Domenica, 23 novembre 2008

Pia non aveva chiuso occhio per tutta la notte ed era già in piedi quando, alle cinque e un quarto, ricevette una telefonata dagli agenti di guardia. Nadja von Bredow era appena tornata nel suo appartamento di Westhafen, a Francoforte. Ma era sola.

«Aspettatemi. Arrivo subito».

Mise il cellulare in borsa, poi prese il fieno che reggeva sotto il braccio e lo buttò oltre la porta del box. Non era un caso che non fosse riuscita a dormire. Il giorno dopo, alle tre e mezza, ci sarebbe stato un sopralluogo da parte dell’ufficio tecnico. Se non avessero ritirato l’ordinanza di demolizione, presto si sarebbe trovata in mezzo a una strada insieme a Christoph e agli animali.

Negli ultimi giorni lui ci aveva riflettuto e l’ottimismo iniziale era svanito rapidamente. I precedenti proprietari non avevano detto a Pia che il terreno su cui sorgeva la casa era classificato come non edificabile perché a poca distanza passavano le linee dell’alta tensione della Main-Kraftwerke. Dopo la guerra il padre dei proprietari aveva costruito un semplice capanno che poi, nel corso del tempo, era stato ampliato senza alcuna autorizzazione. Per sessant’anni nessuno si era accorto di niente finché, non sapendo di vivere nell’illegalità, Pia aveva presentato la domanda di ristrutturazione. Dopo aver dato da mangiare ai pennuti chiamò Bodenstein, che però non rispose. Gli mandò un sms; poi, pensierosa, tornò nella casa che le era diventata improvvisamente estranea. In punta di piedi entrò in camera da letto.

«Devi andare?» chiese Christoph.

«Sí. Ti ho svegliato?». Accese la luce.

«No, non riuscivo a dormire». La osservò con la testa appoggiata a una mano. «Sono rimasto sveglio quasi tutta la notte per trovare una soluzione al nostro problema».

«Anch’io». Pia si sedette sull’angolo del letto. «In ogni caso, quegli stronzi che mi hanno venduto la proprietà si beccheranno una bella denuncia. Mi hanno imbrogliata!».

«Sí, be’, dovremo dimostrarlo. Oggi parlerò con un mio amico che di queste cose se ne intende. Poi decideremo cosa fare».

Lei sospirò. «Per fortuna ci sei tu» disse con un filo di voce. «Senza di te sarei persa».

«Se non fossi entrato nella tua vita, non avresti mai presentato una domanda di ristrutturazione e non sarebbe successo niente». Christoph le sorrise. «Dai, non buttarti giú. Pensa al tuo lavoro, del resto mi occuperò io. Okay?».

«Okay». Pia ricambiò il sorriso, si piegò verso di lui e lo baciò. «Purtroppo non so a che ora riuscirò a tornare».

«Non c’è problema» rispose lui, sempre sorridendo. «Devo andare allo zoo».

 

La riconobbe da lontano. Dopotutto la conosceva bene. Era ferma vicino all’auto nel parcheggio, sotto il lampione; i capelli rossi erano l’unica macchia di colore in mezzo alla foschia. Dopo un attimo di esitazione Bodenstein le andò incontro con passo deciso. Cosima non era il tipo di donna che si lasciava mollare per telefono. In effetti avrebbe dovuto immaginare che prima o poi gli si sarebbe presentata davanti. Se solo il caso non lo avesse assorbito completamente… Ora si sentiva impreparato e in svantaggio.

«Cosa vuoi?» domandò in tono brusco. «Adesso non ho tempo».

«Non mi hai richiamato» fece lei. «Ho bisogno di parlare con te».

«Come, all’improvviso vuoi parlare?». Bodenstein si fermò davanti alla moglie e osservò il suo viso pallido e composto. Il cuore gli batteva all’impazzata, mantenere la calma era difficile. «Per settimane non hai sentito questo bisogno. Chiama il tuo amico russo, se proprio vuoi fare quattro chiacchiere».

Tirò fuori la chiave della macchina, ma lei non si spostò di un millimetro. Rimase immobile davanti alla portiera.

«Voglio darti una spiegazione…» cominciò, ma Bodenstein le impedí di finire la frase. Aveva dormito pochissimo e doveva mettersi subito al volante. Non era il momento adatto per i discorsi importanti.

«Non mi interessa. Davvero, non ho tempo».

«Oliver, ti prego, non avevo intenzione di farti del male!». Cosima alzò una mano per toccarlo, ma vedendo che lui si ritraeva la abbassò immediatamente. Nell’aria fredda del mattino il suo alito formava delle nuvolette bianche. «Non volevo arrivare a tanto, ma…».

«Basta!» gridò Bodenstein. «La verità è che mi hai ferito profondamente. Non avevo mai provato un dolore cosí forte. Non voglio né scuse né giustificazioni, non mi interessano. Hai rovinato tutto. Tutto!».

Cosima rimase in silenzio.

«Chissà quante volte mi avevi già tradito. Sei cosí brava a mentire e a prendermi in giro!» proseguí lui a denti stretti. «Cosa combinavi durante i tuoi viaggi? In quanti letti ti sei rotolata mentre quell’imbecille di tuo marito ti aspettava a casa prendendosi cura dei figli? Magari hai anche riso alle mie spalle. Certo, sono stato un vero idiota a fidarmi di te!».

Un fiume di parole incandescenti gli sgorgava dall’animo ferito; finalmente riusciva a esprimere tutta la delusione che aveva dentro. Cosima incassò un colpo dopo l’altro senza batter ciglio.

«Probabilmente Sophia non è neanche mia figlia. Potrebbe essere di uno di quei tipi trasandanti e inaffidabili con cui passi tanto tempo!».

S’interruppe. Aveva appena detto una cosa davvero terribile, ma ormai era fatta, non poteva piú tornare indietro.

«Avrei messo tutte e due le mani sul fuoco per il nostro matrimonio» aggiunse, controllando a fatica la voce. «Ma tu mi hai detto un sacco di bugie. Mi hai tradito. Non riuscirò mai piú a fidarmi di te».

Cosima s’irrigidí.

«Dovevo immaginare che avresti reagito cosí» rispose freddamente. «Presuntuoso e intransigente. Consideri la questione solo dal tuo punto di vista. Sei un egoista!».

«Cosa dovrei fare? Mettermi nei panni del tuo amante russo?». Bodenstein sbuffò. «L’egoista sei tu! Per vent’anni hai passato intere settimane lontano da casa e non mi hai mai chiesto niente. I tuoi viaggi non mi sono mai piaciuti, ma li ho sempre accettati perché facevano parte del tuo lavoro. Poi sei rimasta incinta e hai deciso da sola di tenere il bambino. Invece di chiedermi se lo volevo, un altro figlio, mi hai messo di fronte al fatto compiuto. Sapevi benissimo che avresti dovuto rinunciare ai viaggi in giro per il mondo. Per noia hai cominciato una relazione con un altro uomo… E ora dai dell’egoista a me? Questa sí che è bella! Se non fosse cosí triste, ci sarebbe da ridere!».

«Quando Lorenz e Rosi erano piccoli, riuscivo comunque a lavorare e condividevamo le responsabilità» replicò lei. «Ma non importa, non ho voglia di discutere. È successo. Ho commesso un grave errore, però non ho intenzione di cospargermi il capo di cenere per farmi perdonare da te».

«Allora perché sei venuta?». Il cellulare nella tasca del cappotto cominciò a suonare e a vibrare, ma Bodenstein lo ignorò.

«Dopo Natale starò via quattro settimane per seguire la spedizione di Gavrilow lungo il passaggio a nord-est. Dovrai occuparti di Sophia».

Lui la guardò sbalordito, come se avesse appena ricevuto un colpo in pieno viso. Cosima non era venuta a implorare il suo perdono. No, aveva già deciso riguardo al futuro. A quanto pareva Bodenstein avrebbe dovuto accontentarsi di fare il baby-sitter. All’improvviso sentí le ginocchia tremare.

«Stai scherzando» sussurrò.

«No. Ho firmato il contratto qualche settimana fa. Sapevo che l’avresti presa male». Cosima alzò le spalle. «Mi dispiace, non volevo che le cose andassero cosí. Davvero. Ma negli ultimi mesi ho riflettuto molto. Se mi lascio sfuggire questa occasione, me ne pentirò per il resto della mia vita».

Continuò a parlare, ma Bodenstein non la stava piú ascoltando. Aveva già capito tutto: mentalmente Cosima l’aveva lasciato già da tempo, aveva detto addio alla vita con lui. In realtà aveva sempre avuto dubbi su di lei. Per tanti anni si era ripetuto che la differenza di carattere non era un problema, anzi aggiungeva un pizzico di sale al rapporto. Ora, però, doveva guardare in faccia la realtà e ammettere che non erano fatti per stare insieme. Sentí una fitta al cuore.

