Sabato, 8 novembre 2008

«Oddio!». La dottoressa Daniela Lauterbach reagí con sincero raccapriccio quando Bodenstein le spiegò come aveva avuto il suo numero di telefono. Nonostante l’abbronzatura sembrò impallidire. «Rita è una mia cara amica. Prima che divorziasse, un paio di anni fa, eravamo vicine di casa».

«Un testimone dice di aver visto qualcuno spingere la signora Cramer oltre il parapetto del ponte pedonale» continuò Bodenstein. «Infatti stiamo indagando per tentato omicidio».

«Ma è terribile! Povera Rita! Come sta?».

«Non bene. È in condizioni critiche».

La dottoressa Lauterbach intrecciò le dita come per pregare e scosse il capo con aria turbata. Bodenstein giudicò che avesse piú o meno la sua età, circa cinquant’anni. Era una donna di aspetto molto femminile: i capelli scuri e lucenti erano raccolti in una semplice crocchia e i caldi occhi marroni, circondati da piccole rughe di espressione, irradiavano gentilezza e un che di materno. Senza dubbio era uno di quei medici che dedicavano ancora tempo ai pazienti e ai loro problemi. Il suo ampio studio si trovava sopra una gioielleria nella zona pedonale di Königstein. Locali grandi e luminosi con il soffitto alto e il parquet.

«Andiamo nel mio ufficio» propose la dottoressa. Bodenstein la seguí in un’enorme stanza dove troneggiava una massiccia scrivania di gusto rétro. I colori cupi dei grandi quadri espressionisti alle pareti creavano un insolito ma affascinante contrasto con l’ambiente circostante.

«Posso offrirle un caffè?».

«Sí, grazie». Il commissario capo annuí sorridendo. «Oggi non l’ho ancora preso».

«Si è alzato presto». Daniela Lauterbach mise una tazzina sotto la macchina per espresso, sistemata su un mobile insieme a pubblicazioni specializzate di ogni tipo, e premette il pulsante. Si udí il rumore del caffè che veniva macinato e nella stanza si diffuse un profumo invitante.

«Anche lei ha cominciato di buonora» osservò Bodenstein. «Eppure è sabato».

Il giorno prima, in tarda serata, aveva lasciato un messaggio nella segreteria telefonica dello studio. Era stato richiamato alle sette e mezza di mattina.

«Il sabato comincio con le visite a domicilio». La dottoressa gli porse la tazzina di caffè e gli offrí latte e zucchero, ma Bodenstein rifiutò educatamente. «Poi mi occupo delle scartoffie. Purtroppo sono sempre di piú. Preferirei dedicare tutto il tempo ai pazienti».

Con un cenno della mano lo invitò a raggiungere la scrivania; il commissario obbedí e si accomodò su una sedia. Le finestre dietro la scrivania permettevano di ammirare il parco cittadino e le rovine del castello.

«Come posso aiutarla?» domandò la Lauterbach dopo aver bevuto un sorso di caffè.

«Nell’appartamento della signora Cramer non abbiamo trovato tracce di parenti» rispose Bodenstein. «Ma c’è sicuramente qualcuno da informare».

«Ci sarebbe l’ex marito. È rimasto in buoni rapporti con Rita, si prenderà senz’altro cura di lei». Daniela Lauterbach scosse di nuovo la testa, sconsolata. «Chi può essere stato?» chiese, fissandolo con i suoi occhi castani.

«Vorremmo saperlo anche noi. Aveva qualche nemico?».

«Rita? Per l’amor del cielo, no! È una persona adorabile. Ne ha passate tante, ma non si è mai inasprita».

«Che significa “ne ha passate tante”?». Bodenstein la guardò con interesse. Daniela Lauterbach era una dottoressa dai modi calmi e pacati. Gli piaceva molto, anche perché il suo medico di famiglia era completamente diverso, visitava i pazienti con la stessa velocità degli operai in catena di montaggio. Ogni volta che andava da lui, si innervosiva per la fretta con cui eseguiva i controlli.

«Il figlio è finito in prigione» disse lei, sospirando. «Per Rita è stato un duro colpo. A lungo andare ha distrutto anche il suo matrimonio».

