho osservato su tutti i mondi una reazione identica. Un’idea sgradevole, aberrante, per tutti. Immagino abbiano preso nota del nostro fallimento.»

«Ma Solaria no? Perché?»

«Innanzitutto, hanno sempre vissuto nella società più robotizzata della Galassia. Sono circondati da robot... diecimila robot per individuo. Solaria è piena di robot. Chi volesse prendersi la briga di girare il pianeta, non incontrerebbe che robot. Abituati a un mondo del genere, perché mai quei pochi Solariani esistenti dovrebbero respingere l’idea di qualche robot in più solo a causa dell’aspetto umanoide? E poi, quel mezzo mostro progettato e costruito da Fastolfe ancora funzionante...»

«Daneel,» disse Amadiro.

«Sì, quello. Lui... quel mezzo mostro è stato su Solaria venti decadi fa, e i Solariani l’hanno trattato da essere umano. Una umiliazione notevole, per loro, essersi lasciati ingannare. Una dimostrazione indimenticabile della superiorità di Aurora in questo settore della Robotica. I Solariani si vantano di essere i migliori roboticisti della Galassia, e da allora si sono messi al lavoro se non altro per cancellare l’affronto subito. Se fossero stati più numerosi o se avessero avuto un istituto che coordinasse i vari sforzi, probabilmente avrebbero realizzato i robot umanoidi già da un pezzo. In ogni modo, credo che ci siano riusciti adesso.»

«Però non hai alcuna certezza, vero? Sono solo sospetti basati su dati sparsi...»

«Sì, però sono sospetti molto forti, che meritano ulteriori indagini... inoltre,

terza cosa importante... I Solariani stanno studiando la comunicazione telepatica, ci giurerei. Ho intravisto accidentalmente certe strane attrezzature, e una volta, mentre ero in contatto olovisivo con un loro roboticista, lo schermo, sullo sfondo, mostrava una lavagna con lo schema di una matrice positronica di tipo mai visto... be’, mi è sembrato che potesse essere lo schema di un programma telepatico.»

«Vasilia, temo che questo sospetto sia ancor più inconsistente degli altri.»

Sul viso di Vasilia apparve un’espressione di lieve imbarazzo.

«Devo ammettere che probabilmente hai ragione.»

«Sì, Vasilia, ho l’impressione che qui tu stia fantasticando. Se non avevi mai visto una matrice di quel tipo, come hai potuto pensare che potesse corrispondere ad un dato programma?»

Vasilia esitò. «Se devo essere sincera, me lo sono domandata anch’io. Eppure, vedendo quello schema, la parola telepatia mi è subito balzata alla mente.»

«Anche se la telepatia è impossibile, perfino a livello teorico.»

«Si crede che sia impossibile, anche a livello teorico. Non è la stessa cosa.»

«Nessuno ha mai ottenuto qualche risultato in quel campo.»

«D’accordo... Però, perché guardando quello schema ho subito pensato alla telepatia?»

«Be’, Vasilia, potrebbe trattarsi di una tua idiosincrasia psichica, che io eviterei di cercare di analizzare... Nient’altro?»

«Un’ultima cosa... la più sconcertante. Ho avuto l’impressione, collegando indizi insignificanti, che i Solariani intendano lasciare il pianeta, Kelden.»

«Perché?»

«Non lo so. La loro popolazione, già molto scarsa, è in continua diminuzione. Forse vogliono ripartire da zero in qualche altro posto, prima di estinguersi completamente.»

«Ripartire da zero? Come? E dove potrebbero andare?»

Vasilia scosse il capo. «Ti ho detto tutto quello che so.»

Lentamente, Amadiro disse: «Bene, terrò conto di tutto... Quattro cose: l’intensificatore nucleare, i robot umanoidi, i robot telepatici, e l’abbandono del pianeta. Francamente, sono argomenti che non mi convincono, comunque chiederò al Consiglio di organizzare dei colloqui con il Reggente solariano. Adesso, credo che tu abbia bisogno di un po’ di riposo, Vasilia. Perché non ti concedi qualche settimana di vacanza e ti riabitui al sole e al dolce clima auroriano prima di tornare al lavoro?»

«Molto gentile, Kelden,» rispose Vasilia, restando seduta. «Ma dovrei discutere ancora di un paio di cose.»

Involontariamente, Amadiro controllò l’ora. «Non sarà una faccenda lunga, vero, Vasilia?»

«Lunga o breve, mi ascolterai, Kelden.»

«Sentiamo. Cosa vuoi?»

«Tanto per cominciare, chi è quel giovane sapientone che si comporta come se dirigesse l’Istituto, quel certo Mandamus?»