Cosima si stava comportando come aveva già fatto tante volte: gli stava presentando una decisione che aveva preso da sola e che lui non poteva far altro che accettare. Era lei a fissare la rotta. Lei aveva tirato fuori i soldi per comprare il terreno a Kelkheim e costruire la casa. Lui non avrebbe mai potuto permettersela. Non era certo piacevole, ma per la prima volta, in una buia mattina di novembre, vide Cosima con occhi nuovi. Non era piú la compagna bella, sicura ed eccitante che aveva avuto accanto per tanti anni, ma solo una donna che imponeva senza scrupoli la propria volontà e i propri desideri. Era stato cosí stupido e cieco!

Le orecchie gli ronzavano. Lei aveva smesso di parlare e lo guardava impassibile, come se attendesse una risposta. Bodenstein socchiuse gli occhi. Il suo viso, l’auto, il parcheggio… tutto si confuse. Se ne sarebbe andata. Con un altro uomo. Non avrebbe piú fatto parte della sua vita. Di colpo fu sopraffatto dall’odio e dalla gelosia. Fece un passo avanti e la afferrò per il polso. Cosima provò a liberarsi, ma la mano di Oliver era come una morsa. In un istante il suo atteggiamento di fredda superiorità svaní. In preda alla paura, spalancò gli occhi e aprí la bocca per gridare.

 

Alle sei e mezza Pia decise di andare da Nadja von Bredow senza il suo superiore. Bodenstein non rispondeva al cellulare e non aveva reagito in alcun modo ai messaggi. Stava per suonare il campanello quando la porta d’ingresso dell’edificio si aprí e apparve un uomo. Pia e i due agenti in borghese che avevano sorvegliato la casa fecero per entrare.

«Fermi!». L’uomo, un tipo sui cinquantacinque anni con i capelli brizzolati e gli occhiali di corno dalla forma arrotondata, bloccò il passaggio. «Chi cercate?».

«Non sono affari suoi» rispose seccamente Pia.

«Invece sí». L’uomo si piazzò davanti all’ascensore, incrociò le braccia e la squadrò con arroganza. «Sono il presidente dell’associazione dei proprietari di questa zona e vi dico che non potete entrare».

«Siamo della polizia».

«Davvero? Mi mostra il tesserino?».

Pia cominciava a perdere la pazienza. Tirò fuori il tesserino e glielo mise davanti al naso. Poi, senza aggiungere una parola, andò dritta verso le scale.

«Tu rimani qui» ordinò a uno dei colleghi. «Noi saliamo».

Avevano appena raggiunto l’attico quando la porta si spalancò. Nadja von Bredow trasalí per lo spavento.

«Avevo detto di aspettarmi di sotto» disse, un po’ irritata. «Be’, visto che ormai è qui, prenda almeno le valigie».

«Come, già in partenza?». Pia capí che la donna non l’aveva riconosciuta; credeva fosse la tassista. «È appena tornata a casa».

«Come fa a saperlo? E poi perché s’impiccia?».

«Perché è il mio lavoro». Le mostrò il tesserino. «Pia Kirchhoff, polizia giudiziaria di Hofheim».

Nadja von Bredow sporse il labbro inferiore e la fissò. Indossava una giacca di Wellensteyn marrone scuro con il collo di pelliccia, jeans e stivali. I capelli biondi erano stretti in uno chignon. Nonostante il trucco pesante, le ombre scure sotto gli occhi arrossati erano ben visibili.

«Siete arrivati al momento sbagliato. Devo correre all’aeroporto».

«Rimandi la partenza» replicò Pia. «Devo farle qualche domanda».

«Adesso non ho tempo» insistette l’altra, premendo il pulsante per chiamare l’ascensore.

«Dov’è stata in questi giorni?».

«Via».

«Mmh. Dov’è Tobias Sartorius?».

Nadja von Bredow la guardò con un’espressione di stupore negli occhi verdi.

«Perché dovrei saperlo?». Sembrava davvero sorpresa. Non a caso era una delle attrici piú pagate di tutta la Germania.

«Perché dopo il funerale di Laura Wagner siete andati via insieme. Doveva portarlo da noi per l’interrogatorio, ma non l’ha fatto».

«E questo chi lo dice?».

«Il padre di Tobias. Allora?».

La porta dell’ascensore si aprí. Nadja von Bredow fece un sorriso beffardo.

«Non dovreste credere a tutto quello che dice il vecchio». Posò lo sguardo sul collega di Pia. «Voi poliziotti siete al servizio del cittadino, no? Potrebbe aiutarmi a mettere le valigie nell’ascensore?».

Vedendo che l’agente stava per obbedire, Pia perse le staffe.

«Dov’è Amelie? Cosa le ha fatto?».

«Io?». La donna spalancò gli occhi. «Niente! Perché avrei dovuto farle qualcosa?».

«Perché Amelie ha ricevuto da Thies Terlinden dei disegni che mostrano chiaramente cos’ha fatto. Non solo è stata a guardare mentre i suoi amici violentavano Laura, ma ha anche visto Gregor Lauterbach fare sesso con Stefanie Schneeberger nel fienile dei Sartorius. È stata lei a uccidere Stefanie con il cric».

Incredibilmente, Nadja von Bredow scoppiò a ridere.

«È una storia assurda. Come l’è venuta in mente?».

Pia avrebbe voluto prenderla a schiaffi, ma con uno sforzo riuscí a trattenersi.

«Jörg, Felix e Michael hanno confessato tutto. Laura era ancora viva quando lei ha ordinato ai suoi tre amici di farla sparire. E ora temeva che Amelie avesse scoperto la verità grazie a Thies e ai suoi disegni. Cosí ha deciso di toglierla di mezzo».

«Mio Dio». Nadja rimase impassibile. «Neanche uno sceneggiatore riuscirebbe a mettere insieme tante sciocchezze. Ho incontrato Amelie una volta sola e non ho la minima idea di dove sia ora».

«Non è vero. Sabato era nel parcheggio del Cavallino Nero. Ha nascosto lo zaino della ragazza tra i cespugli».

«Ah sí?». Nadja inarcò le sopracciglia; sembrava molto infastidita. «Come fa a dirlo?».

«Qualcuno l’ha vista».

«Sono brava, ma non ho ancora il dono dell’ubiquità. Sabato ero ad Amburgo. Ho dei testimoni che possono confermarlo».

«Chi?».

«Posso darle nomi e numeri di telefono».

«Come mai era ad Amburgo?».

«Per lavoro».

«No. Il suo manager ci ha detto che quella sera non aveva in programma nessuna ripresa».

Nadja von Bredow guardò l’orologio da polso e fece una smorfia, come se ne avesse davvero abbastanza.

«Sono stata ad Amburgo e ho presentato una serata di gala con il mio collega Torsten Gottwald. La ndr ha registrato tutto. Non posso aiutarla a contattare tutti gli ospiti presenti, ma ho il numero del regista, di Torsten e di qualcun altro. È sufficiente per dimostrare che quella sera non potevo essere in un parcheggio di Altenhain, non crede?».

«Fossi in lei, eviterei il sarcasmo» disse Pia con voce dura. «Scelga una valigia. Il mio collega sarà felice di portarla alla nostra auto».

«Questa è bella. Poliziotti che si improvvisano tassisti».

«Le assicuro che per noi sarà un piacere. La porteremo dritta in cella».

«Ma è ridicolo!». Nadja von Bredow si stava rendendo conto di essere veramente nei guai. Tra le sopracciglia curate apparve una profonda ruga. «Ho un appuntamento importante ad Amburgo».

«Non piú. Da questo momento è in stato di fermo».

«Posso sapere perché?».

«Perché è indirettamente responsabile della morte della sua amica Laura Wagner». Pia sorrise con sufficienza. «Dovrebbe averlo imparato leggendo i copioni. Si chiama concorso in omicidio».

 

Dopo che gli agenti in borghese si furono allontanati in macchina con Nadja von Bredow sul sedile posteriore, diretti a Hofheim, Pia provò a richiamare Bodenstein. Finalmente il capo rispose.

«Dove diavolo ti eri cacciato?» chiese lei, arrabbiata. Tenendo il cellulare tra l’orecchio e la spalla, si allacciò la cintura di sicurezza. «È un’ora e mezza che ti cerco! A questo punto puoi anche risparmiarti la strada. Ho fermato Nadja von Bredow e l’ho fatta portare in commissariato».

Bodenstein disse qualcosa, ma la linea era talmente disturbata che Pia non capí niente.

«Non ti sento» replicò irritata. «Dove sei?».

