Martedí, 18 novembre 2008
Sedeva alla scrivania con davanti il giornale aperto. Ad Altenhain era scomparsa un’altra ragazza, a pochi giorni dal ritrovamento dei resti di Laura Wagner. Sapendo che dalla sala transazioni e dalla sua anticamera chiunque poteva guardare attraverso le pareti di vetro dell’ufficio, Lars Terlinden non cedette all’impulso di nascondere il viso tra le mani. Se solo non fosse tornato in Germania! Spinto dal desiderio di guadagnare di piú, due anni prima aveva lasciato Londra e un lavoro ben retribuito come collocatore di derivati per trasferirsi a Francoforte e diventare dirigente di una grande banca svizzera. Dato che all’epoca aveva solo ventotto anni, la notizia aveva suscitato clamore. Sembrava che all’”enfant prodige tedesco” – cosí era stato definito dal Wall Street Journal – dovesse andare tutto bene e col tempo si era convinto di essere il migliore. Ora, dopo essersi scontrato con la dura realtà, doveva anche guardare in faccia il passato e accettare le conseguenze della propria vigliaccheria. Fece un gran sospiro. Era stato il suo errore piú tragico. La sera della festa li aveva seguiti di nascosto, animato dal folle desiderio di confessare il proprio amore a Laura. Se solo fosse rimasto dov’era! Se non… Scosse la testa, ripiegò velocemente il giornale e lo buttò nel cestino della carta. Rivangare il passato era inutile. Doveva concentrarsi sui problemi del presente. La posta in gioco era troppo alta, non poteva lasciarsi distrarre da vecchie storie. Aveva una famiglia e un’infinità di spese difficili da sostenere in un periodo di crisi economica: doveva finire di pagare l’enorme villa nel Taunus e la finca a Maiorca; inoltre ogni mese aveva le rate del leasing per la propria Ferrari e per il fuoristrada della moglie. Sí, era caduto in una spirale, proprio come allora. Una spirale che, sempre piú chiaramente, lo stava risucchiando verso il basso a velocità incredibile. Accidenti ad Altenhain!
Da tre ore Tobias Sartorius era seduto davanti all’edificio di Karpfenweg e fissava l’acqua del bacino portuale. Non si lasciava disturbare né dal freddo pungente né dalle occhiate perplesse degli abitanti, che passando guardavano con sospetto il suo viso deturpato. A casa non ce la faceva piú e Nadja era l’unica con cui potesse sfogarsi. Doveva assolutamente parlare con qualcuno, altrimenti sarebbe esploso. Amelie era scomparsa e ad Altenhain era in corso una gigantesca operazione di ricerca, i poliziotti stavano rivoltando ogni pietra, proprio come undici anni prima. Tobias si sentiva innocente, esattamente come allora, ma il dubbio lo stava rosicchiando dall’interno con i suoi denti aguzzi. Maledetto alcol! Non ne avrebbe piú bevuto neanche un goccio. Sentí un rumore di tacchi, alzò lo sguardo e vide Nadja. Si stava avvicinando a passo svelto con il cellulare attaccato all’orecchio. All’improvviso si chiese se l’amica lo avrebbe accolto a braccia aperte. Mentre la guardava, fu assalito come sempre da un’opprimente sensazione di inadeguatezza. Con la faccia ammaccata e la solita giacca di pelle misera e logora sembrava un barbone. Forse era meglio sparire e non farsi piú vedere.
«Tobi!». Nadja mise via il telefono e affrettò il passo con espressione inorridita. «Cosa fai qui al freddo?».
«Amelie è scomparsa e la polizia è venuta subito da me».
Si alzò a fatica. Aveva le gambe ghiacciate e la schiena dolorante.
«Perché?» domandò lei.
Tobias si sfregò le mani e ci soffiò sopra.
«Be’, assassino una volta, assassino per sempre. Inoltre non ho un alibi per le ore in cui Amelie è scomparsa».
Nadja lo fissò. «Dai, entriamo». Tirò fuori la chiave e aprí la porta di casa. Lui la seguí camminando rigido.
«Dov’eri?» chiese, mentre salivano all’ultimo piano con l’ascensore a vetri. «Ti ho aspettato un paio d’ore».
«Lo sai, ero ad Amburgo» rispose lei, scuotendo la testa e toccandogli una mano con aria preoccupata. «Dovresti comprarti un telefonino».
All’improvviso ricordò che sabato Nadja aveva preso un aereo per andare a girare ad Amburgo. Dopo averlo aiutato a sfilarsi la giacca, la ragazza lo spinse in cucina.
«Siediti» disse. «Ti faccio subito un caffè, cosí ti scaldi. Guarda come sei ridotto!».
Abbandonò il cappotto sullo schienale di una sedia. Nello stesso momento scattò la suoneria polifonica del cellulare, ma lei non ci fece caso e si mise ad armeggiare con la macchina per l’espresso.
