CAPITOLO PRIMO IL DISCENDENTE

 

Gladia tastò il divano del prato per accertarsi che non fosse troppo umido, e si sedette. Sfiorando il controllo lo regolò in modo tale da assumere una posizione semisdraiata e attivò il campo diamagnetico che, come sempre, le dava una sensazione di rilassatezza totale. Comprensibile, del resto... visto che in effetti lei fluttuava a un centimetro dal tessuto.

Era una notte calda e piacevole, il tipo di notte in cui il pianeta Aurora offriva il meglio di sé, fragrante e illuminato da miriadi di stelle.

Con una fitta di tristezza, Gladia studiò le numerose, piccole scintille che punteggiavano geometriche il cielo, scintille ancor più vivide dal momento che lei aveva ordinato di abbassare le luci della residenza.

Come mai, si chiese, non aveva mai imparato i nomi delle stelle e non aveva mai cercato di distinguerle in tutte le ventitré decadi della sua vita? Una di esse era la stella attorno alla quale orbitava il suo pianeta natale, Solaria... la stella che, nelle prime tre decadi di vita, Gladia aveva considerato semplicemente il sole.

Un tempo Gladia era chiamata Gladia Solaria. Questo quando era giunta su Aurora, venti decadi addietro, duecento Anni Galattici Standard, e si era trattato di un modo non molto amichevole per porre in risalto le sue origini straniere. Un mese prima era stato il bicentenario del suo arrivo, un evento trascorso senza celebrazioni visto che lei preferiva non pensare a quei giorni. Prima di allora, su Solaria, lei era stata Gladia... Delmarre.

Si agitò inquieta. Aveva quasi scordato quel cognome. Perché era passato tanto tempo? O semplicemente perché si sforzava di dimenticare?

In tutti quegli anni non aveva rimpianto Solaria, non ne aveva mai sentito la mancanza.

Eppure, adesso?

Forse perché adesso, all’improvviso, aveva scoperto di essere sopravvissuta a Solaria Il pianeta era morto, diventando un ricordo storico, mentre lei continuava a vivere. Era questo il motivo per cui ora le mancava?

Corrugò la fronte. No, non le mancava, decise caparbia. Non si struggeva per quel mondo, né desiderava tornarvi. Era solo la strana sensazione di dolore provocata dalla scomparsa di qualcosa che era stata parte integrante di lei stessa... per quanto fosse stato un legame distruttivo.

Solaria! L’ultimo dei mondi degli Spaziali ad essere colonizzato, ad essere trasformato in una dimora per l’umanità. E di conseguenza, forse per qualche misteriosa legge della simmetria, era stato anche il primo a morire?

Il primo? Questo comportava dunque una successione? Un secondo mondo, un terzo, e via dicendo?

La tristezza di Gladia si acuì. Alcuni pensavano davvero che esistesse una simile implicazione. In tal caso, Aurora, sua patria adottiva, essendo stato il primo mondo colonizzato dagli Spaziali, sarebbe stato l’ultimo dei cinquanta a perire,

sempre in base alla stessa regola simmetrica. E, anche nella peggiore delle ipotesi, avrebbe potuto superare in durata l’esistenza prolungata di Gladia. Consolante, questo?

I suoi occhi cercarono di nuovo le stelle. Inutile. Lei non era in grado di individuare il sole di Solaria tra tutti quei puntini di luce indistinguibili. Immaginò che fosse uno dei più luminosi, ma quelli particolarmente brillanti erano sempre centinaia.

Alzò il braccio, e fece quello che lei sola conosceva come il gesto di Daneel. L’oscurità non era un impedimento.

II robot Daneel Olivaw comparve quasi subito al suo fianco. Chiunque lo avesse conosciuto poco più di venti decadi addietro, quando era stato progettato da Han Fastolfe, non avrebbe notato alcun cambiamento visibile in lui. Il suo viso ampio dagli zigomi marcati coi corti capelli color bronzo pettinati all’indietro, i suoi occhi azzurri, il suo corpo alto e ben fatto, perfettamente umanoide, sarebbero sembrati giovanili e calmi come sempre.

«Posso esservi utile, Lady Gladia?» chiese con voce uniforme.

«Sì, Daneel. Quale di quelle stelle è il sole di Solaria?»

Daneel non sollevò lo sguardo. Disse: «Nessuna, Lady Gladia. In questo periodo dell’anno, il sole di Solaria non sorge fino alle tre e venti.»

«Oh?» Gladia si sentì annichilita. Chissà come, aveva presunto che qualsiasi stella le interessasse dovesse sempre essere visibile, a disposizione dei suoi occhi curiosi. Certo, le stelle sorgevano e calavano in orari diversi. Questo almeno lo sapeva. «Dunque, ho osservato qualcosa che non c’era.»

«In base alle reazioni umane, credo che le stelle siano bellissime anche se in un particolare momento una di esse non risulta visibile,» disse Daneel, quasi volesse consolarla.

«Non ne dubito,» disse Gladia avvilita, e di scatto regolò il divano in posizione eretta. Si drizzò. «Comunque, a me interessava il sole di Solaria... non tanto da rimanere qui fino alle tre e venti, però.»

«In ogni caso, avreste avuto bisogno di lenti d’ingrandimento.»

«Lenti d’ingrandimento?»

«Quel sole non è visibile a occhio nudo, Lady Gladia.»

«Di male in peggio!» Gladia si lisciò i calzoni. «Avrei dovuto consultarti prima, Daneel.»

Chi avesse conosciuto Gladia venti decadi prima, quando era arrivata su Aurora, avrebbe notato un cambiamento. A differenza di Daneel, lei era un essere umano. Era ancora alta un metro e cinquantacinque, circa dieci centimetri al di sotto dell’altezza ideale per una Spaziale. Aveva mantenuto con cura una figura snella, e nel suo corpo non c’erano tracce di debolezza o irrigidimento. Eppure i suoi capelli avevano lievi sfumature di grigio, accanto agli occhi si notavano minuscole rughe, e la sua pelle appariva meno liscia ed elastica. Forse avrebbe vissuto altre dieci o dodici decadi, ma era innegabile che stesse già invecchiando. Cosa che la lasciava indifferente.

Domandò: «Conosci tutte le stelle, Daneel?»

«Quelle visibili a occhio nudo, Lady Gladia.»

«E sai quando sorgono e tramontano in qualsiasi giorno dell’anno?»

«Sì, Lady Gladia.»

«E tante altre cose riguardo le stelle?»

«Sì, Lady Gladia. Una volta il dottor Fastolfe mi ha chiesto di raccogliere dati astronomici per poterne disporre senza dover consultare il suo computer. Diceva che era più simpatico dialogare con me che con il computer,» fece il robot. Poi, quasi si aspettasse la domanda successiva, aggiunse: «Non mi ha spiegato il perché.»