«… avuto un incidente… aspettando il carro attrezzi… uscita fiera… distributore…».

«Ci mancava solo questa! Stai lí, vengo a prenderti».

Imprecando, Pia chiuse la comunicazione e partí. Si sentiva sola e abbandonata. Non poteva permettersi errori, non doveva perdere la visione d’insieme. Una piccola disattenzione e sarebbe andato tutto a rotoli! Premette sull’acceleratore. Era domenica mattina e le strade cittadine erano ancora deserte. A compiere il tragitto – attraverso Gutleutviertel fino alla stazione centrale, poi in direzione fiera – impiegò meno di dieci minuti; durante la settimana ci sarebbe voluta mezz’ora. Alla radio stavano trasmettendo una canzone di Amy Macdonald, che inizialmente Pia trovava gradevole, ma da quando avevano cominciato a trasmetterla a tutte le ore non la sopportava piú. Erano quasi le otto quando dall’altra parte della strada, nel chiarore grigiastro del mattino, vide i lampeggianti arancioni del carro attrezzi che stava caricando i rottami della bmw di Bodenstein. Raggiunto il Westkreuz invertí il senso di marcia e dopo un paio di minuti si fermò sul luogo dell’incidente, dove oltre al carro attrezzi c’era anche un’auto della polizia. Bodenstein, pallido come un morto, era seduto sul guardrail con i gomiti appoggiati alle ginocchia e lo sguardo fisso nel vuoto.

Pia si presentò a uno dei colleghi in divisa; poi, guardando il capo con la coda dell’occhio, domandò: «Cos’è successo?».

«Pare abbia sterzato all’improvviso per evitare un animale» rispose l’agente. «La macchina è da buttare, ma lui non si è fatto niente. In ogni caso non vuole andare all’ospedale».

«Me ne occupo io. Grazie».

Si voltò. Il carro attrezzi si mise in movimento, ma Bodenstein non alzò neanche la testa.

«Ehi!». Pia si fermò davanti a lui. Cosa doveva dirgli? Si sarebbe senz’altro rifiutato di tornare a casa. Dovunque abitasse ora. E comunque doveva partecipare alle indagini. Bodenstein fece un gran sospiro. Sul viso aveva un’espressione smarrita.

«Parte subito dopo Natale, starà via quattro settimane con quell’altro» mormorò. «Per lei viene prima il lavoro, io e i figli siamo meno importanti. Ha firmato il contratto in settembre».

Pia esitò. Non poteva liquidare la faccenda con un semplice “Passerà” o un banale “Non pensarci”. Era davvero dispiaciuta per il suo superiore, ma il tempo stringeva. In commissariato, oltre a Nadja von Bredow, lo aspettavano tutti gli agenti disponibili.

«Dai, Oliver». Avrebbe voluto prenderlo per un braccio e trascinarlo alla macchina, ma cercò di rimanere calma. «Non possiamo starcene tutto il giorno sulla corsia di emergenza».

Lui chiuse gli occhi e si massaggiò la radice del naso con pollice e indice.

«Mi sono occupato di omicidi per ventisei anni» disse con voce roca. «Eppure non avevo mai capito come si potesse arrivare a uccidere una persona. Be’, stamattina, per la prima volta, ho sentito il desiderio di uccidere qualcuno. Probabilmente l’avrei strozzata nel parcheggio se non fossero arrivati mio padre e mio fratello».

Si strinse nelle braccia, come se avesse freddo, e fissò Pia con gli occhi iniettati di sangue. «In tutta la mia vita non mi sono mai sentito cosí male».

 

La sala era troppo piccola per contenere tutti gli agenti che Ostermann aveva convocato al comando regionale. Dato che dopo l’incidente Bodenstein non era in grado di guidare la riunione, fu Pia a prendere la parola. Chiese silenzio, illustrò la situazione riassumendo i fatti e ricordò ai colleghi che la priorità assoluta era trovare Amelie Fröhlich e Thies Terlinden. In assenza di Behnke nessuno mise in discussione la sua autorità, ascoltarono tutti con grande attenzione. Lo sguardo di Pia si posò su Bodenstein, che era appoggiato alla parete in fondo alla sala, vicino alla dottoressa Engel. Prima di lasciare la stazione di servizio gli aveva preso un caffè e l’aveva corretto con un’intera bottiglietta di cognac. Lui aveva bevuto senza protestare e si era ripreso leggermente. Ma si vedeva che era ancora sotto shock.

«I principali sospettati sono Gregor Lauterbach, Claudius Terlinden e Nadja von Bredow» continuò, avvicinandosi allo schermo su cui Ostermann aveva proiettato una cartina di Altenhain e dintorni. «Sono le tre persone che ci rimetterebbero di piú se si sapesse cos’è successo davvero ad Altenhain. La sera in cui è scomparsa Amelie, Terlinden e Lauterbach sono arrivati da questa direzione». Indicò la Feldstraße. «Erano appena stati a casa del ministro, a Idstein, ma quell’appartamento è già stato perquisito. Ora dobbiamo concentrarci sul Cavallino Nero. Il proprietario e sua moglie devono molto a Terlinden, quindi è possibile che gli abbiano fatto un favore. Può darsi che la ragazza non abbia mai lasciato il locale. Bisogna interrogare di nuovo tutte le persone che abitano intorno al parcheggio. Kai, sono arrivati i mandati d’arresto?».

Ostermann annuí.

«Bene. Bisogna portare qui Jörg Richter, Felix Pietsch e Michael Dombrowski. Ci penseranno Kathrin e i colleghi di pattuglia. Due di noi parleranno con Claudius Terlinden e due con Gregor Lauterbach. Contemporaneamente. Ora che abbiamo i mandati, li possiamo arrestare».

«Chi si occuperà di loro?» domandò un agente.

«Il commissario capo Bodenstein e la dottoressa Engel andranno da Lauterbach. Io mi occuperò di Terlinden».

«Chi verrà con lei?».

Bella domanda. Behnke e Hasse erano stati sospesi dal servizio. Pia passò in rassegna i colleghi che le sedevano davanti e prese una decisione.

«Sven».

Il vicecommissario dell’ufficio 21 spalancò gli occhi per la sorpresa e si indicò con un dito per chiedere conferma. Lei fece cenno di sí.

«Altre domande?».

No, nessuna. La riunione finí tra voci confuse e rumore di sedie spostate. Pia raggiunse Bodenstein e Nicola Engel.

«Ho fatto bene a coinvolgerla?» chiese.

«Sí, certo». La dottoressa annuí, poi la tirò da parte.

«Perché ha scelto il vicecommissario Jansen?».

«Ho seguito l’istinto». Pia alzò le spalle. «Ho sentito spesso il suo superiore dire che è un ottimo poliziotto».

Nicola Engel annuí di nuovo. In altre circostanze la strana espressione nei suoi occhi l’avrebbe messa in crisi, ma ora Pia non aveva tempo per i dubbi. Sven Jansen si avvicinò. Mentre scendevano tutti insieme, lei spiegò velocemente qual era lo scopo dei due interrogatori e come voleva procedere. Nel parcheggio si separarono. Il commissario capo la trattenne un attimo.

«Ben fatto» disse. «E… grazie».

 

Bodenstein e Nicola Engel rimasero in macchina, in muta attesa, finché Pia non chiamò per informarli che lei e Jansen erano arrivati a casa di Terlinden. A quel punto uscirono dall’auto e raggiunsero la porta di Lauterbach. I campanelli dei due sospettati suonarono nello stesso istante. Gregor Lauterbach ci mise un po’ ad aprire. Apparve con indosso un accappatoio di spugna sul cui taschino spiccava il logo di una catena internazionale di alberghi.

«Cosa volete?» domandò, guardandoli con gli occhi gonfi. «Vi ho già detto tutto».

«Siamo abituati a fare le stesse domande piú di una volta» rispose cortesemente Bodenstein. «Sua moglie è in casa?».

«No, è a Monaco per un convegno. Perché?».

«Cosí».

Nicola Engel aveva ancora il cellulare all’orecchio. Annuí; Pia e Sven Jansen erano nell’atrio di villa Terlinden. Come stabilito, il commissario capo pose la prima domanda al ministro.

«Signor Lauterbach, parliamo della sera in cui lei e il suo vicino avete aspettato Amelie nel parcheggio davanti al Cavallino Nero».

L’uomo fece di sí con la testa, tutt’altro che convinto. Il suo sguardo si posò sulla Engel. Sembrava irritato dal telefono.

«Ha visto Nadja von Bredow?».

Lauterbach annuí.

«Ne è proprio sicuro?».

«Sí».

«Come l’ha riconosciuta?».

«Be’… non lo so. La conosco».