Il commissario, che si stava portando la tazzina alla bocca, si fermò con il braccio a mezz’aria.

«Il figlio della signora Cramer è in prigione? Perché?».

«Era in prigione, è uscito due giorni fa. Dieci anni per l’omicidio di due ragazze».

Bodenstein si spremette le meningi, ma non riuscí a ricordare nessun duplice omicidio in cui fosse coinvolto qualcuno di nome Cramer.

«Rita non voleva piú essere associata a quel fatto orribile e cosí dopo il divorzio ha ripreso il suo cognome da ragazza» aggiunse la dottoressa Lauterbach, quasi leggendogli nel pensiero. «Da sposata si chiamava Sartorius».

 

Pia non riusciva a credere ai propri occhi. Lesse rapidamente la lettera, scritta con linguaggio burocratico su carta grigia riciclata. Quando nella cassetta aveva trovato la tanto sospirata busta dell’ufficio tecnico di Francoforte, aveva esultato. Non si aspettava assolutamente una risposta come quella che aveva davanti. Dopo che Christoph aveva deciso di trasferirsi a Birkenhof per vivere con lei, avevano cominciato a pianificare la ristrutturazione della sua villetta, che era un po’ piccola per due persone e non offriva certo la possibilità di ospitare eventuali visitatori. Pia aveva affidato il progetto a un amico architetto e aveva presentato una richiesta di autorizzazione all’ufficio competente. Quindi aveva atteso con impazienza la risposta, desiderosa di iniziare subito i lavori. Rilesse la lettera una seconda e una terza volta, la mise di nuovo nella busta, si alzò dal tavolo della cucina e andò in bagno. Dopo una doccia veloce si avvolse un asciugamano intorno al corpo e di malumore si guardò allo specchio. Anche se avevano lasciato la festa alle tre e mezza, si era alzata alle sette per far uscire il cane e dare da mangiare agli altri animali. Approfittando di una breve tregua concessa dalla pioggia, aveva poi lavorato alla corda con i due cavalli piú giovani e aveva pulito i box. Era chiaro che non aveva piú il fisico per festeggiare fino a tardi. Se a ventun anni era facile riprendersi da una notte di baldoria, a quarantuno non era piú cosí. Si spazzolò pensosamente i capelli biondi, lunghi fino alle spalle, e li divise in due trecce. Dopo la terribile notizia che aveva appena ricevuto, al sonno non pensava piú. Tornò in cucina, prese l’infausta lettera dal tavolo ed entrò in camera da letto.

«Amore» mormorò Christoph, ancora addormentato, socchiudendo gli occhi per la luce. «Che ore sono?».

«Le dieci meno un quarto».

Lui si tirò su e gemendo si massaggiò le tempie. Diversamente dal solito, la sera prima si era abbandonato senza ritegno all’alcol. «Quando parte l’aereo di Annika?».

«Oggi pomeriggio alle due. C’è tempo».

«Cos’è?» domandò Christoph, vedendo la busta che teneva in mano.

«Una catastrofe» disse lei con aria cupa. «Finalmente l’ufficio tecnico ha risposto».

«Quindi?» fece lui, tentando faticosamente di svegliarsi.

«È un’ordinanza di demolizione!».

«Cosa?».

«A quanto pare, i precedenti proprietari hanno costruito la casa in modo abusivo! Con la nostra domanda di ristrutturazione abbiamo svegliato il cane che dormiva. Su questo terreno si potevano costruire solo un capanno e una stalla. Non capisco…».

Scuotendo il capo, Pia si sedette sul bordo del letto.

«Ho cambiato residenza un paio d’anni fa, quelli della nettezza urbana passano regolarmente a raccogliere i rifiuti, pago l’acqua e la fognatura… Cosa credevano? Che vivessi in un capanno?».

«Fammi vedere». Christoph lesse la lettera e si grattò la testa.

«Ci opporremo. È una cosa inaccettabile. Il tuo vicino costruisce un capannone gigantesco e tu non puoi ristrutturare una villetta!».