«Sono preoccupato per Amelie» confessò Tobias. «Mi chiedo cos’ha scoperto e con chi ne ha parlato. Se le è successo qualcosa, forse è colpa mia. Stava cercando di aiutarmi».
«Non l’hai costretta tu a scavare nel passato». Nadja posò due tazze di caffè sul tavolo, prese il latte dal frigorifero e si sedette di fronte a lui. Era struccata e aveva due ombre viola sotto gli occhi. Sembrava stanca.
«Su, bevi il caffè». Gli prese di nuovo la mano. «Poi ti infili nella vasca e ti fai un bel bagno caldo».
Merda, perché non riusciva a capire? Non aveva bisogno di un caffè e di un bagno caldo! Voleva sentirle dire che sicuramente era innocente, voleva ragionare con lei su quello che poteva essere successo ad Amelie. Invece Nadja continuava a parlare di caffè e di scaldarsi, come se fossero cose importanti!
Il cellulare stava ancora suonando; dopo un attimo si zittí e squillò il telefono di casa. Nadja si alzò con un sospiro e andò a rispondere. Tobias rimase seduto, lo sguardo fisso sul tavolo. Anche se sapeva di non aver convinto il poliziotto con cui aveva parlato, si preoccupava piú per Amelie che per la propria posizione. Nadja tornò in cucina, si fermò alle sue spalle e gli mise le braccia intorno al collo. Gli baciò l’orecchio e la guancia non rasata. Tobias dovette fare uno sforzo per non respingerla in modo brusco. Non era dell’umore giusto per le tenerezze. Possibile che non lo vedesse? Con la pelle d’oca lasciò che Nadja passasse l’indice sul segno lasciato dal cappio, poi la prese per il polso e spostando indietro la sedia la fece sedere sulle sue gambe.
«Sabato sera ero con Jörg, Felix e un altro paio di amici nel garage dello zio di Jörg» sussurrò tutto d’un fiato. «Abbiamo bevuto. Prima birra, poi Red Bull con vodka. Sono partito completamente. Domenica pomeriggio, quando mi sono svegliato, avevo i postumi di una sbronza terribile e non ricordavo piú niente».
Lei lo guardò fisso negli occhi da pochi centimetri di distanza.
«Mmh». Non disse altro, ma Tobias capí subito a che cosa stava pensando.
«Non ti fidi di me!» esclamò, spingendola via. «Credi che abbia… ucciso tutte e tre! Amelie, Laura e Stefanie! È cosí, vero?».
«No! Non è affatto cosí!» replicò Nadja. «Perché avresti dovuto fare del male ad Amelie? Voleva aiutarti!».
«Già. In effetti non lo capisco neanch’io». Si alzò dalla sedia, si appoggiò al frigorifero e si passò una mano tra i capelli. «Fatto sta che non ricordo niente di quello che è successo tra le nove e mezza di sabato sera e le quattro di domenica pomeriggio. Potrei aver fatto qualunque cosa. Anche gli sbirri la pensano cosí. Tra l’altro Amelie ha provato a chiamarmi diverse volte. Mio padre dice che sono tornato a casa all’una e mezza di notte con la dottoressa Lauterbach, che mi ha trovato completamente ubriaco alla fermata dell’autobus davanti alla chiesa».
«Oh merda!». Nadja si mise seduta.
«Puoi dirlo forte». Tobias si rilassò leggermente, prese le sigarette dal tavolo e ne accese una. «Gli sbirri mi hanno chiesto di rimanere a disposizione».
«Perché?».
«Perché sospettano di me, è ovvio».
«Ma… non possono farlo».
«Certo che possono. L’hanno già fatto una volta. E mi è costato dieci anni».
Aspirando il fumo della sigaretta, fissò l’oscurità grigia e nebbiosa alle spalle di Nadja. Il bel tempo era durato poco, novembre stava mostrando il suo volto meno piacevole. Una pioggia fitta scendeva da nuvole basse e scure, battendo sui grandi vetri. Del Friedensbrücke si intravedeva soltanto la sagoma.
«Dev’essere stato qualcuno che conosce la verità» disse, prendendo la tazza di caffè.
«Cioè?». Lei lo osservò con la testa inclinata. Tobias levò gli occhi al cielo; il suo atteggiamento calmo e controllato era davvero irritante. «Sto parlando di Amelie» spiegò, e per un istante ebbe l’impressione che le sopracciglia di Nadja si inarcassero. «Sono sicuro che ha scoperto qualcosa di pericoloso. Se non ho capito male, Thies le ha dato alcuni disegni. Purtroppo non so di che tipo. Non è riuscita a dirmelo. Forse qualcuno ha visto in lei una minaccia».
