Venerdí, 14 novembre 2008

«Buongiorno». Gregor Lauterbach salutò la sua assistente, Ines Schürmann-Liedtke, ed entrò nel grande ufficio di cui disponeva all’interno del ministero della Pubblica istruzione dell’Assia in Luisenplatz, a Wiesbaden. Lo attendeva una giornata fitta di impegni. Alle otto in punto era fissata la riunione con il sottosegretario, alle dieci il discorso per presentare a tutti il progetto di bilancio per l’anno successivo. A mezzogiorno, poi, avrebbe pranzato velocemente con una delegazione di insegnanti provenienti dal Wisconsin, stato americano gemellato con l’Assia. Sulla scrivania c’era la posta, divisa per importanza e sistemata in vaschette di colore diverso. Quella piú in alto era riservata alla corrispondenza da firmare. Si sbottonò la giacca e prese posto sulla sedia per occuparsi velocemente delle cose piú importanti. Erano le otto meno venti. Il sottosegretario sarebbe arrivato in perfetto orario, come sempre.

«Il suo caffè, signor ministro». Ines entrò e mise una tazza fumante sulla scrivania.

Lauterbach la ringraziò con un sorriso. Non solo era una donna brillante e un’ottima assistente, ma era anche di aspetto molto piacevole. Corpo ben tornito, capelli bruni, grandi occhi scuri e pelle vellutata. Somigliava leggermente a Daniela, sua moglie. Ogni tanto si abbandonava a sogni lascivi in cui Ines Schürmann-Liedtke aveva un ruolo di primo piano, ma nella realtà si comportava in modo irreprensibile. Due anni prima, quand’era diventato ministro, avrebbe potuto sostituirla con qualcun altro, ma aveva provato un’immediata simpatia per lei e cosí la donna era rimasta al suo posto. Ines gli era grata e lo ripagava con assoluta fedeltà e massimo zelo.

«Oggi è davvero bellissima, Ines». Fece una pausa per bere un sorso di caffè. «Il verde le sta d’incanto».

«Grazie» rispose lei, sorridendo lusingata; poi tornò al suo atteggiamento professionale e gli lesse rapidamente la lista delle persone che avevano telefonato e chiesto di essere richiamate. Lauterbach ascoltò con un orecchio, annuendo o scrollando la testa mentre firmava le lettere che lei aveva preparato. Alla fine Ines le prese e uscí dall’ufficio, lasciandolo libero di dedicarsi alla posta già smistata. Erano arrivate quattro lettere con la scritta “riservata personale”; l’assistente le aveva messe sulla scrivania cosí com’erano. Lauterbach le aprí con il tagliacarte, diede una scorsa alle prime due e le accantonò. Quando posò gli occhi sulla terza, rimase senza fiato.

 

Se tieni la bocca chiusa, non succederà niente. In caso contrario la polizia saprà che quel giorno nel fienile, mentre ti scopavi una studentessa minorenne, hai perso qualcosa.

Saluti, Biancaneve

 

Con la bocca completamente secca guardò il secondo foglio, su cui spiccava la foto di un mazzo di chiavi. Sentí il sangue gelarsi nelle vene e nello stesso tempo cominciò a sudare. Non era uno scherzo, ma una cosa maledettamente seria. Nella testa aveva un turbinio di pensieri. Chi era il mittente? Chi poteva sapere della ragazza? E perché la lettera era arrivata proprio ora? Gregor Lauterbach aveva la sensazione che il cuore volesse saltargli fuori dal petto. Per undici anni aveva sepolto quei fatti nella mente, ma all’improvviso i ricordi tornarono in superficie, vividi come se fosse successo tutto il giorno prima. Si alzò e si avvicinò alla finestra per guardare fuori; si stava facendo chiaro, ma era una nuvolosa mattina di novembre e la piazza era ancora deserta. Inspirò ed espirò lentamente. Doveva mantenere la calma! Da un cassetto della scrivania prese il quadernetto logoro che usava da anni per i numeri di telefono. Poi alzò il ricevitore e con disappunto notò che la mano gli tremava.