Il ministro deglutí nervosamente vedendo la dottoressa Engel passare il telefono al commissario. Bodenstein diede una scorsa al messaggio inviato da Sven Jansen. A differenza di Lauterbach, Claudius Terlinden sosteneva di non aver notato nessuno in particolare quel sabato sera davanti al Cavallino Nero. Aveva visto diverse persone entrare o uscire dal locale. Aveva anche visto qualcuno che si sedeva alla fermata dell’autobus, ma non aveva la minima idea di chi fosse.

«Già». Bodenstein inspirò profondamente. «Forse avreste dovuto mettervi d’accordo un po’ meglio. Il signor Terlinden dice di non aver notato nessuno in particolare».

Lauterbach diventò tutto rosso e cominciò a farfugliare. Giurava e spergiurava di aver visto Nadja von Bredow.

«Quel sabato era ad Amburgo» lo interruppe il commissario. Ormai era praticamente sicuro che Gregor Lauterbach avesse a che fare con la sparizione di Amelie. All’improvviso, però, fu assalito di nuovo dal dubbio. Forse Nadja von Bredow mentiva. Forse lei e Lauterbach si erano accordati per eliminare un potenziale pericolo. O forse era Claudius Terlinden a mentire. Aveva mille pensieri che gli turbinavano nella mente. Di colpo ebbe la terribile certezza di aver dimenticato qualcosa di molto importante. Il suo sguardo incrociò quello di Nicola Engel, che lo stava osservando con aria interrogativa. Cosa diavolo doveva dire? La dottoressa si accorse che era in difficoltà e prese la parola.

«Sta mentendo, signor Lauterbach» disse in tono freddo. «Perché vuole farci credere di aver visto Nadja von Bredow in quel parcheggio?».

«Basta, voglio il mio avvocato». Il ministro aveva i nervi a fiori di pelle. Continuava a cambiare colore: prima rosso, poi pallido, poi di nuovo rosso.

«È un suo diritto, lo chiami pure». Nicola Engel annuí. «La portiamo subito a Hofheim. Gli dica di venire là».

«Non potete arrestarmi» protestò lui. «Ho l’immunità».

Il cellulare di Bodenstein si mise a suonare. Era Kathrin Fachinger. Sembrava sull’orlo di una crisi isterica.

«… non so cosa fare! In un attimo ha tirato fuori la pistola e si è sparato in testa! Cazzo, cazzo, cazzo! Qui sono tutti fuori di testa!».

«Si calmi, Kathrin!». Mentre la dottoressa Engel mostrava il mandato d’arresto a Lauterbach, Bodenstein si concentrò sulla giovane collega all’altro capo della linea. «Dov’è? Cosa sta succedendo?».

In sottofondo c’erano rumori e grida.

«Dovevamo prelevare Jörg Richter» spiegò Kathrin Fachinger con voce tremante. Aveva perso completamente il controllo; sembrava che la situazione stesse peggiorando. «Siamo venuti a casa dei genitori e gli abbiamo mostrato il mandato d’arresto. All’improvviso il padre ha tirato fuori una pistola da un cassetto, se l’è puntata alla tempia e ha sparato! Adesso la moglie ci minaccia con la stessa arma, vuole impedirci di arrestare il figlio! Cosa devo fare?».

La paura nella voce della collega riscosse Bodenstein. D’un tratto il suo cervello riprese a funzionare.

«Non faccia niente, Kathrin. Due minuti e sono lí».

 

La strada principale di Altenhain era bloccata. Davanti al negozio di alimentari c’erano due veicoli di pronto soccorso con i lampeggianti accesi e diverse auto della polizia. Dietro i nastri che delimitavano la zona si stavano raccogliendo decine di curiosi. Bodenstein trovò Kathrin Fachinger nel cortile. Era seduta su uno dei gradini che conducevano alla porta di casa dei Richter, pallidissima e incapace di muoversi. Le sfiorò una spalla con la mano e si accertò che non fosse ferita. All’interno dell’abitazione regnava il caos. Un medico e un infermiere stavano prestando soccorso a Lutz Richter, disteso sulle piastrelle del corridoio in un lago di sangue. Un altro medico si stava occupando della moglie.

«Cos’è successo?» chiese il commissario capo. «Dov’è l’arma?».

«Eccola». Un agente gli porse una busta di plastica. «È una scacciacani. L’uomo è ancora vivo, la donna è sotto shock».

«Dov’è Jörg Richter?».

«Lo stanno portando a Hofheim».

Bodenstein si guardò intorno. Attraverso il vetro ornamentale di una porta chiusa vide delle macchie bianche e arancioni. Le uniformi dei sanitari. Aprí la porta e rimase sbalordito davanti allo spettacolo del soggiorno. La stanza era stracolma di oggetti. Alle pareti erano appesi trofei di caccia e articoli militari di ogni tipo: sciabole, fucili storici, elmetti, armi varie… La credenza, l’armadio aperto, il tavolino, i diversi mobiletti sistemati qua e là e perfino il pavimento erano occupati da vasellame di stagno, brocche per il sidro e un’infinità di cianfrusaglie. Per un attimo Bodenstein rimase senza fiato. Su una poltrona rivestita di felpa sedeva Margot Richter, viso impietrito e ago nel braccio. Al suo fianco un’infermiera reggeva il sacchetto della flebo.

«Può parlare?» s’informò il commissario. Il medico fece cenno di sí.

«Signora Richter». Si accovacciò accanto alla donna, cosa non facile dal momento che non c’era un solo angolo libero. «Cos’è successo? Perché suo marito ha preso la pistola?».

«Non possono arrestare mio figlio» mormorò lei. Sembrava che tutta l’energia e la cattiveria avessero abbandonato il suo corpo scheletrico, gli occhi erano profondamente infossati. «Non ha fatto niente».

«Ah no?».

«È stato mio marito». Lo sguardo della signora vagava per la stanza, si posava su Bodenstein, poi ricominciava a vagare. «Jörg voleva tirare fuori la ragazza, ma mio marito ha detto che era meglio lasciar perdere. È andato là, ha messo una lastra sul serbatoio e ci ha buttato sopra della terra».

«Perché?».

«Per avere un po’ di pace. Quella lí avrebbe rovinato la vita ai ragazzi. Dopotutto non era successo niente, si erano solo divertiti un po’ con lei».

Il commissario non riusciva a credere alle proprie orecchie.

«Quella sgualdrinella voleva andare alla polizia e denunciare i suoi amici. È anche colpa sua. Li ha provocati tutta la sera». Continuava a passare dal passato al presente. «Andava tutto bene, ma Jörg non è riuscito a tenere la bocca chiusa, ha dovuto raccontare a tutti quello che era successo! Che stupido!».

«Suo figlio ha una coscienza» replicò freddamente Bodenstein, alzandosi. Non provava piú alcuna compassione per la donna. «Non andava tutto bene. Al contrario! Quello che ha fatto suo figlio è molto grave. Stupro e concorso in omicidio sono reati della peggior specie».

«Bah!». Margot Richter fece un gesto sprezzante con la mano e scosse la testa. «Nessuno parlava piú di questa vecchia storia. Poi Tobias è tornato in paese e tutti si sono spaventati. Se solo avessero tenuto la bocca chiusa! Sono dei… dei vigliacchi!».

 

Nadja von Bredow annuí con indifferenza quando Pia le comunicò che il suo alibi per sabato sera era stato verificato e confermato.

«Perfetto». Diede un’occhiata all’orologio. «Ora me ne posso andare».

«No, non ancora». Pia scosse il capo. «Vorremmo farle qualche altra domanda».

«Okay. Su, sbrighiamoci». Nadja la guardò con occhi spalancati e aria annoiata, sembrava dovesse sbadigliare da un momento all’altro. Non tradiva il minimo nervosismo. Pia non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che stesse recitando una parte. Cosa c’era dietro la bella e perfetta facciata dell’attrice Nadja von Bredow? Era rimasto qualcosa della vera Nathalie?

«Perché ha chiesto a Jörg Richter di invitare Tobias a una serata tra amici e di trattenerlo il piú a lungo possibile?».

«Ero preoccupata per Tobi» rispose Nadja. «Non aveva preso seriamente l’aggressione nel fienile. Volevo essere certa che fosse al sicuro».

«Davvero?». Pia aprí il fascicolo che aveva davanti e cercò la traduzione del diario di Amelie fatta da Ostermann. «Vuole sentire cos’ha scritto Amelie prima di scomparire? È una cosa che la riguarda».

«Tanto la leggerà comunque». Nadja alzò gli occhi al cielo e accavallò le lunghe gambe.