L’alto cancello con le punte dorate che dava accesso alla proprietà dei Terlinden era chiuso e suonare ripetutamente non serví a nulla. Si muoveva solo la piccola telecamera che, con la spia rossa accesa, seguiva ogni movimento. Pia alzò le spalle per segnalare al suo capo, seduto in macchina con il telefonino all’orecchio, che non c’era niente da fare. Avevano già tentato inutilmente di parlare con Claudius Terlinden nella sua azienda. La segretaria aveva detto che purtroppo, per un problema personale, l’uomo non si era recato in ufficio.
«Andiamo dai Sartorius». Bodenstein avviò il motore e fece retromarcia per girare. «Claudius Terlinden può attendere».
Passando davanti al cancello posteriore dei Sartorius videro che il cortile pullulava di agenti. Avevano ottenuto il mandato di perquisizione senza alcuna difficoltà. Kathrin Fachinger aveva chiamato Pia la sera precedente, a tarda ora, per informarla. Ma soprattutto voleva raccontarle com’era andata con quelli degli affari interni. Pareva che Behnke non potesse piú sperare nell’indulgenza di cui aveva goduto per tanto tempo; anche il tentativo di Bodenstein di intervenire a suo favore non era servito a niente. Non avendo chiesto l’autorizzazione per il secondo lavoro, il collega sarebbe senz’altro andato incontro a un provvedimento disciplinare, a una nota di demerito e molto probabilmente a una retrocessione. Inoltre la dottoressa Engel gli aveva detto chiaro e tondo che in caso di comportamento scorretto o di minacce nei confronti della collega Fachinger sarebbe stato immediatamente sospeso dal servizio. Dal canto suo, Pia sapeva che non avrebbe mai presentato un reclamo ufficiale contro di lui. Vigliaccheria o lealtà verso i colleghi? In realtà ammirava Kathrin per il coraggio dimostrato nel denunciare Behnke ai superiori. Evidentemente in ufficio l’avevano sottovalutata.
Il parcheggio del Gallo d’Oro, di solito deserto, era pieno di veicoli della polizia. Nonostante la pioggia, sul marciapiede di fronte si era radunato un gruppetto di curiosi, sei o sette anziani che non avevano niente di meglio da fare. Bodenstein e Pia uscirono dalla macchina e videro Hartmut Sartorius impegnato a sfregare la brusca sulla facciata dell’ex trattoria per rimuovere un’altra scritta. Purtroppo era un’impresa senza speranza. Le parole si leggevano ancora benissimo:
ATTENZIONE, QUI ABITA UN ASSASSINO!
«Non riuscirà mai a toglierla con acqua e sapone» disse Bodenstein. L’uomo si voltò, mostrando gli occhi pieni di lacrime. Con i capelli bagnati e il grembiule blu mezzo fradicio era l’immagine del dolore.
«Perché non ci lasciate in pace?» chiese disperato. «Una volta eravamo tutti amici, i nostri figli giocavano insieme. Ora c’è solo odio!».
«Venga, entriamo in casa» suggerí delicatamente Pia. «Poi le manderemo qualcuno che pulisca il muro».
Sartorius lasciò cadere la brusca nel secchio. «I vostri uomini stanno mettendo tutto a soqquadro» replicò in tono accusatorio. «In paese non si parla d’altro. Si può sapere cosa volete da mio figlio?».
«È qui?».
«No». Si strinse nelle spalle. «Non so dov’è andato. Non so piú niente».
Per un attimo fissò il vuoto, poi, all’improvviso e con una furia che sorprese entrambi, prese il secchio e attraversò di corsa il parcheggio. Sembrò crescere davanti ai loro occhi, trasformandosi nell’uomo che era stato un tempo.
«Andatevene, stronzi!» gridò, lanciando il secchio con la saponata calda contro la gente che si era raccolta dall’altra parte della strada. «Sparite! Lasciateci in pace!».
Di colpo la voce s’incrinò. Stava per scagliarsi contro i curiosi, ma Bodenstein lo afferrò per un braccio e le forze lo abbandonarono all’istante. Mentre il commissario stringeva la presa, Sartorius si sgonfiò come un palloncino che perde aria.
«Scusate» sussurrò. Poi sul suo volto apparve un sorriso incerto. «Avrei dovuto farlo tanto tempo fa».
Dato che la casa era invasa dagli agenti della scientifica, Hartmut Sartorius aprí con la chiave la porta posteriore della trattoria e condusse Pia e Bodenstein in una grande sala in stile rustico dove sembrava tutto pronto per la riapertura serale. Le sedie erano appoggiate sui tavoli, per terra non c’era neanche un granello di polvere, i menu rilegati in similpelle formavano una pila ordinata vicino alla cassa. Il bancone era tirato a lucido, lo spillatore per la birra splendeva, gli sgabelli sembravano perfettamente allineati. Pia si guardò intorno e rabbrividí. Pareva che il tempo si fosse fermato.
«Vengo qui tutti i giorni» spiegò Sartorius. «In questa trattoria hanno lavorato i miei genitori e prima ancora i miei nonni. Non ce la faccio a buttare via tutto».