 

La vecchia quercia nodosa era situata nella parte anteriore del grande giardino, a meno di cinque metri dal muro che delimitava la proprietà. Era la prima volta che notava la casetta sull’albero, forse perché in estate era nascosta dal fitto fogliame. In minigonna e collant non era affatto facile arrampicarsi sulla scala mezza marcia, e tutt’altro che rassicurante; a ogni passo rischiava di scivolare per la pioggia degli ultimi giorni. Sperava che Thies non decidesse di uscire dal suo studio proprio mentre lei saliva. Avrebbe capito subito cosa stava facendo. Arrivata in cima, entrò a quattro zampe nella casetta. Era una solida struttura di legno, molto simile ai punti di osservazione che si incontravano nel bosco. Amelie si raddrizzò con cautela e si diede un’occhiata intorno, poi si sedette sulla panca e guardò giú dalla finestra anteriore. Bingo! Tirò fuori l’iPod dalla tasca della giacca e richiamò le immagini che aveva fotografato la notte prima. La prospettiva era identica. Dalla casetta aveva un’ottima visuale di mezzo paese; la parte superiore della proprietà dei Sartorius, quella con il fienile e la stalla, si trovava proprio sotto di lei. Perfino a occhio nudo si distingueva ogni dettaglio. Considerato che undici anni prima il lauroceraso era ancora un alberello, quasi sicuramente l’autore dei disegni aveva assistito ai fatti dallo stesso punto. Amelie si accese una sigaretta e puntò i piedi sulla parete di legno. Chi era l’osservatore? Non Thies, che era visibile in tre delle scene ritratte. Forse qualcuno aveva scattato delle foto che poi lui aveva trovato e copiato? Ancora piú interessante era l’identità delle altre persone coinvolte. Le due ragazze erano senz’altro Laura Wagner e Stefanie “Biancaneve” Schneeberger. E l’uomo che palpava Biancaneve nel fienile… be’, lo conosceva. Ma i tre ragazzi? Diede un tiro alla sigaretta e cercò di decidere cosa fare con quello che aveva scoperto. Escluse subito la possibilità di andare alla polizia. In passato aveva avuto esperienze negative con gli sbirri; anche per questo era finita in un buco di paese, da un padre che per dodici anni aveva sentito nominare solo a Natale e il giorno del compleanno. Non poteva neanche informare i propri genitori, perché sapeva che avrebbero chiamato la polizia. All’improvviso un movimento nel cortile dei Sartorius attirò la sua attenzione. Vide Tobias entrare nel fienile, poi sentí il motore del vecchio trattore rosso. Probabilmente voleva approfittare della giornata quasi asciutta per fare ancora un po’ d’ordine. E se avesse raccontato tutto a lui?

 

Anche se la dottoressa Engel aveva detto chiaramente che non ci sarebbero state nuove indagini sul duplice omicidio di undici anni prima, Pia era ancora concentrata sui sedici faldoni che contenevano tutto il materiale relativo al caso. Voleva distogliere i pensieri dalla minacciosa quanto lapidaria lettera dell’ufficio tecnico. Con la fantasia aveva già arredato la nuova casa di Birkenhof, trasformandola nel nido comodo e accogliente che aveva sempre sognato. Molti dei mobili di Christoph si adattavano perfettamente ai suoi sogni di interior design: il vecchio tavolo da refettorio, pieno di graffi ma abbastanza grande per dodici persone, il divano di pelle sgualcita che lui teneva nel giardino d’inverno, l’antico mobile verticale, la graziosa récamier… Pia sospirò. Magari le cose sarebbero andate per il meglio e l’ufficio tecnico avrebbe autorizzato la ristrutturazione.