«Oh, l’hai conosciuto, allora?» fece Amadiro, mascherando il proprio disagio

con un sorriso. «Vedi, le cose cambiano su Aurora.»

«Sicuramente non in meglio, in questo caso,» ribatté Vasilia accigliata. «Chi è?»

«È esattamente il tipo che hai descritto... un sapientone. È un giovanotto brillante, sia in robotica che in fisica, chimica, planetologia…»

«E quanti anni ha questo mostro di erudizione?»

«Non ha ancora cinque decadi.»

«E quando crescerà, cosa sarà questo ragazzino?»

«Sarà saggio oltre che brillante, forse.»

«Non fingere di aver frainteso, Kelden. Lo stai allevando per farne il prossimo Capo dell’Istituto?»

«Ho intenzione di vivere ancora per parecchie decadi.»

«Non è una risposta.»

«È l’unica risposta che posso darti.»

Vasilia si agitò sulla poltroncina, e il suo robot, fermo alle sue spalle, si guardò rapidamente attorno quasi stesse accingendosi a respingere un attacco, sollecitato a tale atteggiamento dall’inquietudine di Vasilia, forse.

«Kelden, il prossimo Capo sarò io. Questo è deciso. Me l’hai detto tu.»

«Te l’ho detto, certo... però, all’atto pratico, quando sarò morto, sarà il Consiglio Interno a decidere. Io posso solo lasciare un suggerimento, e il Consiglio non è obbligato a prenderlo in considerazione. Queste sono le regole dell’Istituto.»

«Tu pensa a lasciare una direttiva scritta, Kelden, e io mi occuperò del Consiglio Interno.»

Rabbuiandosi, Amadiro disse: «Adesso non intendo discutere oltre di questo problema. Non volevi parlare di un’altra cosa? Ma cerca di essere breve, per favore.»

Vasilia lo fissò per un istante in silenzio, l’espressione rabbiosa, poi a denti stretti sibilò: «Giskard!»

«Il robot?»

«Il robot, sì! Conosci qualche altro Giskard che potrebbe interessarmi?»

«Be’, allora?»

«Giskard è mio.»

Amadiro parve sorpreso. «Legalmente, Giskard è... o era... di proprietà di Fastolfe.»

«Giskard era mio quando ero piccola.»

«Fastolfe te lo aveva prestato e poi lo ha ripreso. Non c’è stato alcun passaggio di proprietà, giusto?»

«Moralmente, era mio. Ma in ogni caso, Fastolfe non è più il suo proprietario. È morto.»

«E ha lasciato un testamento. Se ben ricordo, il testamento sancisce che due robot, Giskard e Daneel, appartengano ora alla Solariana.»

«Ma io mi oppongo. Io sono la figlia di...»

«Oh?»

Vasilia arrossì. «Giskard spetta a me. Perché dovrebbe finire in mano ad

un’estranea, a una straniera?»

«Innanzitutto, perché questa è la volontà di Fastolfe. E poi quella donna è cittadina di Aurora.»

«E chi lo dice? Per tutti gli Auroriani, lei è la Solariana

Il pugno di Amadiro si abbatté sul bracciolo. «Vasilia, cosa vuoi da me? La Solariana non mi piace, anzi, la detesto, e se potessi la...» Amadiro guardò un attimo i robot, quasi non volesse sconvolgerli «...la allontanerei dal pianeta. Però non posso cambiare il testamento. Anche se esistesse un mezzo legale, che invece non esiste, sarebbe poco saggio ricorrervi. Fastolfe è morto.»

«È proprio per questo che Giskard dovrebbe essere affidato a me, adesso.»

Amadiro la ignorò. «E la coalizione che lui guidava sta disgregandosi. Nelle ultime decadi era tenuta assieme solo dal suo carisma personale. Ora, non mi dispiacerebbe aggregare frammenti di quella coalizione al mio partito. Così forse riuscirei a formare un gruppo abbastanza forte da controllare il Consiglio e garantire il nostro successo nelle prossime elezioni.»

«Diventando tu stesso Presidente?»

«Perché no? Ad Aurora potrebbe capitare di peggio... Io almeno rovescerei la linea politica attuale evitando in tempo un disastro. Il guaio è che non ho la popolarità di Fastolfe, che mascherava la sua stupidità con quell’aria da santo. Per cui, mi metterei in pessima luce se cercassi una ingiusta, meschina vittoria personale su un morto. Nessuno deve dire che, sconfitto da Fastolfe quando era vivo, io ho atteso la sua morte e per una stupida ripicca ho violato le sue volontà testamentarie. Un fatto così assurdo non deve intralciare le decisioni di importanza vitale che ormai Aurora non può più rimandare. Sono stato chiaro? Dovrai fare a meno di Giskard!»