Gladia alzò il braccio sinistro e fece il gesto appropriato. La casa si illuminò all’istante. Nel chiarore soffuso che la raggiunse, avvertiva a livello subliminale la presenza discreta di parecchi robot, ma non badò alla cosa. In ogni residenza efficiente c’erano sempre numerosi robot nelle immediate vicinanze degli esseri umani, tanto per motivi di sicurezza quanto per motivi di servizio.

Gladia lanciò un’ultima breve occhiata al cielo, dove le stelle avevano perso parte del loro fulgore nel riflesso delle luci della casa. Si strinse nelle spalle. Era stata un’inutile stravaganza, la sua. Non ne avrebbe tratto alcun giovamento, anche se fosse riuscita a vedere il sole di quel mondo ormai perduto, un punto microscopico fra tanti! Tanto valeva scegliere un puntino a caso e fissarlo fingendo che fosse l’astro di Solaria.

Rivolse la propria attenzione a R. Daneel. La aspettava paziente, le linee del viso seminascoste dal buio.

Gladia si ritrovò a pensare a quanto poco fosse cambiato, da quando lei lo aveva visto arrivando tanto tempo prima alla residenza del dottor Fastolfe. Aveva subito riparazioni, naturalmente. Gladia lo sapeva, ma era una consapevolezza vaga che Si preferiva respingere e tener a bada.

Faceva parte della generale ed eccessiva delicatezza che caratterizzava gli esseri umani. Gli Spaziali potevano vantarsi di avere una salute di ferro e archi di vita che variavano dalle trenta alle quaranta decadi, però non erano del tutto immuni ai danni dell’età. Uno dei femori di Gladia si articolava all’anca grazie a una protesi di titanio e silicone. Il suo pollice sinistro era completamente artificiale, anche se nessuno avrebbe potuto capirlo senza un ultrasonogramma accurato. Perfino parte dei suoi nervi erano stati ricablati. Particolari del genere accomunavano qualsiasi Spaziale di una certa età su tutti i cinquanta mondi degli Spaziali... (no, quarantanove, perché adesso bisognava escludere Solaria dal conteggio).

Fare un accenno qualsiasi a cose di questo tipo, comunque, era osceno. I dati medici del caso, che dovevano esistere dal momento che non si potevano escludere ulteriori interventi o terapie, non venivano mai rivelati, per nessuna ragione. I medi- ci, i cui guadagni erano molto più ingenti di quelli del Presidente stesso, erano pagati tanto, perché in pratica erano esclusi dalla vita sociale. Dopo tutto, loro sapevano.

Il fenomeno rientrava nella fissazione per la longevità degli Spaziali, quella loro tipica riluttanza ad ammettere che esisteva la vecchiaia, ma Gladia non si

soffermava mai ad analizzarne le cause. Quando pensava a se stessa sotto quel particolare punto di vista, si sentiva a disagio. Una mappa tridimensionale del suo corpo, con tutte le protesi e le parti modificate segnate in rosso su sfondo grigio, avrebbe formato anche a una certa distanza una vivace macchia di colore. Almeno, così immaginava Gladia.

Il suo cervello, però, era intatto e integro, quindi fondamentalmente lei era intatta e integra, qualsiasi cosa fosse accaduta al resto del corpo.

Il che la riportò a Daneel. Anche se lo conosceva da venti decadi, solo nel corso dell’ultimo anno era diventato suo. Quando Fastolfe era morto (morto forse prematuramente di disperazione), aveva lasciato tutto alla città di Eos, soluzione abbastanza comune. Due cose comunque erano toccate a Gladia, oltre alla conferma del diritto di proprietà della sua residenza con annessi i robot, i terreni e gli altri beni mobili.

Una, era Daneel.

Gladia chiese: «Ricordi tutto quello che hai memorizzato durante venti decadi, Daneel?»

Daneel rispose con aria grave: «Credo di sì, Lady Gladia. E se avessi dimenticato qualcosa, non lo saprei, perché dimenticandola non ricorderei nemmeno di averla memorizzata.»

«È un discorso sbagliato. Potresti ricordare di conoscerla, ma essere incapace di inquadrarla momentaneamente. Spesso mi capita di avere qualcosa sulla punta della lingua, senza riuscire a richiamarla alla mente.»

«Non capisco, signora. Se so una data cosa, ecco, è sempre presente quando mi occorre.»

«Una perfetta operazione di richiamo?» Stavano avviandosi lentamente verso la casa.

«Una semplice operazione di richiamo mnemonico, signora. Sono progettato così.»

«Per quanto ancora?»

«Non capisco, signora.»

«Voglio dire, quanto può contenere il tuo cervello, con oltre venti decadi di ricordi accumulati?»

«Non lo so, signora. Finora, non incontra alcuna difficoltà.»

«D’accordo... però un giorno, di colpo, potresti scoprire di non riuscire a ricordare altro.»

Per un attimo, Daneel parve pensieroso. «Può darsi, signora.»

«Sai Daneel, non tutti i ricordi hanno pari importanza.»

«Non sono in grado di giudicare, signora.»

«Altri, sì. Sarebbe perfettamente possibile vuotare il tuo cervello, Daneel, e poi, sotto supervisione, riempirlo solo col suo contenuto di ricordi importanti... diciamo, il dieci per cento del totale. Allora potresti continuare ad immagazzinare dati per secoli e secoli. Ripetendo un trattamento del genere, potresti andare avanti all’infinito. Sarebbe un’operazione costosa, certo, però io non baderei alla spesa. Ne varrebbe la pena, per te.»

«Io verrei consultato in merito, signora? Sarebbe richiesto il mio consenso per un’operazione di questo tipo?»

«Sicuro. Trattandosi di una questione così delicata, da me non partirebbe alcun ordine. Equivarrebbe a tradire la fiducia del dottor Fastolfe.»

«Grazie, signora. In tal caso, devo dirvi che non mi sottoporrei mai volontariamente a questo trattamento... a meno di non accorgermi di avere perso effettivamente le mie capacità mnemoniche.»

Avevano raggiunto la porta, e Gladia si fermò. Disse, sinceramente sorpresa: «Come mai, Daneel?»

Daneel rispose a bassa voce: «Ci sono ricordi che non posso rischiare di perdere, signora... né per inavvertenza né per una valutazione errata da parte delle persone addette al trattamento.»

«Ricordi tipo il sorgere e il calare delle stelle? Oh, perdonami, Daneel. Non intendevo scherzare. A quali ricordi ti riferisci?»

Daneel disse, abbassando ancor più la voce: «Lady Gladia, mi riferisco ai ricordi legati al mio antico compagno, il Terrestre Elijah Baley.»

Gladia rimase come pietrificata, e fu Daneel che alla fine dovette prendere l’iniziativa e segnalare perché la porta si aprisse.

Il robot Giskard Reventlov attendeva nel soggiorno, e Gladia lo accolse con lo stesso senso di disagio che sempre l’assaliva quando Si trovava di fronte a lui.