Si concentrò di nuovo sui documenti che aveva davanti, lesse rapidamente un rapporto e si appuntò due nomi. L’ultimo incontro con Tobias Sartorius le aveva lasciato una strana sensazione. Forse quello che aveva detto per tanti anni era vero, forse non aveva ucciso lui le due ragazze. Se davvero c’era stato un errore giudiziario, l’assassino era ancora in libertà e i Sartorius avevano perso dieci anni di vita e la trattoria per niente. Fece uno schizzo di Altenhain. Dove vivevano i vari personaggi? Quali erano i legami di amicizia? Sembrava che all’epoca Tobias Sartorius e i suoi genitori fossero benvoluti e rispettati in paese, ma bastava leggere tra le righe per cogliere tutta l’invidia delle persone interrogate. Tobias non era solo un bellissimo ragazzo, ma era anche intelligente, sportivo e generoso. Aveva davanti un futuro fantastico. Nessuno parlava male del primo della classe, del grande atleta, dell’idolo di tutte le ragazze. Pia osservò alcune foto. Cosa provavano i suoi insulsi amici dal viso lucido e brufoloso? Come si sentivano a vivere sempre nell’ombra, a essere solo un ripiego per le ragazze piú carine? Invidia e gelosia erano inevitabili, o no? Un bel giorno si era presentata una possibilità di vendetta per tutte le piccole sconfitte subite. «Sí, a volte Tobias si arrabbia facilmente» aveva dichiarato uno dei suoi migliori amici. «Soprattutto quando è ubriaco. Perde proprio la testa».

Il suo ex insegnante l’aveva descritto come uno studente molto dotato e ambizioso, uno che imparava tutto con estrema facilità, ma che all’occorrenza si applicava in maniera tenace. Un leader, a volte anche una testa calda, sicuro ai limiti della superbia e piuttosto maturo per la sua età. Figlio unico adorato dai genitori. Aveva però molte difficoltà ad accettare la competizione e le sconfitte. Accidenti, dove l’aveva letto? Si mise a cercare qua e là. Il verbale dell’interrogatorio del professore di Tobias, che all’epoca della scomparsa era anche l’insegnante delle due ragazze, non c’era piú. Pia indugiò un attimo, poi prese gli appunti della settimana precedente e confrontò i nomi che aveva scritto con quelli che stava scrivendo ora.

«Maledizione!».

«Che c’è?». Ostermann staccò gli occhi dallo schermo del computer e la guardò masticando.

«Non trovo i verbali d’interrogatorio di Gregor Lauterbach su Stefanie Schneeberger e Tobias Sartorius» spiegò lei, continuando a frugare tra le carte. «Com’è possibile?».

«Saranno in un altro faldone». Ostermann si rivolse di nuovo al computer e alla ciambella che stava mangiando. Era un vero goloso di ciambelle e Pia si chiedeva da anni come facesse a mantenere la linea. Doveva avere un metabolismo eccezionale per bruciare le migliaia di calorie che assumeva ogni giorno. Lei sarebbe diventata una botte.

«No» disse scuotendo la testa. «Sono spariti!».

«Pia» replicò lui in tono paziente. «Siamo in un ufficio di polizia. Le persone non entrano per rubare vecchi verbali da un faldone».

«Questo lo so anch’io. Però i verbali sono spariti. La settimana scorsa c’erano, li ho letti». Pia si accigliò. A chi poteva interessare il vecchio caso Sartorius? I verbali mancanti non avevano grande importanza, non c’era alcun motivo di rubarli. Suonò il telefono. Pia alzò il ricevitore e ascoltò in silenzio. A Wallau un furgone era uscito di strada e aveva preso fuoco dopo essersi ribaltato piú di una volta. Il guidatore era ferito gravemente, ma tra i resti del veicolo i pompieri avevano trovato almeno due persone carbonizzate e irriconoscibili. Con un sospiro Pia chiuse il faldone e ripose gli appunti in un cassetto. Non aveva nessuna voglia di mettere i piedi in un campo fangoso.

 

Il vento ululava intorno al fienile, soffiava tra i falsi puntoni e scuoteva la porta come se volesse entrare. Tobias Sartorius non ci fece caso. Nel pomeriggio aveva telefonato a un agente immobiliare e fissato una visita di valutazione per il mercoledí della settimana seguente. Per quel giorno il cortile, il fienile e la vecchia stalla dovevano essere impeccabili. Con slancio buttò uno pneumatico dopo l’altro sul pianale del rimorchio. Le gomme erano ammucchiate a decine in un angolo; un tempo suo padre le usava per fermare i teloni con cui copriva le balle di paglia e fieno lasciate all’aperto. Ora che non c’erano piú balle, né di un tipo né dell’altro, erano solo rifiuti da eliminare.