Sul comodino squillò il cellulare. Pia, che era di turno, rispose senza grande entusiasmo e ascoltò in silenzio per un minuto.

«Va bene» disse infine e, dopo aver interrotto la comunicazione, buttò il cellulare sul letto. «Maledizione!».

«Devi andare?».

«Purtroppo sí. Al commissariato di Niederhöchstadt c’è un ragazzo che ieri sera si trovava in stazione e che dice di aver visto un uomo spingere la donna giú dal ponte».

Christoph le mise un braccio intorno alle spalle e la tirò a sé. Pia fece un gran sospiro. Lui la baciò prima sulla guancia, poi sulla bocca. Il ragazzo non poteva aspettare il pomeriggio per andare alla polizia a raccontare quello che aveva visto? Pia non aveva nessuna voglia di lavorare. Avrebbero dovuto chiamare Behnke, era il suo weekend di reperibilità. Purtroppo era infortunato. E il collega Hasse era malato. Accidenti a loro! Si abbandonò all’indietro, contro il corpo caldo di Christoph. Lui infilò le dita sotto l’asciugamano per accarezzarle il ventre.

«Non preoccuparti per la lettera» sussurrò. «Troveremo una soluzione. Le demolizioni richiedono tempo».

«Sempre e solo problemi» mormorò Pia, poi si lasciò andare. Il ragazzo poteva anche aspettare un’altra ora al commissariato di Niederhöchstadt.

 

Bodenstein era seduto in macchina davanti all’ospedale di Bad Soden, in attesa della collega. Daniela Lauterbach gli aveva dato l’indirizzo dell’ex marito di Rita Cramer, ma prima di portare la brutta notizia all’uomo, residente ad Altenhain, era tornato a informarsi sulle condizioni della ferita. La signora Cramer aveva superato la prima notte; era stata operata e si trovava in coma farmacologico nel reparto di terapia intensiva. Pia arrivò alle undici e mezza, scese dall’auto e lo raggiunse camminando a grandi passi per evitare le pozzanghere.

«Il ragazzo ha fornito una descrizione dell’uomo piuttosto precisa» disse, lasciandosi cadere sul sedile del passeggero e allacciando la cintura di sicurezza. «Se Kai riesce a tirar fuori un’immagine abbastanza chiara dalla registrazione della telecamera di sorveglianza, avremo una foto segnaletica da dare alla stampa».

«Bene». Bodenstein avviò il motore. Aveva chiesto alla collega di accompagnarlo dall’ex marito della Cramer. Durante il breve viaggio da Bad Soden ad Altenhain le raccontò del colloquio con la dottoressa Lauterbach. Pia faceva fatica a concentrarsi. Era anche preoccupata per la lettera dell’ufficio tecnico. Un’ordinanza di demolizione! Non si sarebbe mai aspettata una cosa del genere. E se l’avessero davvero obbligata ad abbattere la casa? Dove sarebbe andata a vivere con Christoph?

«Ma mi stai ascoltando?» domandò Bodenstein.

«Certo. Sartorius, vicina di casa, Altenhain. Scusa, stanotte siamo rientrati alle quattro».

Sbadigliò e chiuse gli occhi. Era stanca morta. Purtroppo non aveva il ferreo autocontrollo di Bodenstein. Lui non si lasciava andare neanche dopo indagini estenuanti e intere notti in bianco. L’aveva mai visto sbadigliare?

«Undici anni fa il caso finí in prima pagina» continuò il commissario capo. «Fu un processo indiziario. Tobias Sartorius venne comunque condannato per omicidio e ricevette il massimo della pena».

«Ah sí» mormorò lei. «Me lo ricordo vagamente. Duplice omicidio, nessun cadavere. È ancora in prigione?».

«No, è stato rilasciato giovedí. Ed è tornato ad Altenhain, dal padre».

Pia rifletté un attimo, poi aprí gli occhi.

«Pensi che ci sia un collegamento tra il rilascio di Tobias Sartorius e l’aggressione alla madre?».

Bodenstein le lanciò uno sguardo divertito.

«Incredibile».

«Cosa?».