Era primitivo, se paragonato a Daneel. Che fosse un robot era evidente... metallico, con un volto che non aveva la minima espressione umana, e occhi che ardevano di una fioca luminosità rossastra, soprattutto se l’oscurità era abbastanza intensa.

Mentre Daneel indossava abiti, Giskard portava solo un abbigliamento illusorio... ma era un’abile illusione, opera di Gladia stessa.

«Giskard.»

«Buonasera, Lady Gladia,» disse Giskard, piegando leggermente il capo.

Gladia ricordò le parole dette tanto tempo addietro da Elijah Baley, simili ora a un sussurro nei recessi della sua mente...

«Daneel si prenderà cura di te. Sarà tuo amico, oltre che tuo protettore, e tu devi essergli amica... per amor mio. Però voglio che tu dia ascolto a Giskard. Sarà lui il tuo consigliere.»

Gladia aveva aggrottato le sopracciglia. «Perché lui? Non sono certa che mi piaccia.»

«Non pretendo che ti piaccia. Ti chiedo solo di fidarti di lui.» E non le aveva spiegato il perché.

Gladia cercava di fidarsi del robot Giskard, ma era contenta di non dovere provare forzatamente simpatia per lui. C’era qualcosa in Giskard che le dava i brividi.

Sia Daneel che Giskard erano stati al suo fianco per numerose decadi, pur appartenendo ufficialmente a Fastolfe. Solo in punto di morte Han Fastolfe li aveva

ceduti a lei. Giskard era la seconda cosa, dopo Daneel, che Fastolfe le aveva lasciato

Gladia aveva detto al vecchio: «Daneel mi basta, Han. Tua figlia Vasilia sarebbe contenta di avere Giskard. Ne sono certa.»

Fastolfe giaceva nel letto, silenzioso, gli occhi chiusi, con un’espressione di pace che lei non vedeva sul suo viso da anni. Non aveva risposto subito, e per un attimo lei aveva pensato che si fosse spento con tanta tranquillità da non farsi nemmeno notare. Gli aveva stretto convulsa la mano, e i suoi occhi si erano aperti.

Le aveva sussurrato: «Non m’importa nulla delle mie figlie biologiche, Gladia. Da anni e anni, non ho che una sola figlia effettiva. Sei tu. Voglio che Giskard passi a te. È prezioso.»

«Perché è prezioso?»

«Non saprei dirlo, ma ho sempre trovato la sua presenza consolante. Devi tenerlo per sempre, Gladia. Promettimelo.»

«Promesso.»

Poi gli occhi di Fastolfe si erano aperti un’ultima volta e la sua voce, trovando un guizzo estremo di energia, aveva detto in tono quasi normale: «Ti voglio bene, Gladia, figlia mia.»

E lei aveva risposto: «Anch’io, Han, padre mio.»

Erano state le ultime parole pronunciate da Fastolfe. Gladia si era ritrovata a stringere la mano di un morto, e per un po’ non era stata capace di muoversi.

Così Giskard era suo. Eppure le procurava un misterioso senso di inquietudine.

«Bene, Giskard,» disse, «ho cercato di vedere Solaria tra le stelle del cielo, ma Daneel sostiene che non sarà visibile fino alle tre e venti, e che in ogni caso avrei dovuto usare delle lenti. Lo sapevi?»

«No, signora.»

«Dovrei restare sveglia fino a quell’ora? Che ne pensi?»

«Io vi suggerirei di andare a letto, Lady Gladia.»

Gladia si adombrò. «Davvero? E se invece decidessi di stare sveglia?»

«Il mio è un semplice suggerimento, signora, ma domani vi attende una giornata dura e sicuramente rimpiangereste il sonno perduto.»

Gladia aggrottò le sopracciglia. «Come mai domani sarà una giornata dura, Giskard? Che io sappia, non ci sono particolari difficoltà in vista.»

«Avete un appuntamento, signora, con un certo Levular Mandamus.»

«Davvero? E quando sarebbe stato fissato?»

«Un’ora fa. Mandamus ha fotofonato, ed io mi sono preso la libertà di...»

«Ti sei preso la libertà? E chi sarebbe costui?»

«Un membro dell’Istituto di Robotica, signora.»

«È un tirapiedi di Kelden Amadiro, dunque.»

«Sì, signora.»

«Sappi, Giskard, che non mi interessa minimamente vedere questo Mandamus né qualsiasi altra persona in rapporti con quel rospo velenoso di Amadiro. Quindi se ti sei preso la libertà di fissare un appuntamento con lui a nome mio, adesso prenditi anche la libertà di metterti in contatto con Mandamus per annullare

l’appuntamento.»

«Se avrò la vostra conferma che si tratta di un ordine, Lady Gladia, di un ordine espresso in modo perentorio e definitivo, proverò ad obbedire. Ma forse non ci riuscirò. A mio giudizio, annullando l’appuntamento vi danneggereste e io non devo permettere che vi venga fatto del male tramite una mia azione.»

«Forse la tua valutazione non è poi tanto esatta, Giskard. Chi è mai quest’uomo che dovrei vedere assolutamente per il mio bene? Il fatto che sia membro dell’Istituto di Robotica non lo rende affatto importante ai miei occhi.»

Gladia si rendeva conto di stare sfogando il proprio malumore ingiustificatamente su Giskard. Era stata sconvolta dalla notizia dell’abbandono di Solaria, e si era sentita imbarazzata per la propria ignoranza che l’aveva spinta a cercare Solaria in un cielo che non la conteneva.

Naturalmente, era stato Daneel a porla di fronte alla sua scarsa conoscenza, eppure lei non se l’era presa con Daneel... ma, in fondo, Daneel aveva un aspetto umano, quindi di riflesso Gladia lo trattava quasi fosse davvero una persona. L’apparenza era tutto. Giskard sembrava un robot, per cui era facile accettare che non potesse essere ferito nei sentimenti.

In effetti, Giskard non reagì all’irritabilità di Gladia. (Se per questo, neppure Daneel avrebbe reagito in circostanze simili.) Disse: «Vi ho descritto il dottor Mandamus come un membro dell’Istituto di Robotica, ma forse quell’uomo è qualcosa di più. Negli ultimi anni è stato il braccio destro del dottor Amadiro. Questo lo rende importante, e non lo si può ignorare tranquillamente. Conviene non offendere un tipo come Mandamus, signora.»

«Davvero, Giskard? Me ne infischio di Mandamus, e me ne infischio ancor di più di Amadiro. Dovresti ricordare che Amadiro un tempo, quando lui ed io e il mondo in generale eravamo ancora giovani, ha fatto del suo meglio per dimostrare che il dottor Fastolfe era un assassino, e che solo grazie a un miracolo o quasi le sue macchinazioni sono state sventate.»

«Ricordo tutto benissimo, signora.»