Per tutto il giorno era stato perseguitato dall’ombra di un ricordo fuggevole, stava diventando pazzo perché non riusciva a capire cosa fosse. La sera prima, nel garage, i suoi amici avevano detto qualcosa che aveva fatto scattare un meccanismo di associazione, ma il ricordo era incastrato nel profondo della sua mente e, per quanto si sforzasse, non riusciva a portarlo in superficie. Si fermò per riprendere fiato e con l’avambraccio si asciugò la fronte sudata. Un soffio d’aria fredda gli accarezzò la pelle. Percependo un movimento con la coda dell’occhio, si girò di scatto e trasalí per lo spavento. Tre uomini vestiti di nero con il volto coperto erano appena entrati nel fienile. Uno di loro fece scorrere la pesante sbarra di ferro per bloccare la porta; quindi, immobili e muti, fissarono Tobias attraverso le fessure dei passamontagna. Si capiva cos’erano venuti a fare, nelle mani guantate stringevano tre mazze da baseball. Tobias fu attraversato da una scarica di adrenalina. Sapeva di avere davanti anche i due uomini che avevano picchiato Amelie. Erano tornati per raggiungere il loro vero scopo. Indietreggiò di qualche passo, cercando disperatamente una via d’uscita. Il fienile non aveva né finestre né una porta secondaria, però c’era una scala a pioli che portava al piano superiore! Era la sua unica possibilità. Si sforzò di non guardarla, per non tradire le proprie intenzioni. Riuscí a mantenere la calma, anche se dentro sentiva crescere la paura. Doveva arrivare alla scala prima che i tre si avvicinassero. Erano a circa cinque metri di distanza quando scattò. In pochi secondi raggiunse l’obiettivo e salí piú in fretta che poté. Mentre si arrampicava fu colpito da una violenta mazzata al polpaccio. Non provò alcun dolore, ma la gamba sinistra perse immediatamente sensibilità. Stringendo i denti, continuò a salire. Purtroppo uno degli inseguitori si dimostrò altrettanto veloce, lo afferrò per un piede e gli diede uno strattone. Tobias rimase aggrappato ai pioli e cominciò a tirare calci con l’altro piede. Si udí un grido soffocato, la mano intorno alla caviglia mollò la presa e la scala si mise a oscillare. Per un attimo annaspò nel vuoto, ma riuscí a non cadere. Mancavano solo tre pioli! Lanciando un’occhiata verso il basso si sentí come un gatto su un tronco liscio che deve sfuggire a tre rottweiler assetati di sangue. Fece appello a tutte le forze che aveva in corpo e si tirò su di un piolo; la gamba colpita era ancora insensibile, formicolava e non gli era di nessun aiuto. Arrivò in cima. Due degli inseguitori si stavano arrampicando, il terzo era sparito. Tobias si guardò intorno nella penombra. La scala era fissata alle tavole di legno, non poteva buttarla giú! Zoppicò velocemente verso il punto piú basso del tetto e con una mano spinse in alto le tegole. Ne saltò via una, poi un’altra. Continuava a guardarsi alle spalle e all’improvviso vide la testa del primo inseguitore spuntare da sotto. Merda! Il buco era ancora troppo piccolo per sgusciare fuori. Tanta fatica per niente! Si precipitò verso l’abbattifieno; qualche metro piú in basso c’era il pianale con le gomme. Con il coraggio della disperazione saltò giú. Uno degli inseguitori cambiò subito direzione e come un grosso ragno nero scese rapidamente la scala. Tobias si lasciò scivolare a terra e si accucciò nell’ombra sotto il rimorchio, tastando il pavimento in cerca di qualcosa da usare come arma di difesa. Non trovò niente. Al diavolo la mania dell’ordine! Con il cuore che martellava nel petto indugiò ancora un attimo, poi tentò il tutto per tutto e corse verso la porta.