«La tua perspicacia. Non la perdi neanche quando sei mezza addormentata».

«Sono sveglissima» ribatté lei, facendo uno sforzo sovrumano per trattenere un altro sbadiglio.

Superato il cartello con il nome del paese, proseguirono sulla strada principale fino all’indirizzo che Daniela Lauterbach aveva scritto su un foglio e consegnato al commissario capo. Bodenstein svoltò per entrare nel parcheggio maltenuto dell’ex trattoria. Un uomo stava dipingendo di bianco la facciata dell’edificio nel tentativo di coprire una scritta rossa: “Qui vive un assassino”. Le lettere fiammeggianti erano ancora visibili sotto la vernice chiara. Sul marciapiede davanti all’ingresso del cortile erano ferme tre donne di mezza età.

«Assassino!» gridò una, mentre Bodenstein e Pia aprivano le portiere per uscire dall’auto. «Vattene da qui, lurido bastardo! Altrimenti sei finito!».

Dopo aver parlato sputò per terra.

«Che succede?» chiese Bodenstein, ma le tre fecero finta di niente e sparirono in fretta. L’uomo non aveva prestato alcuna attenzione agli insulti. Il commissario lo salutò cortesemente e si presentò insieme a Pia.

«Cosa volevano quelle donne?» domandò lei, incuriosita.

«Lo chieda a loro» rispose seccamente lui, rivolgendole appena un’occhiata e continuando a stendere la vernice. Nonostante il freddo indossava solo una maglietta grigia a maniche lunghe, un paio di jeans e scarpe da lavoro.

«Vorremmo parlare con il signor Sartorius».

Finalmente l’uomo si voltò e Pia capí di averlo già visto.

«Per caso ieri sera era a Neuenhain davanti al palazzo di Rita Cramer?». Forse la domanda lo sorprese, ma non lasciò trasparire nulla. Senza sorridere, la fissò con gli occhi di un blu straordinariamente intenso e lei si sentí avvampare.

«Sí» ammise. «È forse vietato?».

«No, assolutamente. Posso chiederle come mai si trovava là?».

«Stavo andando da mia madre. Avevamo un appuntamento, ma non si è fatta vedere. Mi sono preoccupato».

«Quindi lei è Tobias Sartorius?».

L’uomo inarcò le sopracciglia e tirò le labbra, assumendo un’espressione beffarda.

«Sí, sono proprio io. L’assassino di ragazzine».

Aveva un fascino inquietante. Invece di deturpare il suo bel viso, la sottile cicatrice bianca che correva dall’orecchio sinistro fino al mento lo rendeva piú interessante. C’era qualcosa nel suo modo di guardare che provocò in Pia una strana sensazione. Non riuscí però a capire da che cosa dipendesse.

«Ieri sera sua madre ha avuto un grave incidente» intervenne Bodenstein. «L’hanno operata e ora si trova in terapia intensiva. È in condizioni critiche».

Mentre Pia lo osservava, Tobias Sartorius spalancò brevemente le narici e strinse le labbra fino a farle diventare una striscia sottile. Poi lasciò cadere il rullo nel secchio di vernice bianca e si diresse verso il portone. Bodenstein e la collega si scambiarono un rapido sguardo, poi lo seguirono. Il cortile somigliava a una discarica. All’improvviso il commissario capo lanciò un urlo soffocato e si fermò impietrito. Pia si girò verso di lui.

«Che c’è?» domandò stupita.

«Un topo!» esclamò lui, bianco come un lenzuolo. «Mi è passato sul piede!».

«Ci credo, con tutti questi rifiuti». Pia alzò le spalle e fece per proseguire, ma Bodenstein rimase immobile.

«Odio i topi» disse con voce tremante.

«Sei cresciuto in una fattoria. Ci saranno stati dei topi!».

«Proprio per questo li odio tanto».

Pia scrollò la testa, incredula. Non avrebbe mai pensato che il suo capo avesse una simile fobia.

«Dai, vieni. Questi topi sono molto paurosi, scappano appena ti vedono. Una mia amica ne aveva due domestici. Quelli erano tutta un’altra cosa. Li facevamo…».