«È un sollievo, saperlo. Temevo che in venti decadi te ne fossi dimenticato. In tutti questi anni non ho avuto mai nulla a che fare con Amadiro né qualcun altro collegato a lui, e intendo proseguire lungo questa linea di comportamento. Non m’importa il danno che potrò arrecare a me stessa, né le eventuali conseguenze. Non incontrerò questo dottor Tal dei Tali, e in futuro non prendere appuntamenti a nome mio senza consultarmi o, almeno, senza spiegare che certi appuntamenti sono soggetti alla mia disapprovazione.»

«Sì, signora,» disse Giskard. «Però posso aggiung...»

«No, non puoi,» l’interruppe Gladia, girandosi.

Ci fu silenzio mentre lei si allontanava di alcuni passi, poi la voce pacata di Giskard intervenne: «Signora, devo chiedervi di fidarvi di me.»

Gladia si bloccò. Perché aveva usato quell’espressione?

Udì di nuovo quella voce del passato... «Non pretendo che ti piaccia. Ti chiedo solo di fidarti di lui.»

Serrò le labbra, accigliandosi, e pur con riluttanza tornò a voltarsi.

«Be’,» disse sgarbata, «cos’è che volevi aggiungere, Giskard?»

«Semplicemente che finché il dottor Fastolfe era vivo, signora, la sua politica predominava su Aurora e in tutti i mondi degli Spaziali. Di conseguenza, la gente della Terra ha potuto emigrare liberamente su vari pianeti adatti della Galassia, avviando la fioritura di quello che noi oggi chiamiamo i mondi dei Coloni. Adesso, però, il dottor Fastolfe è morto, e i suoi successori non possiedono il suo prestigio. Il dottor Amadiro non ha rinunciato alle proprie posizioni antiterrestri, ed è possibilissimo che ora esse trionfino, portando alla nascita di una massiccia politica contraria alla Terra e ai Coloni.»

«Ammesso che sia così, Giskard, io che posso farci?»

«Potete ricevere il dottor Mandamus e scoprire perché sia tanto ansioso di incontrarvi, signora. Vi assicuro che ha insistito per vedervi quanto prima. Ha chiesto di essere ricevuto alle otto.»

«Giskard, non ricevo mai nessuno prima di mezzogiorno!»

«Gliel’ho spiegato, signora. Ho interpretato la sua ansietà di vedervi a colazione, nonostante le mie spiegazioni, come indice di disperazione. Mi è sembrato dunque importante scoprirne il motivo.»

«E se non lo vedrò, secondo te, farò del male a me stessa, vero? Non ti chiedo se il mio rifiuto danneggerà la Terra o i Coloni, o chicchessia... Danneggerà la qui presente Gladia?»

«Lady Gladia, il vostro rifiuto può nuocere alla capacità della Terra e dei Coloni di continuare la colonizzazione della Galassia, il sogno nato dalla mente dell’agente investigativo Elijah Baley oltre venti decadi fa. Nuocere alla Terra equivarrebbe a profanare la sua memoria. Sbaglio se penso che una tale profanazione verrebbe vissuta da voi come una sofferenza personale?»

Gladia era frastornata. Nel giro di un’ora, per ben due volte Elijah Baley era entrato indirettamente nella conversazione. Era scomparso da tantissimo tempo, un Terrestre dalla vita breve morto da più di sedici decadi... eppure, le bastava sentire il suo nome per provare uno sconvolgimento interiore.

Chiese: «Com’è possibile che all’improvviso la situazione sia diventata così seria?»

«Non è stata una cosa improvvisa, signora. Da venti decadi la Terra e gli Spaziali hanno seguito rotte parallele e non sono entrati in conflitto grazie alla saggia politica del dottor Fastolfe. Ma è sempre esistito un forte movimento d’opposizione, tenuto a bada senza posa dal dottor Fastolfe. Ora che lui è morto, l’opposizione è ancor più potente. L’abbandono di Solaria ha ulteriormente incrementato l’influenza di quella che presto potrà divenire la forza politica dominante.»

«Perché?»

«Perché è un chiaro sintomo del declino della forza degli Spaziali, signora. E probabilmente molti Auroriani ritengono sia necessario un intervento drastico... ora o mai più.»

«E pensi che il mio incontro con quest’uomo sia importante per impedire che accada qualcosa di grave?»

«Esatto, Lady Gladia.»

Gladia rimase un attimo in silenzio, ricordando, con un impeto di ribellione, di avere promesso a Elijah di fidarsi di Giskard. Infine, disse: «Be’, non ne ho voglia, e non credo che questo incontro possa giovare a qualcuno... comunque vedrò Mandamus, d’accordo.»

Gladia dormiva, e la casa era buia, all’occhio umano. Ma vi regnavano attività e movimento, perché per i robot !e cose da fare erano numerose... e loro potevano servirsi degli Infrarossi.

Bisognava riordinare la residenza dopo gli inevitabili effetti caotici di una giornata. Bisognava provvedere alle scorte, eliminare i rifiuti, pulire o lustrare o riporre, controllare le apparecchiature, e poi come sempre c’erano i compiti di sorveglianza.

Non c’erano serrature alle porte, non erano necessarie. Su Aurora non esistevano reati, né contro le persone né contro la proprietà. Non potevano verificarsi, dal momento che ogni residenza e ogni persona erano sorvegliate di continuo dai robot. Era un fatto risaputo, e accettato.

Il prezzo di una tale calma era che i robot di guardia fossero sempre al loro posto. Non dovevano intervenire mai... proprio perché erano sempre presenti.

Giskard e Daneel, le cui capacità erano più profonde e più ampie di quelle degli altri robot della casa, non avevano compiti specifici, a parte quello di essere responsabili dell’efficienza dei loro colleghi.

Alle tre, avevano completato il giro di ispezione in giardino e nel tratto boscoso per accertarsi che le guardie esterne fossero al lavoro e che non fosse sorto qualche problema.

Si incontrarono nei pressi del limite sud dei terreni della residenza, e per un po’ parlarono in un linguaggio abbreviato alquanto nebuloso. Si capivano alla perfezione, dopo tante decadi di comunicazione reciproca, e per loro non era necessario ricorrere a tutte le elaboratezze del discorso umano.

In un mormorio appena percepibile, Daneel esordi: «Nubi. Non visto.»

Se si fosse espresso in presenza di orecchie umane, Daneel avrebbe detto, invece: “Come noterai, amico Giskard, il cielo si è rannuvolato. Anche se fosse rimasta alzata per vedere Solaria, Lady Gladia non avrebbe potuto farlo.”

E la risposta di Giskard: «Previsto. Incontro, piuttosto.» era l’equivalente di: “Questo era stato previsto dal servizio meteorologico, amico Daneel, e avrebbe potuto essere usato come scusa per convincere Lady Gladia a coricarsi presto. Ma a me è sembrato più importante affrontare il problema in modo diretto e persuaderla ad accettare questo incontro di cui ti ho già parlato.”

«Amico Giskard, credo che tu abbia faticato nella tua opera di persuasione perché Lady Gladia è rimasta scossa dopo l’abbandono di Solaria. Un tempo sono stato là con il Compagno Elijah, quando Lady Gladia era ancora una Solariana e viveva su quel pianeta.»