Fu raggiunto mentre cercava di togliere la sbarra. Le mazze lo colpirono su schiena e braccia, le ginocchia cedettero. Si rannicchiò e si coprí la testa. Gli uomini mascherati continuarono ad assestare mazzate e calci senza dire una parola. Dopo un po’ gli afferrarono le braccia, le allargarono con violenza e gli sfilarono maglione e maglietta. Tobias serrò i denti per evitare di gemere o supplicare. Vide uno degli uomini fare un cappio con una corda per il bucato. Oppose una strenua resistenza, ma gli aggressori erano in superiorità numerica. Gli legarono polsi e caviglie dietro il corpo e gli infilarono il cappio. Incaprettato e del tutto impotente, Tobias dovette sopportare di essere trascinato a petto nudo sul pavimento freddo e ruvido. Raggiunta la parete opposta, gli ficcarono in bocca uno straccio puzzolente e gli coprirono gli occhi con una benda. Rimase lí, immobile e ansimante, con il cuore impazzito. La corda lo soffocava a ogni minimo movimento. Aguzzò le orecchie per cogliere qualunque rumore, ma udí solo il vento che infuriava intorno al fienile. Forse i tre erano già soddisfatti, forse non avevano intenzione di ucciderlo. Magari se n’erano già andati. La tensione diminuí leggermente, i muscoli si rilassarono. Ma fu un sollievo di breve durata. Sentí un sibilo, poi odore di vernice. Nello stesso istante ricevette un colpo in pieno viso e il naso si ruppe con un suono che gli rimbombò nella testa come uno sparo. Ora aveva le lacrime agli occhi e le narici intasate di sangue. Lo straccio in bocca quasi gli impediva di respirare. La paura tornò a impossessarsi di lui, cento volte piú forte di prima perché non poteva vedere gli aggressori, che nel frattempo avevano ricominciato con calci e mazzate. I secondi si trasformarono in ore, giorni e settimane. D’un tratto Tobias ebbe la certezza che non ne sarebbe uscito vivo.

 

Al Cavallino Nero era tutto tranquillo. Oltre ad alcuni giocatori di skat mancava anche Jörg Richter, il che aveva fatto salire il malumore della sorella a livelli record. Jenny Jagielski sarebbe dovuta andare all’asilo per la riunione con gli insegnanti, ma in assenza del fratello non se la sentiva di lasciare il locale nelle mani dei dipendenti, soprattutto perché Roswitha era malata e in sala c’era solo Amelie. Jörg Richter e l’amico Felix Pietsch arrivarono alle nove e mezza, si tolsero la giacca bagnata e si sedettero a un tavolo. Poco dopo entrarono altri due uomini che Amelie aveva visto diverse volte con il fratello della padrona. Jenny si avvicinò al tavolo con la furia di un angelo vendicatore, ma Jörg la liquidò in quattro e quattr’otto. Con le labbra serrate e il collo pieno di macchie rosse, la donna si rimise dietro il bancone.

«Quattro birre e quattro grappini!» gridò il giovane Richter.

«Col cavolo!» sibilò lei. «Quel disgraziato non merita niente».

«Ma gli altri sono nostri clienti» osservò Amelie in modo del tutto innocente.

«Hanno mai pagato?» chiese seccamente la padrona. Poi, vedendola scuotere il capo, aggiunse: «Altro che clienti! Sono solo degli scrocconi!».