Si avvicinò a un tavolo rotondo non lontano dal bancone, tirò giú le sedie e con un cenno della mano invitò Pia e Bodenstein a prendere posto.
«Posso offrirvi qualcosa da bere? Un caffè?».
«Sí, grazie» rispose il commissario, sorridendo. Sartorius si mise subito a trafficare al suo posto di lavoro: prese le tazze dal mobile, versò i chicchi di caffè nella macchina… Movimenti che in passato aveva ripetuto mille volte e che gli davano sicurezza. Cominciò a raccontare vivacemente di quando ancora macellava, cucinava e preparava il sidro.
«I clienti arrivavano fin da Francoforte» disse con una sfumatura d’orgoglio impossibile da ignorare. «Venivano qui anche solo per il nostro sidro fatto in casa. Non potete neanche immaginare com’era. Di sopra, nella sala principale, si festeggiava tutte le settimane. Quando c’erano ancora i miei genitori, offrivamo cinema, incontri di boxe e tanto altro. In quegli anni nessuno aveva la macchina, quindi venivano tutti qui a mangiare».
Bodenstein e Pia si guardarono in silenzio. Nel suo regno Hartmut Sartorius era di nuovo il capo, l’uomo che si occupava premurosamente dei clienti e si arrabbiava per le scritte sulla facciata, non piú il vecchio stanco e avvilito che era diventato negli ultimi dieci anni. All’improvviso Pia capí qual era la vera portata della sua perdita e provò per lui un’immensa compassione. Fino a poco prima avrebbe voluto chiedergli perché non se n’era andato da Altenhain dopo i tragici fatti del 1997, ma ormai la domanda era superflua. Hartmut Sartorius era saldamente ancorato al paese in cui la sua famiglia viveva da generazioni, proprio come il castagno nel cortile era ancorato al terreno.
«Avete fatto pulizia anche fuori» osservò Bodenstein. «Sarà stata una bella fatica».
«Veramente è stato Tobias» replicò Sartorius. «Vuole che venda tutto. In effetti sarebbe la cosa migliore, qui non riusciremo piú a combinare niente. Il problema è che questa proprietà non è piú mia».
«Ah no?».
«Avevamo bisogno di soldi per l’avvocato di Tobias» chiarí prontamente l’uomo. «Le sue richieste andavano ben oltre le nostre possibilità. Oltretutto ci eravamo già indebitati per acquistare una nuova cucina, un trattore e altre cose. Sono riuscito a pagare le rate per tre anni, poi… Non avevo piú clienti, ho dovuto chiudere il locale. Per fortuna si è fatto avanti Claudius, altrimenti saremmo finiti in mezzo a una strada dall’oggi al domani».
«Claudius Terlinden?» domandò Pia, tirando fuori il taccuino. Di colpo capí a cosa si riferiva Andrea Wagner quando aveva detto di non volersi trovare nella stessa situazione dei Sartorius. Piuttosto che dipendere da Claudius Terlinden, preferiva andare a lavorare.
«Sí. Claudius è stato l’unico ad aiutarci. Ha procurato un buon avvocato a Tobias e poi è andato regolarmente a fargli visita in prigione».
«Ah».
«La famiglia Terlinden vive qui da tanto tempo, come la nostra. Il bisnonno di Claudius era il fabbro del paese. A un certo punto, grazie a un’invenzione, è riuscito a mettere su un’officina. Il nonno di Claudius l’ha poi trasformata in una vera e propria azienda e ha anche deciso la costruzione della villa vicino al bosco. I Terlinden sono sempre stati molto impegnati a livello sociale. Hanno fatto molto per il paese, i loro dipendenti e le rispettive famiglie. Ormai potrebbero farne a meno, eppure Claudius è sempre disponibile per tutti. Dà una mano a chiunque ne abbia bisogno. Senza il suo aiuto le associazioni di Altenhain sarebbero finite. Un paio d’anni fa ha donato una nuova autopompa ai vigili del fuoco, inoltre è presidente del circolo sportivo e sponsor della prima e della seconda squadra di calcio. Ah, gli dobbiamo anche il campo in erba sintetica».
S’interruppe e guardò davanti a sé con aria trasognata; Bodenstein e Pia evitarono però di interferire con il flusso dei suoi pensieri. Dopo un attimo Sartorius ricominciò a parlare.
«Claudius ha offerto un lavoro anche a mio figlio. Per aiutarlo finché non avesse trovato qualcos’altro. Dopotutto Tobias era il miglior amico di Lars. Il figlio di Claudius veniva spesso da noi, faceva quasi parte della famiglia. E Tobias era di casa dai Terlinden».
«Lars…» ripeté Pia. «È il figlio ritardato, giusto?».
«No». Sartorius scosse energicamente la testa. «Quello è Thies, il piú grande. E comunque non è ritardato, è autistico».