«Ho sempre pensato che Lady Gladia non fosse stata felice sul suo pianeta

natale, che lo avesse lasciato volentieri e non avesse mai espresso il desiderio di tornarvi. Eppure sono d’accordo con te quando sostieni che la fine della storia di Solaria l’ha sconvolta.»

«Non capisco questa reazione di Lady Gladia,» disse Daneel. «Però spesso le reazioni umane non sembrano collegate in modo logico ai fatti.»

«È questo che a volte complica le cose quando si tratta di decidere cosa possa nuocere o meno a un essere umano.» Giskard avrebbe potuto sottolineare la frase con un sospiro, magari leggermente esasperato, se fosse stato un essere umano, invece la sua fu solo la valutazione distaccata di una situazione difficile. «È una delle ragioni per cui mi pare che le Tre Leggi della Robotica siano incomplete o insufficienti.»

«Lo hai già affermato in precedenza, amico Giskard, ed io ho cercato di crederci, senza riuscirci.»

Per un po’ Giskard rimase zitto, poi riprese: «Intellettualmente, penso che debbano essere incomplete o insufficienti, però quando mi sforzo di accettarlo non ci riesco nemmeno io, perché sono vincolato da quelle Leggi. Se non lo fossi, sicuramente crederei nella loro insufficienza.»

«È un paradosso che non riesco a capire.»

«Nemmeno io. Eppure mi ritrovo costretto ad esprimere un simile paradosso. A volte ho perfino l’impressione di essere prossimo a scoprire quale possa essere l’incompletezza o l’insufficienza delle Tre Leggi, come nella mia conversazione di questa sera con Lady Gladia. Mi ha chiesto in che modo rifiutando l’incontro avrebbe potuto nuocere a se stessa, invece di riferirsi a un danno astratto, generale. E io non ho potuto risponderle direttamente, dato che la risposta non rientrava nell’ambito delle Tre Leggi.»

«Le hai risposto in modo perfetto, amico Giskard. La profanazione della memoria del Compagno Elijah avrebbe colpito profondamente Lady Gladia.

«La miglior risposta nell’ambito delle Tre Leggi. Non la migliore in assoluto.»

«Quale sarebbe stata la migliore in assoluto?»

«Non lo so, dal momento che non posso tradurla né in parola né in concetti essendo limitato dalle Leggi.»

«Non c’è nulla oltre le Leggi,» affermò Daneel.

«Se fossi umano,» replicò Giskard, «potrei vedere anche oltre le Leggi e credo, amico Daneel, che tu forse riusciresti a vedere al di là di esse prima di me.»

«Io?»

«Sì, amico Daneel. Per quanto tu sia un robot, mi pare che tu pensi in modo straordinariamente simile a un essere umano.»

«Non è una convinzione giusta,» fece Daneel lentamente, quasi angustiato. «Pensi cose del genere perché puoi guardare nelle menti umane. Questa operazione ti altera, e a lungo andare potrebbe distruggerti. Una prospettiva infelice per me. Se puoi evitare di guardare nelle menti quando non è proprio indispensabile, dovresti farlo.»

Giskard si voltò. «Non posso evitarlo, amico Daneel. E, anche potendo, non lo farei. Mi spiace solo di avere un campo d’azione molto ristretto per via delle Tre

Leggi. Non posso sondare troppo a fondo, per paura di provocare dei danni. Né posso esercitare influenze troppo dirette, sempre per la medesima paura!»

«Eppure hai influenzato Lady Gladia con grande abilità.»

«Non proprio. Avrei potuto modificare il suo pensiero e indurla ad accettare l’incontro senza protestare, ma la mente umana è talmente ricca di complessità che io oso fare pochissimo. Anche il più piccolo mutamento prodotto da me produce a sua volta mutamenti secondari di natura incerta e forse dannosa.»

«Eppure nel caso di Lady Gladia sei intervenuto in qualche modo.»

«Non è stato necessario. La parola fiducia ha un effetto immediato su di lei, e la rende più trattabile. L’ho notato in passato, ma uso questa parola con cautela, dato che esagerando potrei indebolirne il potere. È un fatto che mi riempie di perplessità, però non riesco a scavare abbastanza in profondità per giungere a una soluzione.»

«Perché le Tre Leggi te lo impediscono?»

Gli occhi di Giskard parvero accentuare il loro fioco chiarore rossastro. «Sì. Le Tre Leggi mi ostacolano in ogni istante. E non posso modificarle... proprio perché mi ostacolano. Eppure sono convinto di doverle modificare, perché avverto l’imminenza della catastrofe.»

«Lo hai già detto in precedenza, amico Giskard, però non hai spiegato la natura di questa catastrofe.»

«Perché non mi è nota. È collegata all’ostilità crescente tra Aurora e la Terra, ma non sono in grado di dire in che modo tale situazione sfocerà in un evento catastrofico.»

«È possibile che, dopo tutto, non si verifichi alcuna catastrofe?»

«Non credo. Ho percepito in certi funzionari auroriani che ho incontrato In alone di catastrofe... di attesa di un grande trionfo. Non posso fornire una descrizione più precisa, dato che le Tre Leggi non mi consentono di cercarla con un sondaggio più accurato. È un altro motivo per cui il colloquio con Mandamus deve aver luogo domani. Avrò l’opportunità di studiare la sua mente.»

«Ma se non potrai studiarla in modo efficace?»

Anche se la voce di Giskard era incapace di mostrare influssi emotivi, era innegabile che le sue parole fossero sfumate di disperazione. «Allora mi ritroverò impotente. Posso solo seguire le Leggi. Che altro posso fare?»

Daneel, sottovoce e abbattuto, convenne: «Nient’altro.»

Gladia entrò nel soggiorno alle 8 e 15, (volutamente) decisa, per una piccola ripicca personale, a farsi attendere da Mandamus, di cui sia pure con riluttanza ora aveva imparato il nome.

Si era inoltre occupata in modo particolare del proprio aspetto e, per la prima volta in moltissimi anni, si era tormentata per il grigio che le affiorava nei capelli, rimpiangendo fugacemente di non avere imitato la maggior parte degli Auroriani nell’uso del controllo di tinta. Dopo tutto, mostrandosi giovane e attraente il più possibile, avrebbe messo in una posizione di ulteriore svantaggio quel lacchè di

Amadiro.

Era decisa a detestarlo a prima vista, e purtroppo si rendeva conto che Mandamus avrebbe potuto rivelarsi giovane e attraente, che un viso luminoso avrebbe potuto aprirsi in un sorriso sfolgorante nel vederla arrivare, che lei stessa rischiava di essere colpita in maniera favorevole da quel tipo.