Dopo un paio di minuti Jörg Richter raggiunse la sorella dietro il bancone e spillò personalmente le quattro birre. Anche lui era di pessimo umore. Ci fu un violento ma sommesso scambio di battute e Amelie non poté fare a meno di domandarsi cosa fosse successo. Nell’aria si percepiva una forte aggressività. Felix Pietsch era tutto rosso in viso, gli altri due avevano un’aria che faceva paura. I tre giocatori di skat che mancavano all’appello entrarono rumorosamente nel locale e, dirigendosi al tavolo, ordinarono cotoletta con patate arrosto, costata di manzo e Weizenbier, interrompendo cosí le riflessioni di Amelie. Dopo aver sfilato giacche e cappotti bagnati, i tre presero posto. Uno di loro, Lutz Richter, cominciò subito a raccontare qualcosa; i compagni si piegarono in avanti e ascoltarono con attenzione. Richter smise improvvisamente di parlare nel momento in cui Amelie si avvicinò con le birre e proseguí il racconto solo quando furono di nuovo soli. Lei non diede alcuna importanza allo strano comportamento di quegli uomini, col pensiero era già tornata ai disegni di Thies. Forse era meglio fare come aveva detto e tenere la bocca chiusa.

 

Entrò in casa e si tolse subito la giacca grondante e le scarpe sporche. Poi, incontrando il proprio sguardo nello specchio vicino al guardaroba, d’istinto abbassò gli occhi. Quello che avevano fatto non era giusto. Non era affatto giusto. Se Terlinden l’avesse saputo, sarebbe stata la fine. Per tutti e tre. Si spostò in cucina e nello scomparto laterale del frigorifero trovò una bottiglia di birra. Aveva i muscoli doloranti; di sicuro il giorno seguente sarebbero comparsi dei lividi su gambe e braccia. Il ragazzo si era difeso, ma inutilmente. In tre erano piú forti di lui. Udí dei passi che si avvicinavano.

«Allora?» chiese la voce di sua moglie da dietro. «Com’è andata?».

«Come programmato». Non si voltò verso di lei, prese invece l’apribottiglie dal cassetto e lo usò per la birra. Il tappo a corona saltò via con un sibilo e un orrendo plopp. Lo stesso suono che aveva sentito rompendo il naso di Tobias Sartorius con un pugno.

«È…» cominciò lei, lasciando però la domanda a metà.

«Probabilmente» rispose, girandosi e guardandola negli occhi. Dopodiché si sedette su una sedia sgangherata e scricchiolante e mandò giú un sorso di birra. Faceva schifo. Per come la pensavano gli altri il ragazzo avrebbe anche potuto soffocare, ma lui non se l’era sentita di stare al loro gioco e cosí, senza che se ne accorgessero, gli aveva sfilato rapidamente lo straccio dalla bocca. «In ogni caso gli abbiamo dato una lezione».

Sua moglie inarcò le sopracciglia e lo costrinse a distogliere lo sguardo.

«Una lezione, eh? Bella roba!» commentò sprezzante.

All’improvviso gli tornò in mente il modo in cui Tobias li aveva guardati, la paura della morte dipinta sul suo volto. Era riuscito a colpirlo solo dopo che gli avevano coperto gli occhi. In quel momento si era odiato per la propria debolezza e aveva impiegato tutta la forza di cui disponeva per assestare calci e mazzate. Ora se ne vergognava. No, quello che avevano fatto non era giusto!

«Rammolliti» aggiunse lei. A fatica riuscí a trattenere la rabbia che gli stava montando dentro. Che cosa voleva sua moglie? Che uccidesse un uomo? Un vicino? L’ultima cosa di cui avevano bisogno era un paese pieno di poliziotti che ficcavano il naso ovunque e facevano stupide domande! C’erano troppi segreti da custodire.

 