«Per favore, non voglio sentire!». Bodenstein inspirò profondamente. «Vai avanti tu».

«O Signore!». Pia non poté evitare di sorridere mentre faceva strada al capo, che, pronto a fuggire in qualunque momento, scrutava con diffidenza i rifiuti ammassati a destra e a sinistra del vialetto che conduceva alla casa.

«Uh, eccone un altro! Ed è anche bello grosso». Si fermò di colpo. Bodenstein le andò addosso e si guardò intorno terrorizzato. Aveva perso del tutto l’autocontrollo.

«Stavo scherzando» aggiunse Pia con un largo sorriso, ma lui non lo trovò divertente.

«Provaci ancora e te ne pentirai» minacciò. «Mi è quasi venuto un infarto!».

Ripresero ad avanzare verso la casa. Tobias Sartorius era sparito all’interno, lasciando però la porta aperta. Bodenstein superò Pia negli ultimi metri e salí i tre gradini d’ingresso come un escursionista che, dopo aver attraversato una palude, non vede l’ora di rimettere i piedi su un terreno solido. Sulla soglia comparve un uomo di una certa età con le spalle curve. Ai piedi aveva un paio di ciabatte consumate e indossava dei pantaloni grigi pieni di macchie e un cardigan logoro troppo grande per il suo corpo magro.

«Hartmut Sartorius?» chiese Pia e l’uomo annuí. Aveva lo stesso aspetto trascurato del cortile. Il viso lungo e scarno era segnato da profonde rughe; l’unica somiglianza con Tobias stava negli occhi blu intenso, che tuttavia apparivano spenti.

«Mio figlio ha detto che siete qui per la mia ex moglie». La voce era poco piú di un sussurro.

«Sí» confermò lei. «Ha avuto un grave incidente».

«Entrate». Attraverso un corridoio stretto e buio li guidò fino in cucina, una stanza potenzialmente accogliente ma troppo sporca. Tobias era in piedi vicino alla finestra, le braccia incrociate sul petto.

«Abbiamo avuto il suo indirizzo dalla dottoressa Lauterbach» spiegò Bodenstein, che aveva già recuperato il controllo di sé. «Secondo i testimoni oculari, nel tardo pomeriggio di ieri qualcuno ha spinto la sua ex moglie giú dal ponte pedonale della stazione di Sulzbach-Nord, facendola cadere su un’auto di passaggio».

«Oddio!». L’uomo si aggrappò allo schienale di una sedia e dal suo viso allungato scomparve ogni traccia di colore. «Ma… chi può aver fatto una cosa simile?».

«Lo scopriremo» rispose Bodenstein. «Ha qualche idea? La sua ex moglie aveva nemici?».

«Mia madre probabilmente no» disse Tobias. «Ma io sí. In realtà in questo buco di paese mi odiano tutti».

Sembrava amareggiato.

«Sospetta di qualcuno in particolare?» domandò Pia.

«No» si affrettò a rispondere Hartmut Sartorius. «Non conosciamo nessuno in grado di fare una cosa del genere».

Lei spostò lo sguardo su Tobias, ancora fermo davanti alla finestra. In controluce non distingueva bene la sua espressione, ma da come alzò le sopracciglia e contrasse le labbra le sembrò di capire che non fosse d’accordo col padre. In qualche modo riusciva a percepire la rabbia che irradiava dal suo corpo teso. Negli occhi ardevano pericolose fiammelle, segno di un’ira a lungo repressa e pronta a esplodere alla prima occasione. Tobias Sartorius era una bomba a orologeria. Il padre, invece, era debole e stanco come un vecchio. Lo stato della casa e del cortile la diceva lunga. Hartmut Sartorius aveva perso la gioia di vivere, si era letteralmente barricato dietro le macerie della sua vita. Per i genitori di un assassino non era mai facile, ma si poteva ben immaginare quanto fosse stata dura per lui e la ex moglie in un paesino come Altenhain: chissà cosa avevano dovuto sopportare, ogni giorno nuove umiliazioni… A un certo punto la signora Sartorius aveva ceduto e se n’era andata, abbandonando il marito. Ma, tormentata dal rimorso, non era riuscita a rifarsi una vita, come dimostrava il suo appartamento freddo e vuoto.