Di conseguenza, si sentì risollevata quando lo vide. Era giovane, probabilmente non aveva ancora superato il primo mezzo secolo di vita, però non aveva fatto buon uso della propria giovinezza. Era alto, oltre il metro e ottanta, ma aveva una corporatura molto sottile che gli conferiva un’aria fragile, goffa. I suoi capelli erano troppo scuri per un Auroriano, gli occhi di un color nocciola slavato, il volto troppo lungo, le labbra troppo sottili, la bocca troppo ampia, la carnagione di un colorito non sufficientemente chiaro. Ma quello che lo privava di un autentico aspetto giovanile era la sua espressione, esageratamente compassata, arcigna, priva di brio.

Con un’intuizione improvvisa, Gladia ricordò i romanzi storici tanto di moda su Aurora (romanzi che riguardavano invariabilmente la Terra primitiva.. fatto strano per un mondo che odiava sempre più i Terrestri) e pensò: “Accidenti, è il ritratto di un Puritano”.

Fu un sollievo, e per poco lei non sorrise. I Puritani di solito venivano raffigurati come i cattivi di turno e, indipendentemente dal fatto che Mandamus lo fosse davvero o no, era conveniente vederlo sotto quella luce.

Ma quando lui parlò, Gladia rimase delusa, perché la sua voce era dolce e armoniosa (Per corrispondere allo stereotipo avrebbe dovuto invece possedere un accento nasale.)

Mandamus esordì: «Signora Gremionis?»

Lei tese la mano, con un sorriso di degnazione molto esplicito. «Signor Mandamus... Per favore, chiamatemi Gladia. Come fanno tutti.»

«So che usate il vostro nome di battesimo professionalmente…»

«Lo uso sempre. E il mio matrimonio si è concluso in modo amichevole parecchie decadi fa.»

«È durato a lungo, se non sbaglio.»

«Sì. È stato un grande successo, ma anche per i grandi successi giunge inevitabile la fine.»

«Ah,» sentenziò Mandamus. «E continuare oltre tale fine potrebbe trasformare il successo in fallimento.»

Gladia annuì e commentò abbozzando un sorriso: «Osservazione davvero saggia per un giovane come voi... Ma vogliamo spostarci in sala da pranzo? La colazione è pronta, e immagino di avervi già fatto aspettare abbastanza.»

Solo quando Mandamus si girò per seguirla, Gladia notò i due robot che lo accompagnavano. Era inconcepibile che un Auroriano si muovesse senza la propria scorta robotica, ma finché restavano immobili i robot non colpivano l’occhio auroriano troppo abituato alla loro presenza.

Un rapido sguardo, e Gladia vide che erano modelli recentissimi, chiaramente costosi. Il loro pseudoabbigliamento era elaborato, di prim’ordine, anche se non si

trattava di una sua creazione. Sebbene riluttante, Gladia dovette ammetterlo.

Avrebbe dovuto scoprire chi fosse quel creatore di cui non riconosceva lo stile, e che avrebbe potuto essere un concorrente temibile. Si ritrovò ad ammirare il tocco identico di classe che caratterizzava l’abbigliamento dei due robot, pur conservando una precisa individualità. Sarebbe stato impossibile scambiare l’uno per l’altro, infatti.

Mandamus colse quella breve occhiata e interpretò l’espressione di Gladia con accuratezza sconcertante. (“È intelligente”, rifletté lei, delusa.) Disse: «L’esodigeno dei miei robot è stato creato da un giovane dell’Istituto che deve ancora farsi un nome nel settore. Ma ci riuscirà, non credete?»

«Certamente,» rispose Gladia.

Gladia non si aspettava alcun colloquio d’affari fino al termine della colazione. Sarebbe stato il colmo della maleducazione discutere di argomenti meno che banali durante i pasti, e Gladia sospettava che l’ospite non fosse particolarmente ferrato in quanto a banalità. C’erano le condizioni meteorologiche, naturalmente. Si parlò della recente ondata di manifestazioni piovose, ora fortunatamente conclusa, e dell’approssimarsi della stagione asciutta. Ci furono le espressioni d’ammirazione, quasi obbligatorie, per la residenza della padrona di casa, che Gladia accettò con consumata modestia. Non fece comunque nulla per alleviare la tensione dell’ospite, e lasciò che fosse lui a cercare argomenti di conversazione. Infine, gli occhi di Mandamus si posarono su Daneel, immobile e silenzioso nella sua nicchia murale, e lui riuscì a vincere la propria indifferenza di Auroriano di fronte al robot.

«Ah,» disse. «Chiaramente, il famoso R. Daneel Olivaw. È inconfondibile. Un esemplare notevole.»

«Notevolissimo.»

«Adesso è vostro, vero? Stando al testamento di Fastolfe.»

«Il testamento del dottor Fastolfe,» precisò Gladia.

«Mi sorprende sempre il fallimento della linea di robot umanoidi dell’Istituto. Non ci avete mai pensato?»

«Ne ho sentito parlare,» ammise Gladia, cauta. Era dunque quello l’argomento al quale lui mirava? «Ma certo non credo di essermi soffermata eccessivamente a considerare la cosa.»

«I sociologi stanno ancora cercando di capirne i motivi. Noi, all’Istituto, non abbiamo mai superato quella delusione. Sembrava uno sviluppo del tutto naturale. Alcuni di noi pensano che Fa... che il dottor Fastolfe c’entrasse in qualche modo.»

(«Ha evitato di commettere un secondo errore”, pensò Gladia. Socchiuse gli occhi, assumendo un atteggiamento ostile, convinta che Mandamus fosse venuto da lei per indagare alla ricerca di qualcosa che potesse danneggiare materialmente il povero, buon Han.)

Disse acida: «Chiunque lo pensi, è uno sciocco. E se voi siete dello stesso avviso, non cambierò certo l’aggettivo che ho usato per farvi piacere.»

«No, io la penso diversamente, soprattutto perché non vedo in che modo il dottor Fastolfe possa essere stato responsabile del fiasco.»

«Perché dovrebbero esserci per forza dei responsabili? Il pubblico non voleva i

robot umanoidi, tutto qui. Un robot che sembra un uomo, rivaleggia con un uomo; e un robot identico a una donna, rivaleggia con una donna... una situazione inquietante. Gli Auroriani non volevano alcuna forma di rivalità, di concorrenza. È necessario esaminare oltre il problema?»

«Concorrenza sessuale?» aggiunse calmo Mandamus.

Per un attimo, Gladia lo fissò negli occhi. Era al corrente del suo passato amore per il robot Jander? E, se sì, aveva importanza?

Nell’espressione di Mandamus non c’era nulla che indicasse qualche velata allusione.

Infine, Gladia disse: «Concorrenza in ogni senso. L’unica colpa del dottor Fastolfe, forse, è stata quella di avere progettato robot troppo umani, nient’altro.»

«Mi pare che, dopo tutto, vi siate soffermata a considerare la cosa,» fece Mandamus. «Il guaio è che secondo i sociologi questa paura di entrare in concorrenza con una serie di robot umanoidi è una spiegazione semplicistica. Da sola è insufficiente, eppure non esistono altri fattori che giustifichino una tale avversione.»