Hartmut Sartorius si svegliò poco dopo la mezzanotte. Il televisore era ancora acceso. Sullo schermo le brutali immagini di un horror in cui ragazzini urlanti con gli occhi sbarrati per la paura fuggivano da uno psicopatico mascherato che li faceva a pezzi uno dopo l’altro con ascia e motosega. Mezzo addormentato cercò il telecomando e spense l’apparecchio; poi, ignorando il dolore alle ginocchia, si mise in piedi. In cucina trovò la luce accesa; la padella con dentro la cotoletta e le patate arrosto era sul fornello, coperta e intatta. Guardò l’orologio alla parete e vide che era tardissimo. La giacca di Tobias non era nell’armadio, ma la chiave della macchina era nel portaoggetti sotto lo specchio. Di sicuro non se n’era andato. Però stava davvero esagerando con le pulizie. Voleva sistemare tutta la proprietà per poterla presentare in condizioni perfette all’agente che sarebbe venuto la settimana successiva. Hartmut Sartorius aveva accolto di buon grado ogni proposta del figlio, ma sapeva che la faccenda dell’agente immobiliare andava discussa con Claudius. In fondo la casa, il cortile e tutto il resto appartenevano a lui, anche se Tobias non lo voleva accettare. Dopo essere andato in bagno, tornò in cucina e si sedette al tavolo per fumare una sigaretta. Ormai era l’una meno venti. Con un sospiro si alzò, raggiunse il corridoio e si mise addosso il vecchio cardigan, aprí la porta e uscí nella notte fredda. Il faretto sull’angolo della casa rimase spento, il che lo stupí non poco; solo tre giorni prima Tobias aveva installato un rilevatore di movimento. Anche la stalla e il fienile erano immersi nell’oscurità. L’auto e il trattore, però, erano al loro posto. Forse il ragazzo era andato dai suoi amici. Nel momento in cui tentò di accendere la luce nella stalla cominciò a provare una strana sensazione. L’interruttore vicino alla porta si muoveva, ma senza produrre alcun risultato. Sperava solo che a Tobias non fosse successo nulla, mentre lui dormiva saporitamente davanti al televisore! Entrò nella stanza dove un tempo si lavorava il latte e dove era ancora situato il quadro elettrico. La stanza era collegata alla casa, quindi la luce funzionava. Nel quadro erano saltati tre interruttori. Non appena li sistemò, i faretti sopra la porta della stalla e all’ingresso del fienile si accesero. Hartmut Sartorius uscí di nuovo in cortile ed entrando con le ciabatte di feltro in una pozzanghera si lasciò sfuggire un’imprecazione a mezza voce.

«Tobias?». Si fermò, tese l’orecchio. Niente. La stalla era deserta, nessuna traccia di suo figlio. Proseguí la ricerca. Il vento gli scompigliava i capelli e s’insinuava nelle maglie del cardigan. Faceva un freddo cane. Le nubi si erano squarciate, a pezzetti passavano veloci davanti alla mezzaluna che splendeva in cielo. Nel chiarore i tre grandi contenitori sistemati piú su, l’uno accanto all’altro, sembravano minacciosi carri armati. La sensazione che qualcosa non andasse divenne piú forte quando vide che la porta del fienile era mezza aperta e oscillava cigolando. Riuscí ad afferrarla, ma alla prima folata di vento la porta quasi si liberò, come fosse dotata di vita propria. Per chiuderla dovette tirare con tutte le forze. Il faretto all’esterno si spense subito, ma Hartmut Sartorius conosceva benissimo la proprietà e poteva muoversi anche al buio. Ci mise un attimo a trovare l’interruttore.

«Tobias!».

I tubi al neon s’illuminarono con un ronzio e sulla parete apparve una scritta rossa:

 

UOMO AVISATO MEZZO SALVATO

 

Per un istante la sua attenzione si concentrò sull’errore di ortografia, poi si accorse della figura sul pavimento. Lo shock fu violentissimo, tanto che cominciò a tremare. Si avvicinò barcollando, poi cadde in ginocchio e guardò con orrore lo spettacolo che aveva davanti. Le lacrime gli offuscarono la vista. Tobias aveva mani e piedi legati, una benda sugli occhi e una corda intorno al collo talmente stretta da segare la carne. Sul viso e sulla parte superiore del corpo erano ben visibili i segni di un feroce pestaggio. Doveva essere successo qualche ora prima perché il sangue era già colato dappertutto.

«Mio Dio, Tobi, Tobi!». Cercando di controllare le dita tremanti, Hartmut Sartorius si mise a sciogliere i nodi. Sulla schiena nuda c’era una parola scritta con lo spray rosso:

 

ASSASSINO!

 

Gli posò le mani sulle spalle e rabbrividí. La pelle di Tobias era ghiacciata.