«Ha ragione». Pia sorrise. «… La bionda si è buttata su Tobias in modo davvero assurdo. Mi ha guardata malissimo! Era pazza di gelosia, sembrava volesse staccarmi la testa con un morso. Thies si è spaventato moltissimo quando ho pronunciato il nome “Nadja”. Quella donna ha qualcosa che non mi convince…».

Alzò lo sguardo dal foglio.

«Non sopportava che Amelie avesse fatto amicizia con Tobias. Si è servita di Jörg Richter per avere il campo libero e ha tolto di mezzo la ragazza».

«Sciocchezze!». Il sorriso indifferente era scomparso dal viso dell’attrice. All’improvviso gli occhi le scintillavano di rabbia. A Pia tornarono in mente le parole di Richter: già da ragazza Nadja aveva qualcosa che metteva i brividi. Lui l’aveva definitiva “senza scrupoli”.

«Era gelosa». Pia conosceva il contenuto del diario. «Magari Tobias le ha raccontato che ogni tanto la ragazza andava a casa sua. Temeva che tra i due potesse succedere qualcosa. In effetti Amelie somiglia moltissimo a Stefanie Schneeberger. E sappiamo che Stefanie è stata il grande amore di Tobias».

Nadja von Bredow si piegò leggermente in avanti.

«Cosa ne sa lei del grande amore?» sussurrò con voce impostata e occhi spalancati, come se stesse seguendo le istruzioni del regista. «Io lo amo da sempre. L’ho aspettato per ben dieci anni. Aveva bisogno del mio aiuto e del mio amore per tornare a vivere dopo il carcere».

«Questo sí che è interessante. A quanto pare il suo amore non si basa sulla reciprocità». Pia provò una certa soddisfazione vedendo che le parole avevano colpito nel segno. «Non si è potuta fidare di lui neanche per un giorno».

Le labbra di Nadja si serrarono, per un istante il suo bel viso si contrasse in una smorfia.

«Quello che c’è tra me e Tobias non la riguarda!» replicò piccata. «Abbiamo finito con queste domande del cavolo? Quella sera ero ad Amburgo e non ho la minima idea di dove sia finita la ragazza. Punto e basta».

«Dov’è il suo grande amore adesso?» insistette Pia.

«Non lo so». L’attrice la guardò con gli occhi verdi che mandavano fiamme. «Lo amo, ma non sono la sua bambinaia. Allora, posso andare?».

Pia cominciò a provare una certa delusione. Non poteva dimostrare che Nadja von Bredow avesse qualcosa a che fare con la scomparsa di Amelie.

«Ha fatto credere alla signora Fröhlich di essere una poliziotta» intervenne Bodenstein. «Si chiama usurpazione di funzione pubblica. Ha rubato i disegni che Thies aveva affidato ad Amelie. Poi ha dato fuoco al giardino d’inverno per evitare che saltassero fuori altre immagini compromettenti».

Nadja non si voltò per guardare il commissario capo.

«Ammetto di aver usato il distintivo della polizia e una parrucca di scena per cercare i disegni in camera di Amelie. Ma non ho appiccato io il fuoco».

«Che fine hanno fatto i disegni?».

«Li ho tagliati e infilati nel distruggidocumenti».

«Lo immaginavo. Dopotutto qui c’è la prova della sua colpevolezza». Pia tirò fuori le foto dei disegni e le mise sul tavolo.

«Al contrario». Nadja von Bredow si appoggiò allo schienale e sorrise con freddezza. «Qui c’è la prova della mia innocenza. Thies è un ottimo osservatore. Diversamente da voi».

«Che significa?».

«Il verde è verde. E i capelli corti sono corti. Ma guardate attentamente la persona che colpisce Stefanie con il cric. Confrontatela con quella che osserva lo stupro di Laura». Si piegò in avanti, esaminò brevemente i disegni e batté il dito su una delle figure. «Ecco qui. L’assassino di Stefanie ha i capelli scuri. Invece la persona che assiste allo stupro di Laura… guardate, ha i capelli molto piú chiari e mossi. Quella sera ad Altenhain quasi tutti avevano una maglietta verde con il logo della festa. Se non ricordo male, c’era anche una scritta».

Bodenstein confrontò le due immagini.

«Ha ragione» ammise. «Ma allora chi è l’altra persona?».

«Lauterbach». Nadja von Bredow non fece altro che confermare i sospetti del commissario. «Ho aspettato Stefanie vicino al fienile perché volevo assolutamente parlare con lei. Per il ruolo di Biancaneve. Sapevo che non gliene fregava niente, che si era fatta assegnare la parte solo per trascorrere piú tempo con Lauterbach».

«Un attimo» la interruppe Bodenstein. «Il signor Lauterbach ci ha detto che ha fatto sesso con Stefanie solo una volta. Cioè quella sera».

«È una bugia». Nadja sbuffò. «Quei due avevano una storia. Si sono frequentati per tutta l’estate, anche se lei stava con Tobi. Lauterbach aveva perso completamente la testa, cosa che Stefanie trovava molto divertente. Comunque, dopo aver aspettato un po’ l’ho vista uscire dalla casa dei Sartorius. Stavo per chiamarla quando all’improvviso è comparso lui. Mi sono nascosta nel fienile, ma loro hanno avuto la stessa idea. Sono entrati e hanno cominciato a rotolarsi nel fieno a pochissima distanza dal mio nascondiglio. Sono rimasta bloccata per mezz’ora. Ho visto tutto quello che hanno combinato. E li ho anche sentiti sparlare di me».

«A quel punto si è arrabbiata e ha ucciso Stefanie» concluse Bodenstein.

«No. Sono rimasta zitta e muta. Dopo la scopata Lauterbach si è accorto di aver perso un mazzo di chiavi. È diventato isterico e si è messo a quattro zampe per cercarlo. Per poco non è scoppiato a piangere. Stefanie ha cominciato a ridere e a prenderlo in giro. E lui si è letteralmente infuriato». Nadja fece una risatina maligna. «Aveva una gran paura della moglie. Era lei quella coi soldi, anche la casa era sua. Lui era solo un porco travestito da insegnante, che davanti ai suoi studenti si dava un sacco di arie. A casa, però, non sapeva cosa dire!».

Il commissario deglutí. La descrizione di Lauterbach gli calzava a pennello. Cosima era quella coi soldi e lui non sapeva cosa dire. Se n’era reso conto quella mattina e per poco non l’aveva uccisa.

«Anche Stefanie si è arrabbiata. Aveva un’immagine molto romantica della sua storia con Lauterbach. All’improvviso ha capito che il suo fantastico amante non era altro che uno smidollato. Si è offerta di andare a chiamare sua moglie, in modo che potessero cercare insieme il mazzo di chiavi. Naturalmente stava scherzando, ma lui non capiva piú niente e l’ha presa sul serio. Stefanie credeva di avere tutto sotto controllo. Ha continuato a stuzzicarlo e a minacciarlo di rendere pubblica la loro storia. Alla fine Lauterbach è esploso. L’ha bloccata mentre usciva dal fienile, hanno lottato, Stefanie gli ha sputato addosso e lui le ha dato un ceffone. E lei si è arrabbiata ancora di piú. Lauterbach ha capito che sarebbe andata da sua moglie. Allora ha preso il primo oggetto che ha trovato e l’ha colpita. Tre volte».

Pia annuí. La mummia di Stefanie Schneeberger presentava tre fratture craniche. Ma questo non significava che Nadja fosse innocente. Forse sapeva certe cose perché era l’assassina.

«Poi è scappato a gambe levate. Tra l’altro indossava proprio una maglietta verde. Aveva tolto la camicia di jeans mentre scopava con Stefanie. Ho trovato il mazzo di chiavi e uscendo dal fienile ho visto Thies accovacciato per terra vicino al corpo della sua adorata Biancaneve. “Prenditi cura di lei” gli ho detto, poi me ne sono andata. Ah, ho anche preso il cric per buttarlo nel bidone dei Lauterbach. Questo è quanto».

«Quindi ha sempre saputo che Tobias non aveva ucciso né Laura né Stefanie» osservò Pia. «Dice di amarlo, ma ha lasciato che finisse in prigione».

Nadja von Bredow non rispose subito. Rimase seduta in silenzio, il corpo rigido e le dita che giocherellavano con una fotografia.

«Ero arrabbiata con lui» sussurrò infine. «Per anni sono stata la sua confidente. Mi raccontava tutto quello che faceva con le altre, mi diceva quando era innamorato e quando non lo era piú. Mi chiedeva consigli per portare a letto o scaricare la bella di turno. Ero la sua migliore amica!».

Scoppiò in una risata amara.

«Come ragazza non gli interessavo minimamente. Mi dava per scontata. Quando si è messo con Laura, ho dovuto farmi da parte. Lei non voleva che li accompagnassi al cinema, in piscina o alle varie festicciole. Mi sentivo l’ultima ruota del carro e Tobi non se n’è mai accorto!».