Pia si concentrò di nuovo su Tobias. Si stava mordicchiando distrattamente la nocca del pollice, guardando dritto davanti a sé. Che cosa nascondeva dietro il volto inespressivo? Era oppresso da ciò che aveva causato ai genitori? Bodenstein porse un biglietto da visita a Hartmut Sartorius, che lo fissò per un attimo e poi lo infilò nella tasca del cardigan.

«La sua ex moglie è molto grave, ha bisogno di aiuto. Forse lei e suo figlio…».

«Ma certo, andiamo subito in ospedale».

«E se vi venisse in mente un possibile colpevole, non esitate a chiamarmi, d’accordo?».

Il padre rispose con un cenno del capo, il figlio invece non reagí. Pia aveva un brutto presentimento. Sperava che Tobias Sartorius non si mettesse a cercare per conto proprio l’uomo che aveva spinto la madre giú dal ponte.

 

Hartmut Sartorius rimise l’auto in garage. Era stato terribile vedere Rita in ospedale. Il medico con cui aveva parlato non voleva sbilanciarsi sulla prognosi. La signora era stata fortunata, aveva detto, la colonna vertebrale era praticamente intatta. Nel corpo umano ci sono però 206 ossa e circa la metà era fratturata; inoltre il violento impatto con l’auto di passaggio aveva provocato gravi lesioni interne. Durante il viaggio di ritorno, Tobias non aveva aperto bocca era rimasto seduto in silenzio, con l’espressione cupa e lo sguardo fisso in avanti. Attraversarono il portone per raggiungere la casa, ma davanti ai gradini d’ingresso il giovane Sartorius si fermò e tirò su il collo della giacca.

«Che c’è?».

«Devo prendere una boccata d’aria».

«Adesso? Sono le undici e mezza e piove a dirotto. Ti bagnerai tutto con questo tempaccio».

«Negli ultimi dieci anni non ho potuto camminare né sotto la pioggia né sotto il sole» replicò Tobias, guardando il padre. «Non importa se mi bagnerò. Se non altro a quest’ora non mi vedrà nessuno».

Hartmut Sartorius esitò un attimo, poi gli posò una mano sul braccio.

«Promettimi che non farai sciocchezze, Tobi».

«Stai tranquillo, non hai motivo di preoccuparti». Fece un rapido sorriso, anche se non ne aveva voglia, e aspettò che il padre rientrasse in casa; quindi s’incamminò a testa bassa nell’oscurità, passando accanto alla stalla vuota e al fienile. Come aveva previsto, il ricordo della madre ricoverata in terapia intensiva con la metà delle ossa rotte, circondata da tubi e apparecchi vari, s’impossessò della sua mente. C’era un collegamento tra l’aggressione e il fatto che lui era tornato in libertà? Se fosse morta, possibilità che i medici non avevano ancora escluso, chi l’aveva spinta giú dal ponte avrebbe avuto sulla coscienza un omicidio.