«Se non ricordo male» intervenne Bodenstein, che con l’aiuto della collega si era informato sul vecchio caso, «dieci anni fa fu tirato in ballo anche Claudius Terlinden. Tobias sollevò il dubbio che ci fosse qualcosa tra lui e Laura. Non è possibile che Terlinden non se la sia presa».
«Non credo che tra Laura e Claudius ci sia mai stato qualcosa» disse Sartorius, dopo aver riflettuto per qualche secondo. «Lei era molto carina e un po’ sfacciata. Frequentava la villa dei Terlinden perché sua madre ci lavorava come governante. Aveva raccontato a Tobias che Claudius le andava dietro, solo per farlo ingelosire. C’era rimasta molto male quando mio figlio l’aveva lasciata. Ma riconquistarlo era impossibile, ormai Tobias aveva occhi solo per Stefanie. Be’, lei era tutta un’altra cosa. Era una giovane donna, bellissima e sicura di sé».
«Biancaneve» aggiunse Pia.
«Sí, hanno cominciato a chiamarla cosí dopo che ha ottenuto il ruolo nella recita».
«Quale recita?» domandò Bodenstein.
«Quella organizzata dal gruppo di teatro della scuola. Le altre ragazze morivano d’invidia. Stefanie era l’ultima arrivata e aveva già ottenuto l’ambitissima parte della protagonista».
«Ma Laura e Stefanie erano amiche, no?» chiese Pia.
«Loro due e Nathalie erano in classe assieme. Andavano d’accordo. Facevano anche parte della stessa compagnia». Hartmut Sartorius si abbandonò ai dolci ricordi di quel periodo.
«Da chi era formata la compagnia?».
«Laura, Nathalie e i ragazzi. Tobias, Jörg, Felix, Michael e gli altri. Stefanie aveva cominciato a uscire con loro appena trasferitasi ad Altenhain».
«E Tobias aveva chiuso con Laura per mettersi con lei?».
«Sí».
«Poi, però, Stefanie l’ha mollato. Perché?».
«Non ne ho idea». L’uomo si strinse nelle spalle. «Chi può sapere cosa passa nella testa dei giovani? Pare avesse una cotta per il suo insegnante».
«Gregor Lauterbach?».
«Esatto». Si oscurò in volto. «In tribunale hanno usato questa storia per incastrare mio figlio. Hanno detto che era geloso del professore e quindi ha… ucciso Stefanie. Ma è una cosa assurda».
«Chi ebbe la parte della protagonista dopo che Stefanie sparí?».
«Se non sbaglio, Nathalie».
Pia lanciò un’occhiata a Bodenstein.
«Nathalie, o meglio Nadja… non ha mai voltato le spalle a suo figlio. È ancora sua amica. Perché?».
«Gli Unger abitano proprio qui accanto» spiegò Sartorius. «Tobias considerava Nathalie come una sorella minore. Crescendo era diventata la sua migliore amica, la sua… complice. Non era capricciosa come le altre ragazze, anzi era un vero maschiaccio. La compagna ideale. Tobias e i suoi amici l’hanno sempre trattata come un ragazzo, perché non si tirava mai indietro. Correva col motorino, si arrampicava sugli alberi e da piccola faceva anche a botte».
«Torniamo a Claudius Terlinden» disse Bodenstein, ma non poté continuare perché la porta socchiusa si aprí e nella sala entrò Behnke accompagnato da due agenti. Quella stessa mattina il commissario capo gli aveva chiesto di dirigere la perquisizione. Behnke si piazzò davanti al tavolo e gli altri due si fermarono alle sue spalle, uno per parte.
«Nella stanza di suo figlio abbiamo trovato qualcosa di interessante, signor Sartorius».
Pia fu colpita dalla piega arrogante della bocca e dall’espressione di trionfo che aveva negli occhi. In situazioni del genere faceva pesare con piacere la superiorità derivante dalla carica di commissario. Un comportamento meschino, che Pia detestava profondamente.
Come per magia, Sartorius si afflosciò.
«Questo» proseguí Behnke senza staccare gli occhi dal padre di Tobias, «era nella tasca posteriore di un paio di jeans trovati in camera». Allargò le narici, pregustando la vittoria. «È di suo figlio? No, non credo proprio. Guardi, dietro ci sono delle iniziali scritte col pennarello».
Bodenstein tossicchiò irritato e allungò la mano, facendo un movimento perentorio con l’indice. Pia avrebbe voluto baciarlo; dovette sforzarsi al massimo per non sorridere. Senza tante parole il commissario capo aveva rimesso in riga il collega, per di piú davanti agli uomini della scientifica. Digrignando i denti, Behnke gli consegnò controvoglia la busta di plastica con il bottino.
«Grazie» fece Bodenstein senza neanche guardarlo. «Potete andare».
Behnke diventò improvvisamente pallido, poi il suo viso magro s’infiammò per la rabbia. Il primo che avesse commesso un errore davanti ai suoi occhi sarebbe senz’altro finito male! Pia incrociò il suo sguardo, ma riuscí a conservare un’espressione totalmente distaccata. Corrugando la fronte, Bodenstein osservò attentamente l’oggetto nella busta.