Nadja strinse le labbra, gli occhi le si riempirono di lacrime. In un attimo tornò a essere la ragazza offesa e gelosa di tanti anni prima, la tappabuchi che raccoglieva le confidenze del ragazzo piú fico del paese senza avere nessuna possibilità di conquistarlo. Nonostante tutti i successi che aveva avuto negli ultimi dieci anni, le delusioni di quel periodo avevano lasciato profonde cicatrici nella sua anima, cicatrici che si sarebbe portata dietro per il resto della vita.

«Poi è arrivata quella rompiscatole di Stefanie». La voce era calma, ma guardando le dita che facevano a brandelli una delle foto si capiva benissimo qual era il suo stato interiore. «Si è insinuata nel nostro gruppo e si è presa Tobi. Di colpo è cambiato tutto. Non contenta, ha fatto perdere la testa a Lauterbach e mi ha soffiato il ruolo di Biancaneve. Con Tobi non riuscivo piú a parlare. Non gli importava piú di nessuno, per lui esisteva solo Stefanie, Stefanie, Stefanie!».

Sul viso apparve un’espressione d’odio. Nadja scosse la testa.

«Nessuno di noi poteva immaginare che la polizia fosse tanto stupida, non credevamo che Tobi sarebbe finito davvero nei guai. Pensavo che due o tre settimane di custodia cautelare gli avrebbero fatto bene. Quando ho capito che ci sarebbe stato un processo, era ormai troppo tardi. Non potevamo cambiare le nostre versioni, avevamo detto troppe bugie. Cosí siamo stati zitti. Ma io non l’ho mai abbandonato. Gli ho scritto regolarmente e l’ho aspettato. Volevo sistemare tutto, sí, ero disposta a fare qualunque cosa per lui. Volevo tenerlo lontano da Altenhain, ma Tobi non mi ha dato retta».

«Non è che voleva tenerlo lontano, doveva tenerlo lontano» obiettò Bodenstein. «C’era il rischio che intuisse quale ruolo aveva avuto in questa tragica storia. Doveva assolutamente evitarlo. Per questo ha recitato la parte dell’amica fedele».

Nadja von Bredow sorrise freddamente e rimase in silenzio.

«Ma Tobias è tornato dal padre» proseguí il commissario. «Non è riuscita a impedirglielo. Poi si è intromessa Amelie Fröhlich, che, per puro caso, ha una somiglianza incredibile con Stefanie Schneeberger».

«Quella piccola stupida ha deciso di ficcare il naso in una faccenda che non la riguardava» sibilò lei. «Tobi e io avremmo cominciato una nuova vita da un’altra parte. Potevamo andare ovunque, i soldi non mi mancano. Con il tempo Altenhain sarebbe diventata solo un brutto ricordo».

«E non gli avrebbe mai raccontato la verità». Pia scrollò il capo. «La base ideale per un rapporto».

L’altra non la degnò di uno sguardo.

«Amelie era una minaccia» disse Bodenstein. «Quindi ha scritto lettere e email anonime a Lauterbach, sapendo che probabilmente avrebbe fatto qualcosa per difendersi».

Nadja alzò le spalle.

«Quei messaggi hanno avuto conseguenze orribili».

«Volevo evitare che Tobias venisse ferito di nuovo. Ha già sofferto abbastanza e io…».

«Ma per favore!». Il commissario la interruppe bruscamente, si avvicinò al tavolo e si sedette di fronte a lei per costringerla a guardarlo. «Voleva evitare che scoprisse cos’aveva fatto. O meglio, cosa non aveva fatto! Avrebbe potuto risparmiargli la condanna e la galera, ma ha preferito tacere. Per il suo orgoglio ferito e la sua stupida gelosia. È stata a guardare mentre i genitori di Tobias venivano umiliati e distrutti dagli altri abitanti del paese, ha rubato dieci anni di vita al suo grande amore per puro egoismo. Solo per poterlo avere tutto per sé. È il movente piú ignobile che abbia mai sentito!».

«Voi non potete capire!» replicò Nadja von Bredow con improvvisa amarezza. «Non avete la minima idea di cosa significhi essere respinti continuamente!».

«E adesso Tobias l’ha respinta un’altra volta, vero?». Bodenstein si concentrò sul suo viso, notò ogni sua espressione. Odio, autocommiserazione, testardaggine e rabbia. «Si sentiva in debito con lei, ma non è bastato. Non la ama, cosí come non l’amava undici anni fa. E lei non può certo sperare che ci sia sempre qualcuno pronto a togliere di mezzo le sue rivali».

Nadja lo fissò con astio. Per un attimo nella stanza degli interrogatori regnò il silenzio.

«Cos’ha fatto a Tobias Sartorius?» chiese il commissario.

«Ha avuto ciò che si merita» fu la risposta. «Se non posso averlo io, non lo avrà nessun’altra».

 

«Quella è completamente fuori di testa» disse Pia, sbalordita, dopo che un gruppo di poliziotti ebbe portato via Nadja von Bredow. Quando aveva capito che non l’avrebbero lasciata andare, la donna aveva dato in escandescenze e si era messa a urlare come una pazza. Grazie all’elevato rischio di fuga – l’attrice possedeva case e appartamenti all’estero – Bodenstein aveva ottenuto senza difficoltà un mandato d’arresto.

«È una psicopatica» confermò. «Non ci sono dubbi. Dopo tutto quello che ha fatto per avere Tobias Sartorius, ha capito che lui non la ama e non la amerà mai. Quindi l’ha ucciso».

«Credi che sia morto?».

«Temo di sí». Vedendo entrare Gregor Lauterbach scortato da un agente, Bodenstein si alzò dalla sedia. Dopo pochi secondi arrivò anche l’avvocato Anders.

«Voglio parlare con il mio cliente».

«Potrà farlo piú tardi» rispose il commissario osservando il ministro, che nel frattempo si era accasciato sulla sedia di plastica. «Allora, signor Lauterbach, è arrivato il momento della verità. Nadja von Bredow l’ha appena messa in un bel pasticcio. La sera del 6 settembre 1997 è stato lei a impugnare il cric e a uccidere Stefanie Schneeberger davanti al fienile dei Sartorius. La ragazza aveva minacciato di raccontare a sua moglie della vostra relazione e lei temeva che lo facesse davvero. Vuole aggiungere qualcosa?».

«Il mio cliente non ha niente da dire» dichiarò l’avvocato.

«Era convinto che Thies Terlinden avesse assistito all’omicidio, quindi l’ha minacciato per farlo tacere».

Sí udí il suono di un cellulare. Pia diede un’occhiata al display, si alzò e si allontanò dal tavolo. Era Henning. Aveva esaminato i farmaci che Thies prendeva da anni dietro prescrizione della dottoressa Lauterbach.

«Ho parlato con un cardiologo che lavora in ambito psichiatrico. Conosce bene l’autismo ed è rimasto scioccato quando gli ho inviato la ricetta via fax. Quei farmaci sono assolutamente controindicati per il trattamento della sindrome di Asperger».

«Quanto controindicati?» domandò Pia, tappandosi l’altro orecchio per non sentire il capo che, a voce sempre piú alta, incalzava Lauterbach mentre il suo avvocato continuava a ripetere «No comment» come se fosse già in mezzo a una folla di giornalisti davanti al tribunale.

«Combinando le benzodiazepine con altri farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale, come neurolettici e sedativi, l’azione di ciascun farmaco viene potenziata. Questi neurolettici sono impiegati per i disturbi psicotici con deliri e allucinazioni. I sedativi hanno un effetto calmante. Le benzodiazepine, invece, servono ad attenuare l’ansia. Ma hanno anche un altro effetto piuttosto interessante: producono amnesia. In sostanza cancellano i ricordi del paziente. Nessun medico prescriverebbe questi farmaci a un autistico per un lungo periodo. Sarebbe accusato di lesioni gravi e verrebbe sicuramente radiato».

«Puoi chiedere al tuo collega di scrivere una perizia?».

«Certo».

Il cuore di Pia batteva a mille per l’emozione. Ora era tutto chiaro: per undici anni la dottoressa Lauterbach aveva imbottito Thies di farmaci per alterare il suo stato mentale e tenerlo sotto controllo. I coniugi Terlinden si erano fidati di lei, credevano davvero che le medicine avrebbero aiutato il figlio. Ma perché Daniela Lauterbach aveva fatto una cosa del genere? Il motivo era molto semplice: voleva proteggere il marito. Con l’arrivo di Amelie, però, Thies aveva smesso di prendere i farmaci.