«La sociologia non è una scienza esatta,» disse Gladia.

«Però non è neppure del tutto inesatta.»

Gladia scrollò le spalle.

Dopo un attimo di pausa, Mandamus riprese: «In ogni caso, ci ha impedito di organizzare in modo adeguato spedizioni di colonizzazione. Senza robot umanoidi a spianare il terreno...»

La colazione non era ancora terminata, ma era evidente che Mandamus non riusciva più ad evitare gli argomenti seri. Gladia intervenne. «Avremmo potuto andare noi in persona.»

Questa volta, fu lui a scrollare le spalle. «Troppo difficile. E poi, quei barbari dalla vita corta della Terra, col permesso del vostro dottor Fastolfe, si sono riversati su tutti i pianeti a portata di mano come uno sciame di scarafaggi.»

«Ci sono ancora pianeti disponibili. A milioni. E se loro possono farlo...»

«Certo che possono,» proruppe Mandamus infervorandosi. «La colonizzazione costa vite umane, ma cos’è per loro la vita? La perdita di una decade o due, nient’altro... e quelli sono miliardi! Se un milione di persone muore durante la colonizzazione, chi se ne accorge, a chi importa?»

«A loro importa, sicuramente.»

«Sciocchezze. Le nostre vite sono più lunghe, quindi più preziose. Ed è naturale che noi siamo più prudenti.»

Così ce ne stiamo qui seduti ad oziare e a prendercela coi Coloni della Terra solo perché sono disposti a rischiare la vita e probabilmente grazie a questo erediteranno la Galassia.»

Gladia non sapeva di parteggiare a tal punto per i Coloni, ma aveva voglia di contraddire Mandamus, e nel parlare non poté fare a meno di constatare che le sue parole contraddittorie possedevano un senso innegabile ed esprimevano benissimo il suo punto di vista. Inoltre, aveva sentito parole simili dalla bocca di Fastolfe nei suoi ultimi tristi anni di vita.

Ad un segnale di Gladia, la tavola cominciò ad essere sparecchiata rapidamente, con efficienza. La colazione avrebbe potuto protrarsi, ma la conversazione e lo stato d’animo erano diventati del tutto inadatti ad un pasto civile.

Tornarono in soggiorno. I robot di Mandamus furono seguiti da Daneel e Giskard, ritirandosi ognuno nella propria nicchia. (Mandamus non aveva fatto alcun accenno a Giskard, rifletté Gladia... del resto, perché avrebbe dovuto? Giskard era abbastanza antiquato, addirittura primitivo, mediocre se paragonato agli splendidi esemplari di Mandamus.)

Gladia si sedette e accavallò le gambe, sapendo che la trasparenza aderente della parte inferiore dei calzoni che indossava faceva risaltare l’aspetto ancora giovanile delle sue gambe.

«Potrei conoscere il motivo per cui avete chiesto di vedermi, dottor Mandamus?» chiese, bandendo qualsiasi indugio.

«Ho la pessima abitudine di masticare gomma medicinale dopo i pasti, per favorire la digestione. Vi spiace se lo faccio?»

Gladia rispose, rigida: «La cosa mi infastidirebbe non poco.» (Non potendo masticare avrebbe potuto sentirsi a disagio. E poi, aggiunse tra sé Gladia virtuosamente, alla sua età non avrebbe dovuto ricorrere ad ausili digestivi.)

Mandamus aveva estratto in parte un piccolo involucro rettangolare dal taschino della tunica. Lo ripose, senza mostrare alcun segno di disappunto, e mormorò: «Certo.»

«Vi stavo chiedendo, dottor Mandamus, il motivo della vostra visita.»

«Le ragioni sono due, Lady Gladia. Una è una questione personale, l’altra una questione di Stato. Vi dispiace se affronto prima la questione personale?»

«Francamente, dottor Mandamus, non riesco ad immaginare che questione di carattere personale possa esserci tra noi. Lavorate all’Istituto di Robotica, vero?»

«Sì.»

«E siete molto vicino ad Amadiro, dicono.»

«Ho l’onore di lavorare con il dottor Amadiro,» rispose Mandamus, scandendo bene le sillabe.

(“Mi sta ripagando con la stessa moneta”, pensò Gladia. “Ma con me non attacca.”)

Disse: «Amadiro ed io abbiamo avuto occasione di incontrarci venti decadi fa, ed è stato un episodio assai poco simpatico. Da allora, tra noi due non c’è più stato alcun rapporto. Né avrei accettato di incontrare voi, in qualità di suo stretto collaboratore, se non mi avessero convinta della probabile importanza di questo colloquio. Le questioni personali, comunque, non aumenteranno certo l’interesse del nostro incontro Quindi, se vogliamo passare alle questioni di Stato...?»

Mandamus abbassò gli occhi e un lieve rossore, forse d’imbarazzo, gli tinse le gote. «Permettetemi di presentarmi di nuovo, allora. Sono Levular Mandamus, vostro discendente di quinto grado. Sono il pro-pro-pronipote di Santirix e Gladia Gremionis. Dunque voi siete la mia bis-bis-bisnonna.

Gladia batté le palpebre, sforzandosi senza riuscirci di celare il proprio

sbigottimento. Naturale che avesse dei discendenti, e che quest’uomo potesse essere uno di loro.

Ma disse: «Ne siete sicuro?»

«Sicurissimo. Ho ordinato una ricerca genealogica. Un giorno forse vorrò dei figli, e prima di poterne avere uno sappiamo che è obbligatoria una ricerca del genere. Se ci interessa, il nostro schema di parentela è M-F-F-M.»

«Siete il figlio del figlio della figlia della figlia di mio figlio?»

«Sì.»

Gladia non chiese altri particolari. Aveva avuto un figlio e una figlia. Era stata una madre perfettamente ligia al proprio dovere di genitrice, ma col tempo i figli si erano costruiti vite indipendenti. Per quanto riguarda i discendenti dei figli, da buona Spaziale, non aveva mai fatto domande né provava alcuna curiosità. E anche adesso, di fronte ad uno di essi, riusciva a conservare il proprio atteggiamento da Spaziale freddo e distaccato.

Quel pensiero servì a stabilizzarla del tutto. Si appoggiò allo schienale, rilassandosi. «Benissimo. Siete un mio discendente di quinto grado. Se è questa la questione personale di cui desiderate discutere, sappiate che per me non ha nessuna importanza.»

«Questo l’ho capito alla perfezione, antenata. Il mio albero genealogico non è direttamente l’argomento del quale vorrei parlare, ma è una premessa basilare. Vedete, il dottor Amadiro è al corrente di questa nostra parentela. Almeno, così credo.»

«Davvero? Come mai?»

«Credo che faccia controllare in segreto la genealogia di tutti coloro che lavorano all’Istituto.»

«Perché?»

«Per scoprire esattamente quello che ha scoperto nel mio caso. È un uomo diffidente.»