«Sembrerebbe il cellulare di Amelie Fröhlich» disse con tono serio, dopo che Behnke e gli altri due se ne furono andati. «Come può essere finito nella tasca di suo figlio?».
Hartmut Sartorius sbiancò e scosse la testa.
«Io… non ne ho idea» sussurrò confuso. «Non ne ho proprio idea».
Il cellulare suonava e vibrava, ma Nadja si limitò a dare una rapida occhiata al display.
«Ti conviene rispondere» suggerí Tobias, che cominciava a innervosirsi. «È ovvio che non ha nessuna intenzione di smettere».
Lei prese il telefono e accettò la chiamata. «Hartmut…». Il suo sguardo si posò di nuovo su Tobias, che si raddrizzò di colpo sulla sedia. Cosa voleva suo padre da Nadja?
«Ah… Sí… Ho capito». Continuò ad ascoltare, guardandolo negli occhi. «No, purtroppo non è qui… No, non so dove può essere. Sono appena tornata da Amburgo… Sí, certo, se si fa vivo… Glielo dirò senz’altro».
Alla fine della telefonata ci fu un momento di silenzio.
«Hai mentito» osservò Tobias. «Perché?».
Nadja non rispose subito, ma abbassò gli occhi e fece un sospiro. Quando rialzò lo sguardo, stava lottando per trattenere le lacrime.
«La polizia sta perquisendo la vostra casa» spiegò con una forte tensione nella voce. «Vogliono parlare con te».
Una perquisizione? Per quale motivo? Tobias scattò in piedi. Non poteva abbandonare suo padre in una situazione simile. Ne aveva già passate tante. Troppe.
«Ti prego, Tobi, non andare! Non… non permetterò che ti arrestino un’altra volta!».
«Chi ti dice che vogliano arrestarmi?» replicò lui, sorpreso. «Probabilmente vogliono solo farmi qualche domanda».
«No!». Nadja si alzò bruscamente, facendo cadere la sedia sul pavimento di granito. Sembrava disperata. Ormai le lacrime le sgorgavano copiose.
«Si può sapere cos’hai?».
Lei gli si gettò al collo e lo strinse forte. Tobias non riusciva a spiegarsi il suo comportamento, ma le accarezzò la schiena e la tenne tra le braccia.
«Hanno trovato il cellulare di Amelie in una tasca dei tuoi pantaloni» aggiunse Nadja con voce soffocata. Tobias rimase a bocca aperta. Sconvolto, si liberò dall’abbraccio. Doveva trattarsi di un errore! Com’era possibile che il cellulare di Amelie fosse finito nei suoi jeans?
«Non andare» supplicò lei. «Vieni via con me! Nascondiamoci da qualche parte finché non sarà tutto risolto!».
Tobias continuò a guardare dritto davanti a sé. Con i pugni che si aprivano e si chiudevano, tentò faticosamente di riprendersi dallo shock. Cos’era successo nelle ore di cui non aveva nessun ricordo?
«Ti arresteranno!» insistette Nadja, recuperando in parte il controllo e asciugandosi una guancia con il dorso della mano. «Lo sai anche tu! Non avrai nessuna possibilità di cavartela».
Era vero, lo sapeva. I fatti si stavano ripetendo in maniera inquietante. Dieci anni prima la collana di Laura, trovata nel locale dove si lavorava il latte, era diventata un pesante indizio a suo carico. Sentí un brivido di paura corrergli lungo la schiena e si lasciò cadere sulla sedia. Era indubbiamente il colpevole ideale. Avrebbero sfruttato il ritrovamento del cellulare di Amelie nella tasca dei jeans per mettergli un bel cappio al collo non appena si fosse fatto vedere. All’improvviso tutti i dubbi di un tempo tornarono ad assalirlo, come un pus velenoso strisciarono in ogni parte del suo corpo e in ogni piega del suo cervello. Assassino, assassino, assassino! Gliel’avevano ripetuto cosí tante volte che alla fine si era convinto di essere davvero un omicida. Posò gli occhi su Nadja.
«Okay» mormorò con voce roca. «Rimango qui. Ma… se fossi stato io?».
«Non una parola sul cellulare, né con i giornalisti né con nessun altro!» ordinò Bodenstein. Tutti gli agenti che avevano partecipato alla perquisizione si erano radunati sotto l’arco d’ingresso. Pioveva a dirotto. Nelle ultime ventiquatt’ore la temperatura era diminuita di circa dieci gradi, e insieme alla pioggia scendevano anche i primi fiocchi di neve.
Behnke si ribellò. «Perché dovremmo tacere? Quel tipo se la dà a gambe e noi stiamo qui a fare la figura degli idioti!».