Bodenstein stava aprendo la porta; Gregor Lauterbach si nascondeva il viso tra le mani e singhiozzava come un bambino, mentre l’avvocato Anders si stava chinando per prendere la cartella. Un agente entrò nella stanza e portò via Lauterbach ancora in lacrime.

«Ha confessato». Il commissario capo sembrava molto soddisfatto. «Ha ucciso Stefanie Schneeberger, non importa se è stato omicidio volontario o meno. Tobias è innocente».

«Io l’ho sempre saputo» gli fece notare Pia. «Dobbiamo ancora trovare Amelie e Thies, ma ora sappiamo con certezza chi è stato a farli sparire. Abbiamo seguito la pista sbagliata fin dall’inizio».

 

Faceva freddo, freddo, freddo. Soffiava un vento gelido, i fiocchi di neve gli pizzicavano il viso come minuscoli aghi. Non vedeva piú niente, tutt’intorno regnava il bianco. Aveva gli occhi pieni di lacrime, era praticamente cieco. Non sentiva piú naso, orecchie, piedi e dita delle mani. Arrancava nella tormenta seguendo i catarifrangenti, per non perdere completamente l’orientamento. Il senso del tempo l’aveva perso già da un pezzo e la speranza di imbattersi in uno spazzaneve di passaggio era ormai al lumicino. Perché continuava a camminare? Dove voleva andare? Estrarre dalla neve le scarpe da ginnastica con dentro i piedi congelati diventava sempre piú difficile, doveva fare uno sforzo sovrumano per avanzare passo dopo passo attraverso l’inferno bianco in cui si trovava. Inciampò per l’ennesima volta e finí a quattro zampe. Le lacrime che gli sgorgarono dagli occhi si trasformarono subito in ghiaccio. Tobias si lasciò cadere in avanti e rimase disteso. Gli doleva ogni fibra del corpo; l’avambraccio sinistro, il punto dove era stato colpito con l’attizzatoio di ferro, era del tutto insensibile. Lei si era lanciata all’attacco come una pazza, gli aveva tirato calci e pugni, in preda a un odio rabbioso gli aveva anche sputato addosso. Poi era uscita di corsa dallo chalet e se n’era andata, l’aveva abbandonato in mezzo al nulla, tra le Alpi svizzere. Per ore era rimasto nudo sul pavimento, incapace di muoversi, sotto shock. Sperava e temeva che lei tornasse a prenderlo. Ma non si era fatta piú vedere.

Cos’era successo? Avevano trascorso una bellissima giornata sulla neve, sotto un cielo blu acciaio, avevano cucinato e mangiato insieme e si erano amati con passione. Poi, di punto in bianco, Nadja era impazzita. Perché? Era la sua cara amica di sempre, la sua migliore amica. L’unica che non l’aveva mai abbandonato. Di colpo un ricordo gli attraversò la mente. «Amelie» sussurrò, senza riuscire a muovere le labbra. Aveva pronunciato il suo nome perché era preoccupato e Nadja era uscita letteralmente di senno. Tobias si premette i pugni sulle tempie e si sforzò di ragionare. Poco a poco nel suo cervello annebbiato presero forma dei collegamenti che fino a quel momento non aveva voluto vedere. Nadja l’aveva sempre amato, ma lui non se n’era mai accorto. Chissà quanto l’aveva fatta soffrire raccontandole ogni dettaglio delle sue numerose avventure giovanili! Lei non aveva mai lasciato trapelare nulla, gli aveva dato consigli e suggerimenti, come una buona amica. Alzò faticosamente la testa. La bufera si era attenuata. Scacciando la tentazione di rimanere sdraiato nella neve, fece un altro sforzo e si mise in ginocchio. Si sfregò gli occhi. Non aveva le allucinazioni! Piú in basso, nella valle, c’erano davvero delle luci! Si costrinse a proseguire. Nadja era sempre stata gelosa delle sue ragazze. Anche di Laura e Stefanie. Il giorno in cui, al margine del bosco, gli aveva chiesto con noncuranza se provava simpatia per Amelie, Tobias aveva risposto ingenuamente di sí. Come poteva immaginare che la famosa attrice Nadja von Bredow si sarebbe ingelosita per una diciassettenne? Possibile che avesse fatto qualcosa ad Amelie? Dio santo! Con la forza della disperazione si rimise in piedi e ricominciò a scendere. Nadja aveva una notte e un giorno di vantaggio. Se davvero era successo qualcosa ad Amelie, non se lo sarebbe mai perdonato; non solo aveva parlato a Nadja dei disegni di Thies, ma le aveva anche detto che Amelie voleva aiutarlo. Si fermò, aprí la bocca e lanciò un grido di rabbia che rimbombò tra le montagne. Gridò e gridò, finché le corde vocali cominciarono a dolergli e la voce si spense.

 

Daniela Lauterbach era scomparsa dalla faccia della terra. Al suo studio credevano che fosse a Monaco per un convegno, ma non ci volle molto per scoprire che laggiú non si era fatta vedere. Il cellulare era spento, l’auto introvabile. C’era da impazzire. Per i responsabili del reparto di psichiatria era piú che possibile che la dottoressa Lauterbach avesse portato via Thies. Lavorava anche in ospedale, quindi nessuno si sarebbe insospettito vedendola in reparto. Quel sabato sera non aveva avuto nessuna emergenza. Aveva finto di ricevere una chiamata e si era appostata nel parcheggio del Cavallino Nero. Amelie la conosceva e sicuramente era salita in macchina senza alcun timore. Per sviare i sospetti su Tobias, la dottoressa gli aveva infilato il cellulare della ragazza nei jeans mentre lo accompagnava a casa. Non solo aveva congegnato un piano perfetto, ma era stata anche aiutata delle circostanze. Le probabilità di trovare Amelie Fröhlich e Thies Terlinden ancora vivi erano vicine allo zero.

Alle dieci di sera Bodenstein e Pia erano seduti nella sala riunioni a guardare il notiziario regionale. Dopo un appello a chiunque sapesse dove si trovava la dottoressa Daniela Lauterbach, venne data la notizia dell’arresto di Nadja von Bredow. Davanti al commissariato c’erano ancora molti giornalisti e due troupe televisive, tutti a caccia di uno scoop sulla famosa attrice.

«Credo che me ne andrò a casa». Pia si stiracchiò sbadigliando. «Ti do un passaggio?».

«No, vai pure» disse lui. «Prenderò una delle nostre auto di servizio».

«Stai bene?».

«Sí». Bodenstein alzò le spalle. «Mi riprenderò. In un modo o nell’altro».

Pia lo osservò per qualche istante con aria dubbiosa, poi afferrò giacca e borsa e uscí dalla stanza. Il commissario capo si alzò e spense il televisore. Per tutto il giorno si era concentrato sul lavoro e aveva evitato di pensare allo spiacevole incontro con Cosima, ma ora quel ricordo amaro come il fiele tornò ad assalirlo. Come aveva potuto perdere il controllo in quel modo? Spense la luce al neon e percorse lentamente il corridoio per raggiungere l’ufficio. Non aveva nessuna voglia di trascorrere la notte nella camera degli ospiti a casa dei suoi genitori, né in un locale notturno. Tanto valeva rimanere dietro la scrivania. Si chiuse la porta alle spalle e per un attimo indugiò al centro della stanza, illuminata debolmente dalle luci esterne. Era un disastro, sia come uomo che come poliziotto. Si era fatto portare via Cosima da un trentacinquenne e non era riuscito a trovare in tempo Amelie, Thies e Tobias, che probabilmente erano morti. Il passato era ridotto a un cumulo di macerie e il futuro non sembrava per niente roseo.

 

Se si piegava verso il basso allungando un braccio, con la punta delle dita riusciva a sfiorare l’acqua. Il livello saliva molto piú velocemente del previsto, evidentemente non c’era neanche un piccolo scarico. In breve tempo si sarebbero trovati a mollo. Era possibile che non affogassero, perché l’acqua avrebbe cominciato a uscire dalla finestrella, ma sarebbero comunque morti di freddo. Era gelata! Tra l’altro le condizioni di Thies erano molto peggiorate. Tremava e sudava, divorato dalla febbre. Per la maggior parte del tempo dormiva, il braccio sempre intorno ad Amelie, ma quando era sveglio parlava. Le cose che raccontava erano veramente orribili, tanto che le facevano venire le lacrime agli occhi.