«Non capisco. Siete un mio discendente di quinto grado, e se questo non significa nulla per me, perché dovrebbe avere un qualche significato per lui?»

Mandamus si sfregò il mento con le nocche della destra, assorto. «La sua avversione per voi è pari alla vostra nei suoi confronti, Lady Gladia. Se voi, per causa sua, eravate pronta a rifiutare un colloquio, ebbene, lui per causa vostra sarebbe altrettanto pronto a rifiutarmi una promozione. Se fossi un discendente del dottor Fastolfe, le cose sarebbero anche peggiori... ma non di tanto.»

Gladia si drizzò rigida, le narici dilatate, e sbottò secca: «Cosa dovrei fare, allora, secondo voi? Non posso dichiarare che non discendete da me. Dovrei fare un annuncio in ipervisione e affermare che mi siete indifferente e che vi rinnego? Sarebbe soddisfatto il vostro Amadiro? Be’, non farò mai nulla del genere, vi avverto. Nulla che possa soddisfare quell’uomo. E se vi licenzierà e vi rovinerà la carriera perché disapprova i vostri legami genetici, vi servirà di lezione e la prossima volta starete alla larga da una persona così pazza e malvagia.»

«Non mi licenzierà, Lady Gladia. Perdonate la mia immodestia, ma sono troppo prezioso per lui. Comunque, spero un giorno di prendere il suo posto come capo

dell’Istituto, e lui sicuramente non lo permetterà finché sospetterà che io sono di discendenza peggiore di quella che mi lega a voi.»

«Crede che il povero Santirix sia peggiore di me?»

«Niente affatto.» Mandamus arrossì, deglutendo, ma la sua voce non ebbe tentennamenti. «Non intendo mancarvi di rispetto, signora. E ritengo sia mio diritto conoscere la verità.»

«Che verità?»

«Sono vostro discendente di quinto grado. Questo è evidente, in base ai documenti genealogici. Però è anche possibile che io sia pure discendente di quinto grado... non di Santirix Gremionis ma del Terrestre Elijah Baley, vero?»

Gladia balzò in piedi, quasi fosse stata sollevata di scatto dai campi di forza unidimensionali di un burattinaio.

Era la terza volta in dodici ore che veniva fatto il nome del Terrestre... e da tre individui diversi. La voce che scaturì dalle sue labbra non sembrava nemmeno appartenerle. «Cosa vorreste dire?»

Alzandosi a sua volta e indietreggiando leggermente, Mandamus rispose. «Mi pare abbastanza chiaro. Vostro figlio, il mio trisavolo, è nato da una relazione sessuale tra voi e il Terrestre Elijah Baley? Era Elijah Baley il padre di vostro figlio? Non saprei come esprimere la cosa in modo più semplice.»

«Come osate insinuare una cosa simile? O anche solo pensarla?»

«Oso perché ne va della mia carriera. Se la risposta è sì, professionalmente sarò rovinato. Dunque voglio un no, ma un no senza prove a sostegno non mi servirebbe. Devo essere in grado di presentare delle prove al dottor Amadiro al momento opportuno, per dimostrargli che la mia genealogia non ha altre macchie oltre a voi. Vedete, la sua avversione per voi e per il dottor Fastolfe non è nulla, proprio nulla, se confrontata al suo disprezzo incredibile, intensissimo, verso il Terrestre Elijah Baley. Non si tratta solo del fatto che fosse un essere umano dalla vita breve... anche se il pensiero di avere ereditato geni barbari mi turberebbe enormemente... se gli dimostrassi di discendere da un Terrestre diverso da Elijah Baley, è probabile che chiuderebbe un occhio. Ma è il pensiero di Elijah Baley a farlo quasi impazzire. E non so il perché.»

Sentendo ripetere il nome Elijah, Gladia ebbe l’impressione che fosse ancora vivo. Stava respirando con un certo affanno, mentre il bel ricordo della sua vita le dava un senso di esultanza.

«Io so perché,» disse. «Perché Elijah, nonostante avesse contro tutta Aurora, è riuscito a distruggere Amadiro proprio quando Amadiro credeva di avere il successo in mano. Elijah lo ha sconfitto col coraggio e l’intelligenza. Amadiro ha scoperto che il Terrestre che aveva disprezzato e sottovalutato era in realtà un avversario al di fuori della sua portata, e non ha potuto far altro che abbandonarsi`a un odio inutile. Elijah è morto da più di sedici decadi, eppure Amadiro non riesce a dimenticarlo, non riesce a perdonare, non riesce a spezzare le catene che lo legano nell’odio e nel ricordo a quel morto. E io non voglio che Amadiro dimentichi, né che cessi di odiare, perché egli avvelena ogni istante della propria esistenza.»

Mandamus disse: «Capisco che abbiate motivo di augurare il male al dottor

Amadiro, ma che motivo avete di fare del male a me? Lasciando che il dottor Amadiro creda che io discenda da Elijah Baley gli concederete il piacere di distruggermi. Perché concedergli questo piacere inutilmente, se la mia discendenza è diversa? Dimostratemi dunque che discendo da voi e da Santirix Gremionis, o da voi e da chiunque altro purché non si tratti di Elijah Baley.»

«Sciocco! Idiota! Volete prove da me? E a che scopo? Rivolgetevi agli archivi storici. Scoprirete i giorni esatti in cui Elijah Baley è stato su Aurora. Scoprirete il giorno esatto in cui ho partorito mio figlio Darrel. Scoprirete che Darrel è stato concepito oltre cinque anni dopo la partenza di Elijah da Aurora. E scoprirete pure che Elijah non è più tornato su Aurora. Ebbene, allora, pensate che il mio periodo di gestazione sia durato cinque anni, che abbia portato un feto nel ventre per cinque Anni Galattici?»

«Conosco le statistiche, signora. E non penso abbiate portato un feto nel ventre per cinque anni.»

«In tal caso, perché siete venuto da me?»

«Perché la situazione presenta altri aspetti che avete tralasciato. Io so, e immagino lo sappia anche il dottor Amadiro, che pur non tornando più sulla superficie di Aurora, il Terrestre Elijah Baley si è trovato una volta a bordo di un’astronave in orbita attorno al pianeta per un paio di giorni. So, e immagino anche il dottor Amadiro lo sappia, che il Terrestre non ha lasciato l’astronave, ma che voi partendo da Aurora avete raggiunto l’astronave, che siete rimasta a bordo parecchie ore, che tutto questo è avvenuto circa cinque anni dopo la partenza del Terrestre dalla superficie di Aurora... il periodo, grosso modo, in cui vostro figlio è stato concepito.»

Alle parole calme di Mandamus, Gladia si sentì sbiancare in viso. Barcollò, mentre la stanza attorno a lei si oscurava.

All’improvviso, avvertì il contatto delicato di un paio di braccia forti e capì che erano quelle di Daneel, che la adagiò lentamente sulla poltroncina.

La voce di Mandamus le giunse da grande distanza.

«Non è forse vero, signora?»

Era vero, naturalmente.