«Non voglio scatenare una caccia alle streghe» replicò Bodenstein. «In paese l’atmosfera è già abbastanza tesa. Silenzio assoluto finché non avrò parlato con Tobias Sartorius. È chiaro?».
Gli agenti annuirono. Tutti tranne Behnke, che incrociò le braccia e scrollò la testa con aria di sfida. L’umiliazione di prima gli bruciava dentro come una miccia, Bodenstein ne era ben consapevole. Tra l’altro Behnke aveva ormai capito per quale motivo era stato affiancato alla scientifica: era una punizione. Il commissario capo era stato chiaro durante il colloquio privato, aveva detto senza mezzi termini che era molto deluso per il modo in cui la sua fiducia era stata tradita. Negli ultimi dodici anni aveva fatto tutto il possibile per risolvere i guai in cui Behnke si cacciava di continuo a causa del suo temperamento esplosivo. Ora non intendeva piú coprirlo, su questo non aveva lasciato alcun dubbio. I problemi personali non bastavano a giustificare una violazione delle regole. Se Behnke non avesse rispettato l’ordine del silenzio, nessuno avrebbe piú potuto salvarlo da una bella sospensione. Bodenstein si voltò e a passo veloce seguí Pia fino all’auto.
«Dirama un ordine di ricerca per Tobias Sartorius». Mise in moto la macchina, ma non partí. «Merda! Ero sicuro che nella proprietà avremmo trovato altre tracce della ragazza».
«Credi sia stato lui, vero?». Pia prese il telefonino e chiamò Ostermann. I tergicristalli sfregavano il parabrezza, il condizionatore andava al massimo per scaldare l’abitacolo. Bodenstein si morse il labbro inferiore. A dire il vero non ci capiva niente. Ogni volta che tentava di concentrarsi sul caso, con l’occhio della mente vedeva Cosima completamente nuda che si rotolava tra le lenzuola con un altro uomo. Forse l’aveva incontrato anche il giorno prima. Quand’era tornato a casa, a tarda sera, lei era già a letto che dormiva. Aveva approfittato dell’occasione per controllare di nuovo il suo cellulare e aveva scoperto che l’elenco delle chiamate e i messaggi erano stati cancellati. Per la prima volta non aveva provato alcun senso di colpa, neanche mentre frugava nella borsa e nelle tasche del cappotto. Stava per scacciare nuovamente i sospetti quando nel portafoglio, tra due carte di credito, aveva trovato un paio di preservativi.
«Oliver!». La voce di Pia lo fece trasalire. «Kai ha trovato qualcosa nel diario. Amelie era convinta che il suo vicino l’aspettasse tutte le mattina per accompagnarla alla fermata dell’autobus».
«E allora?».
«Il vicino è Claudius Terlinden».
Bodenstein non capiva dove volesse andare a parare. Non riusciva a usare la testa. Aveva troppi pensieri, non era in grado di condurre le indagini.
«Dobbiamo parlare con lui» aggiunse Pia con una certa impazienza. «Sappiamo troppo poco della ragazza, non possiamo concentrare tutti i nostri sospetti su Tobias Sartorius».
«Hai ragione». Il commissario ingranò la retromarcia e uscí dal parcheggio.
«Attento! L’autobus!». Troppo tardi. Stridio di freni, rumore di metallo contro metallo. La macchina fu scossa da un violento urto e Bodenstein picchiò la testa contro il finestrino.
«Fantastico!». Pia si slacciò la cintura e scese. Lui, un po’ intontito per il colpo, lanciò un’occhiata dietro le spalle e, attraverso il lunotto bagnato dalla pioggia, vide il grosso veicolo. Poi sentí qualcosa di caldo colargli lungo il viso, si toccò la guancia e fissò incredulo il sangue sulle dita. Di colpo capí cos’era successo. Non aveva nessuna voglia di uscire sotto la pioggia e discutere in mezzo alla strada con un autista infuriato. Sentiva la nausea al solo pensiero. Anzi, sentiva la nausea e basta. La portiera si aprí.
«Mio Dio, stai sanguinando!». Pia sembrava spaventata, ma all’improvviso scoppiò a ridere. Dietro di lei c’era un pandemonio. Tutti quelli che avevano partecipato alla perquisizione erano accorsi in strada per valutare i danni riportati dalla bmw e dall’autobus.
«Che c’è di tanto divertente?». Bodenstein la guardò irritato.
«Scusa» fece lei, scaricando la tensione delle ultime ore in una risata quasi isterica. «È solo che credevo avessi il sangue blu».