Era come se la cortina nera che aveva in testa si fosse alzata. Il ricordo degli avvenimenti che l’avevano portata in quella cantina era di nuovo nitido. I Lauterbach avevano sicuramente messo qualche veleno nell’acqua e nei biscotti, per questo dopo aver mangiato o bevuto non riusciva a tenere gli occhi aperti. Ora, però, sapeva benissimo cos’era successo. Daniela Lauterbach l’aveva chiamata e le aveva chiesto di uscire nel parcheggio; poi, gentile e un po’ preoccupata, le aveva spiegato che Thies non stava bene, che dovevano andare da lui. Amelie era entrata in macchina senza la minima esitazione… e si era risvegliata nello stanzino. Avendo frequentato le strade, le case da demolire e i dormitori pubblici di Berlino, credeva di aver già visto tutto il peggio. Ma si sbagliava, non aveva la minima idea di quanto potessero essere crudeli le persone. Ad Altenhain, questo paesino idilliaco che all’inizio le era sembrato mortalmente noioso, vivevano mostri spietati e brutali che si nascondevano dietro una maschera di perbenismo. Se mai fosse uscita viva dalla cantina in cui l’avevano rinchiusa, non si sarebbe piú fidata di nessuno. Come poteva una persona fare qualcosa di cosí orribile a un’altra persona? Com’era possibile che i signori Terlinden non si fossero accorti di quello che la vicina tanto buona e cara stava facendo a Thies? Com’era possibile che un intero paese stesse a guardare in silenzio mentre un ragazzo innocente veniva condannato a dieci anni di prigione e il vero colpevole la faceva franca? Nelle lunghe ore di oscurità Thies le aveva raccontato tutto quello che sapeva riguardo ai terribili fatti di Altenhain. Non c’era da meravigliarsi che la dottoressa Lauterbach volesse ucciderlo. Mentre questo pensiero le attraversava la mente, all’improvviso Amelie ebbe la spaventosa certezza che non ne sarebbero usciti vivi. I Lauterbach non erano stupidi. Di sicuro avevano fatto in modo che nessuno li trovasse. Non prima che fosse troppo tardi, almeno.

 

Con il mento appoggiato su una mano, Bodenstein osservava il bicchiere di cognac ormai vuoto. Come aveva fatto a sbagliarsi completamente su Daniela Lauterbach? Il marito aveva ucciso Stefanie Schneeberger in un impeto di rabbia, ma lei aveva coperto deliberatamente il suo crimine e aveva minacciato Thies Terlinden per anni, rimbecillendolo con un sacco di farmaci. Aveva permesso che Tobias finisse in prigione e che i coniugi Sartorius soffrissero le pene dell’inferno. Bodenstein prese la bottiglia di Rémy Martin che aveva ricevuto in regalo da qualcuno e che da piú di un anno giaceva intatta nel mobile. Detestava il cognac, ma aveva bisogno di bere qualcosa di forte. Durante il giorno non aveva mangiato niente e si era riempito di caffè. Vuotò il bicchiere in un sorso – era il terzo in un quarto d’ora – e fece una smorfia. L’alcol gli accese un piccolo fuoco nello stomaco, una piacevole sensazione di calore si diffuse rapidamente attraverso le vene e lo aiutò a rilassarsi. I suoi occhi si posarono sulla foto incorniciata che teneva da anni vicino al telefono. Cosima gli sorrideva come sempre. La odiava per come si era comportata quella mattina, per il modo in cui l’aveva aspettato al varco e l’aveva provocato. Per colpa sua aveva detto e fatto cose orribili. Si era pentito quasi subito di aver perso il controllo. Anche se era stata lei a rovinare tutto, sentiva di essere dalla parte del torto. Il che lo faceva arrabbiare almeno quanto la presunzione di avere un matrimonio perfetto. Cosima l’aveva tradito con un uomo piú giovane perché come marito non le bastava piú. Si annoiava e cosí aveva cercato un altro, qualcuno con il suo stesso spirito di avventura. Questi pensieri influirono in maniera fortemente negativa sull’autostima di Bodenstein. Mentre buttava giú il quarto cognac, udí bussare.

«Sí?».

Da dietro la porta fece capolino la dottoressa Engel.

«Disturbo?».

«No, vieni pure». Il commissario si massaggiò la radice del naso con pollice e indice. Lei entrò nell’ufficio, richiuse la porta e si avvicinò.

«Ho appena saputo che hanno tolto l’immunità a Lauterbach. Il tribunale ha confermato sia il suo arresto sia quello di Nadja von Bredow». Ferma di fronte alla scrivania, Nicola Engel lo osservò per qualche secondo. «Mio Dio, hai un aspetto terribile! È questo caso che ti ha ridotto cosí?».

Cosa doveva dire? Era troppo stanco per pensare a una risposta intelligente. E poi non aveva ancora imparato a giudicare correttamente Nicola. Era davvero preoccupata per il suo aspetto o voleva usare i suoi errori e i suoi fallimenti per dargli il colpo di grazia e affidare la guida dell’ufficio 11 a qualcun altro?

«Sono le circostanze» rispose infine. «Behnke, Hasse.… Quegli stupidi pettegolezzi su me e Pia».

«Sono solo pettegolezzi, vero?».

«Certo!». Bodenstein si appoggiò allo schienale e non poté evitare una smorfia di dolore. Gli faceva male il collo. Lo sguardo della dottoressa si spostò sul cognac.

«Hai un altro bicchiere?».

«Nel mobile. In basso a sinistra».

Lei si voltò, aprí lo sportello, prese il bicchiere e si accomodò su una delle sedie davanti alla scrivania. Il commissario le versò un dito di cognac e riempí il proprio bicchiere quasi fino all’orlo. Nicola Engel inarcò le sopracciglia, ma non disse niente. Bodenstein fece un brindisi, poi bevve tutto d’un fiato.

«Qual è il problema? Quello vero, intendo». La dottoressa era un’ottima osservatrice e lo conosceva bene. Fin troppo. Prima di incontrare e sposare in fretta e furia Cosima, Bodenstein era stato insieme a lei per due anni. Perché doveva nasconderle la verità? Tanto sarebbe venuta fuori comunque, se non altro per il cambio di indirizzo.

«Cosima ha un altro» ammise, facendo del proprio meglio per controllare la voce. «All’inizio era solo un sospetto, ma due giorni fa mi ha confessato tutto».

«Ah». Non sembrava contenta, ma pretendere da parte sua un “Mi dispiace” sarebbe stato troppo. E comunque a lui non importava. Prese di nuovo la bottiglia e si riempí il bicchiere per la sesta volta. Mentre Nicola lo guardava in silenzio, mandò giú il cognac e sentí subito l’effetto dell’alcol a stomaco vuoto. Ora sapeva perché alcuni, in simili circostanze, diventavano alcolisti. Cosima uscí completamente dalla sua testa, insieme ad Amelie, Thies e Daniela Lauterbach.

«Come poliziotto non valgo granché» disse. «Non sono neanche un buon capo. Dovresti cercare qualcun altro da mettere al mio posto».

«Non se ne parla!» rispose lei, decisa. «Ti confesso che l’anno scorso, quando sono arrivata, ci ho fatto un pensierino. Ma in questi mesi ho osservato il tuo metodo di lavoro e anche il modo in cui dirigi gli altri. Vorrei averne di piú come te».

Bodenstein non replicò. Voleva versarsi un altro cognac, ma la bottiglia era vuota. La buttò nel cestino e un secondo dopo fece fare la stessa fine alla fotografia di Cosima. Alzando la testa incontrò lo sguardo indagatore di Nicola.

«È ora di andare» disse lei guardando l’orologio. «È già mezzanotte. Dai, ti do un passaggio fino a casa».

«Non ho piú una casa» le ricordò lui. «Sono tornato dai miei genitori. Lo so, è ridicolo».

«Meglio dalla famiglia che in hotel. Su, forza. In piedi».

Bodenstein non si mosse e tenne gli occhi fissi sul suo viso. Di colpo ricordò la prima volta che l’aveva incontrata, piú di ventisette anni prima, alla festa di un compagno. Era rimasto quasi tutta la sera nella minuscola cucina a bere birra con un paio di amici. Non aveva degnato neanche di uno sguardo le ragazze presenti; aveva appena rotto con Inka e la delusione era ancora troppo forte. Non aveva nessuna voglia di cominciare un’altra storia. Davanti alla porta del bagno si era imbattuto in Nicola. Lei l’aveva squadrato da capo a piedi e con la sua inimitabile schiettezza gli aveva detto qualcosa che l’aveva spinto a lasciare subito la festa in sua compagnia. Non aveva neanche salutato il padrone di casa. Come quella sera, anche ora era ubriaco e ferito. All’improvviso un’ondata di calore gli attraversò il corpo e gli infiammò come lava il basso ventre.

«Mi piaci». Con voce roca ripeté le parole che lei gli aveva sussurrato alla festa. «Ti va di fare sesso?».

Nicola rimase molto sorpresa. Poi gli angoli della bocca si piegarono in un sorriso.

«Perché no?». Neanche lei aveva dimenticato quel primo dialogo. «Devo solo fare un salto in bagno».