Vasilia si alzò, rigida, gli occhi socchiusi. «La vedremo.»

«No, la questione è chiusa fin da ora. Il colloquio è finito, e se intendi diventare il Capo dell’Istituto non osare mai più minacciarmi. D’ora in poi, rifletti bene prima di qualsiasi tua azione.»

«Non sto minacciando nessuno,» replicò Vasilia, anche se il suo atteggiamento di sfida contraddiceva quelle parole. E uscì, rivolgendo un inutile cenno al suo robot perché la seguisse.

L’emergenza, o meglio la serie di emergenze, iniziò alcuni mesi dopo, quando Maloon Cicis entrò nell’ufficio di Amadiro per la solita riunione mattutina.

Normalmente, Amadiro accoglieva volentieri quello scambio di idee abituale. Cicis era sempre una pausa riposante nel corso di una giornata frenetica. Era l’unico membro anziano dell’Istituto a non avere ambizioni, a non fare calcoli per il giorno in cui Amadiro fosse morto o si fosse dimesso. Cicis era l’esempio perfetto di subordinato. Era felicissimo di rendersi utile e di godere delle confidenze del Capo.

Per questo motivo, da circa un anno, Amadiro guardava turbato l’aria di decadenza, il torace leggermente concavo, la camminata un po’ rigida del suo

dipendente perfetto. Possibile che Cicis stesse invecchiando? E dire che aveva solo qualche decade più di Amadiro

Forse, la graduale degenerazione di tanti aspetti della vita spaziale era accompagnata pure da un decadimento fisico, da una diminuzione della longevità. Amadiro si era riproposto più volte di controllare le statistiche, però finora si era sempre dimenticato di farlo... o, inconsciamente, aveva avuto paura di farlo.

Quel giorno, però, l’aspetto di Cicis era stravolto da un’emozione violenta. Aveva il viso rosso, accaldato, e sembrava letteralmente sbalordito. Amadiro non dovette nemmeno chiedergli cosa fosse successo. Cicis gli raccontò tutto quanto, quasi non riuscisse più a controllarsi.

Quando il suo sfogo fu terminato Amadiro disse sbalordito: «Tutte le emissioni di radioattività sono cessate? Tutte?»

«Tutte, Capo. Devono essere morti tutti, o partiti. Nessun mondo abitato può fare a meno di emettere delle radiazioni elettromagnetiche dato il livello di...»

Amadiro lo zittì con un cènno. Uno degli argomenti toccati da Vasilia... il quarto, se ben ricordava... Stando a Vasilia, i Solariani stavano per abbandonare il loro pianeta. Un’idea assurda, come le altre tre. Lui le aveva detto che le avrebbe prese in considerazione e, logicamente, non l’aveva fatto. Evidentemente aveva commesso un errore.

Rivolse a Cicis la domanda che aveva rivolto a Vasilia, anche se non si aspettava una risposta. (Che risposta poteva esserci?)

«Dove possono essere andati i Solariani, Maloon?»

«Non si sa, Capo.»

«Be’, allora quando sono scomparsi?»

«Non si sa. Abbiamo ricevuto la notizia questa mattina. Il guaio è che l’intensità di radiazione è sempre stata molto bassa su Solaria. Popolazione scarsa, molto sparsa, e robot ben schermati. Un’intensità più bassa di quella che si registra su qualsiasi altro mondo spaziale, un terzo della nostra.»

«E un giorno qualcuno ha notato che quei valori già bassissimi erano scesi a zero, ma nessuno si è accorto del calo progressivo mentre avveniva. Chi è stato a scoprirlo?»

«Una nave nexoniana, Capo.»

«In che modo?»

«La nave è stata costretta a entrare in orbita attorno al sole di Solaria per alcune riparazioni urgenti. Hanno chiesto il permesso via iperonda, ma non c’è stata risposta. Così, legale o meno, sono rimasti in orbita e hanno eseguito le riparazioni, senza essere mai contattati né disturbati. Solo dopo essere ripartiti, controllando i rilevamenti di bordo, hanno scoperto che, oltre a non aver ricevuto alcuna risposta, non avevano captato nessun segnale radioattivo. Quindi non si può stabilire con esattezza quando sia cessato il fenomeno. L’ultimo messaggio ufficiale ricevuto da Solaria risale a due mesi fa.»

«E gli altri tre sospetti di Vasilia?» mormorò tra sé Amadiro.

«Come, Capo?»

«Oh, nulla, nulla,» rispose Amadiro, corrugando la fronte pensieroso.