Tobias si bloccò davanti al cancello posteriore. Era invaso dall’edera e dalle erbacce. Probabilmente erano anni che nessuno lo apriva. Il mattino seguente avrebbe iniziato a pulire. Dopo dieci anni in prigione aveva una gran voglia di stare all’aria aperta e di fare un lavoro non imposto da altri. Erano bastate tre settimane dietro le sbarre per capire che sarebbe impazzito se non avesse tenuto la mente impegnata. Sapeva di dover scontare tutta la pena, l’avvocato gli aveva detto che il ricorso era stato respinto, quindi si era iscritto all’università a distanza di Hagen e nel contempo aveva cominciato a frequentare un corso di formazione per fabbri. Ogni giorno otto ore di lavoro e un’ora di esercizio fisico, poi rimaneva chino sui libri fino a tardi per distrarsi e rendere la monotonia della vita in carcere piú sopportabile. Nel corso degli anni si era abituato alle regole e l’improvviso venir meno di quella rigida organizzazione lo spaventava un po’. Di sicuro non avrebbe avuto nostalgia della prigione, ma ci avrebbe messo del tempo ad abituarsi di nuovo alla libertà. Dopo aver scavalcato il cancello, si fermò per un attimo al riparo del lauroceraso, che ormai era un albero imponente. Decise di proseguire verso sinistra, passando davanti alla proprietà dei Terlinden. Il grande cancello in ferro battuto era chiuso, l’unica novità era costituita dalla telecamera sopra uno dei due pali laterali. Dietro la casa iniziava subito il bosco. Dopo una cinquantina di metri Tobias imboccò quello che gli abitanti del posto chiamavano “bulino”, un viottolo che si snodava attraverso il paese fino al cimitero, passando accanto ai giardini e agli accessi posteriori delle case, appiccicate l’una all’altra. Conosceva ogni angolo, ogni gradino e ogni recinto. Non era cambiato nulla! Da bambino e poi da ragazzo aveva percorso spesso il viottolo per andare in chiesa, dagli amici o a fare sport. Infilò le mani in tasca. Sulla sinistra, in una casa minuscola, viveva la vecchia Maria Kettels, la sua unica testimone a discarico. Sosteneva di aver visto Stefanie la sera della scomparsa, a tarda ora, ma la sua testimonianza non era stata ascoltata in tribunale. Ad Altenhain tutti sapevano che la Kettels era affetta da demenza ed era pure mezza cieca. All’epoca del processo aveva già superato da un pezzo gli ottanta, nel frattempo era sicuramente finita al camposanto. Vicino a lei abitavano i Paschke. La loro proprietà confinava con quella dei Sartorius ed era, come sempre, curatissima. Il vecchio Paschke eliminava chimicamente le erbacce appena spuntavano. Era un ex dipendente municipale, di conseguenza aveva potuto attingere ciò che gli serviva dal deposito del comune, come tutti i vicini che avevano lavorato per la Hoechst AG e senza alcuna remora avevano costruito e sistemato abitazioni e giardini privati con i materiali dell’azienda. I Paschke erano i genitori di Gerda Pietsch, che a sua volta era la madre di Felix, un amico di Tobias. Gli abitanti di Altenhain erano tutti imparentati tra loro, piú o meno alla lontana, e ognuno conosceva le vicende familiari e i segreti piú intimi degli altri. Si spettegolava con piacere sugli errori, le sconfitte e le malattie dei vicini. Trovandosi in una valle stretta, in posizione geografica infelice, il paese non aveva conosciuto un grande sviluppo edilizio. Gli abitanti provenienti da fuori erano pochissimi. Nell’ultimo secolo la comunità era rimasta piú o meno immutata.

Tobias raggiunse il cimitero. Si appoggiò con una spalla al piccolo cancello di legno, che si aprí con un faticoso cigolio. Il vento sempre piú forte faceva oscillare rumorosamente i rami spogli dei grandi alberi che crescevano in mezzo alle sepolture. A passo lento avanzò tra le file di tombe. I cimiteri non gli avevano mai dato i brividi; li considerava luoghi pieni di pace. Mentre si avvicinava alla chiesa, i dodici rintocchi dell’orologio annunciarono la mezzanotte. Tobias si fermò, alzò la testa e osservò brevemente il tozzo campanile di quarzite grigia. Forse avrebbe dovuto accettare l’offerta di Nadja e approfittare della sua ospitalità finché non fosse stato in grado di camminare con le proprie gambe. Ad Altenhain aveva tutti contro, era evidente. Ma non poteva abbandonare il padre! Si sentiva in obbligo verso i genitori, che nonostante una condanna per duplice omicidio non gli avevano mai voltato le spalle. Girò intorno alla chiesa per raggiungere l’ingresso, ma un movimento sulla destra lo fece trasalire. Nella fioca luce del lampione vide una ragazza dai capelli scuri che, seduta sullo schienale della panchina di legno vicino al portale, fumava una sigaretta. Per qualche istante il cuore gli batté piú forte. Non riusciva a credere ai propri occhi: aveva davanti Stefanie Schneeberger.

Amelie si prese un bello spavento quando, all’improvviso, sotto la tettoia della chiesa apparve un uomo con la giacca bagnata e luccicante. I capelli scuri gli scendevano sul viso, grondanti d’acqua. Non l’aveva mai incontrato prima, eppure capí immediatamente di chi si trattava.

«Buonasera» disse, togliendosi gli auricolari. Adrian Hates dei Diary of Dreams, il gruppo che amava di piú, continuò a cantare finché non spense l’iPod. Intorno regnava il silenzio, si sentiva solo il rumore della pioggia. Sulla strada sotto la chiesa passò un’auto e per una frazione di secondo i fari illuminarono il volto dell’uomo. Non c’erano dubbi, era Tobias Sartorius! In Internet aveva trovato diverse foto, non ebbe difficoltà a riconoscerlo. Era carino. Anzi, era proprio bello. Non come gli altri tipi che giravano ad Altenhain. Non aveva assolutamente l’aspetto di un assassino.

«Ciao» rispose lui dopo un po’, guardandola con un’espressione perplessa. «Cosa fai qui a quest’ora?».

«Ascolto musica. E fumo. Piove troppo forte per tornare a casa».

«Mmh».

«Mi chiamo Amelie Fröhlich. Tu sei Tobias Sartorius, vero?».

«Sí. Perché?».

«Ho sentito molte cose su di te».

«Non mi sorprende, dato che vivi qui» replicò lui in modo cinico. Stava cercando di inquadrarla.

«Sono arrivata lo scorso maggio» precisò Amelie. «Prima stavo a Berlino. Purtroppo ho litigato con il nuovo compagno di mia madre e sono stata spedita in questo posto, a casa di mio padre e della sua seconda moglie».

«E ti permettono di andare in giro di notte?». Tobias Sartorius si appoggiò al muro e la scrutò. «Anche se in paese è appena tornato un assassino?».

Amelie sorrise. «Credo che non ne sappiano niente. Io lo so perché di sera lavoro là». Fece un cenno in direzione della trattoria, che si trovava sull’altro lato del parcheggio vicino alla chiesa. «Sono due giorni che si parla solo di te».

«Dove?».

«Al Cavallino Nero».

«Ah, sí. Quando sono andato via non esisteva ancora».

In effetti all’epoca dei due omicidi esisteva una sola trattoria ad Altenhain, quella gestita dal padre di Tobias Sartorius. Il Gallo d’Oro.

«Tu che fai in giro a quest’ora?» chiese Amelie, tirando fuori il pacchetto di sigarette dallo zaino e offrendogliene una. Lui esitò un attimo, poi la prese assieme all’accendino.

«Passeggio» spiegò, alzando un piede e appoggiandolo sul muretto. «Ho passato gli ultimi dieci anni in prigione. Là non lo potevo fare».

Per un po’ fumarono in silenzio. Sull’altro lato del parcheggio alcuni ritardatari uscirono dal Cavallino Nero. Voci, rumore di portiere sbattute. Poi avviarono il motore e se ne andarono.

«Non hai paura del buio?».

«No». Amelie scosse la testa. «Vengo da Berlino. Qualche volta io e un paio di amici abbiamo dormito in case abbandonate. Ce la siamo sempre cavata, nonostante i barboni e la polizia».

Tobias Sartorius emise uno sbuffo di fumo dal naso.

«Dove abiti?».

«Nella casa vicino ai Terlinden».

«Cosa?».

«Sí, lo so. Thies me l’ha detto che una volta ci viveva Biancaneve».

Lui la fissò.

«No, non può essere» replicò dopo qualche secondo, con voce alterata. «Non te l’ha detto Thies».

«Invece sí!».

«Impossibile. Non parla con nessuno».

«Con me parla. Ogni tanto. Siamo molto amici».

Tobias diede un altro tiro alla sigaretta e il bagliore dell’estremità incandescente gli rischiarò il viso. Amelie lo vide inarcare le sopracciglia.

«Non in quel senso» si affrettò ad aggiungere. «Thies è il mio migliore amico. Ed è anche l’unico».