Era quasi buio quando Pia, a bordo della bmw ammaccata ma ancora funzionante, lasciò la strada per entrare nella proprietà dei Terlinden attraverso il cancello spalancato. Per pura coincidenza al momento dell’incidente la dottoressa Lauterbach si trovava in quello che lei stessa definiva “secondo ufficio”, cioè nello studio all’interno del vecchio municipio di Altenhain. L’orario di ricevimento era limitato al mercoledí pomeriggio, ma doveva prendere la cartella clinica di un paziente… Dopo aver medicato con velocità e perizia la ferita alla testa di Bodenstein, gli aveva consigliato di prendersi una mezza giornata di riposo, perché c’era la possibilità che avesse una commozione cerebrale. Il commissario aveva però rifiutato il suggerimento con decisione. Pia, che nel frattempo era riuscita a frenare le risate, credeva di sapere quale fosse il problema, anche se il capo non aveva piú parlato né di Cosima né dei sospetti circa la sua fedeltà.
Il viale d’accesso, illuminato da una serie di lampioncini, saliva serpeggiando attraverso un bellissimo giardino con alberi ad alto fusto, siepi di bosso e aiuole momentaneamente prive di fiori. Dietro una curva, immersa nella nebbia del crepuscolo, apparve la casa dei Terlinden, una grande e antica villa a graticcio con bovindi, torrette, tetto spiovente e finestre da cui usciva una luce invitante. Raggiunto il cortile, si fermarono davanti ai tre gradini d’ingresso. Sotto la tettoia sostenuta da grossi pali di legno faceva mostra di sé una bella composizione di zucche di Halloween. Pia suonò il campanello e all’interno della casa si scatenò subito un coro di latrati. Attraverso il vetro opalino di gusto un po’ rétro videro un’intera muta di cani che saltavano contro la porta; tra tutti spiccava un Jack Russell dalle lunghe zampe che abbaiava come un matto. Spinte da un vento gelido, le goccioline di pioggia, che si stavano trasformando in piccoli e pungenti cristalli di neve, arrivarono fin sotto la tettoia. Pia suonò di nuovo e i latrati aumentarono d’intensità fino a diventare assordanti.
«Speriamo si diano una mossa» borbottò, tirando su il colletto del giubbino di jeans.
«Prima o poi qualcuno aprirà». Impassibile, Bodenstein si appoggiò al parapetto di legno. Pia gli lanciò un’occhiataccia. A volte la stoica pazienza del suo capo la faceva davvero arrabbiare. Finalmente si udirono dei passi; i cani si zittirono e scomparvero come per incanto. La porta si aprí e sulla soglia apparve una bionda dall’aspetto giovanile con un gilet di pelliccia, un maglione a collo alto, una gonna a quadri lunga fino al ginocchio e un paio di moderni stivali col tacco. A prima vista Pia le avrebbe dato venticinque anni. Aveva un viso liscio e senza rughe e due grandi occhi azzurri da bambola. Con cortese distacco scrutò prima lei e poi Bodenstein.
«Signora Terlinden?». Pia cercò il tesserino di riconoscimento nelle tasche del gilet imbottito e in quelle del giubbino di jeans sottostante, mentre il commissario la osservava immobile e muto come un pesce. La signora annuí. «Mi chiamo Kirchhoff, lui è il mio collega Bodenstein. Siamo della polizia, ufficio 11 di Hofheim. Suo marito è in casa?».
«No, mi dispiace». La donna salutò entrambi con un sorriso e una stretta di mano, mostrando cosí una parte del corpo che rivelava la sua vera età. Doveva aver superato i cinquanta da un paio d’anni. Di colpo l’abbigliamento giovanile sembrò solo un travestimento. «Posso fare qualcosa per voi?».
Non li invitò a entrare. Attraverso la porta aperta Pia riuscí comunque a dare una sbirciata e vide un’ampia scala con i gradini ricoperti da un tappeto bordeaux, un ingresso con pavimento di marmo a scacchiera e alte pareti tappezzate di giallo zafferano, su cui spiccavano diversi quadri a olio dai toni cupi.
«Sa che la figlia dei vostri vicini è scomparsa da sabato sera, vero? I cani da ricerca che abbiamo portato qui ieri hanno trovato molte tracce intorno alla vostra casa. Vorremmo sapere perché».
«È normale, Amelie viene spesso da noi» cinguettò la signora Terlinden, spostando lo sguardo da Pia a Bodenstein e viceversa. «È amica di nostro figlio Thies».
Con finta noncuranza si accarezzò i capelli alla paggetto perfettamente acconciati e lanciò un’occhiata rapida e un po’ irritata al commissario capo, che continuava a tenersi in disparte e a tacere. Il cerotto bianco sulla fronte splendeva nel crepuscolo.
«Amica? È forse la sua ragazza?».
«No, no, sono solo amici» replicò la signora. «Vanno molto d’accordo. Amelie non ha nessuna paura e non gli fa pesare la sua… be’, la sua diversità».
Anche se era Pia a condurre la conversazione, lo sguardo della signora Terlinden andava continuamente a Bodenstein. Sembrava quasi cercare il suo sostegno. Pia l’aveva già inquadrata: era una di quelle donne che mescolano sapientemente vulnerabilità e civetteria, un mix in grado di risvegliare l’istinto di protezione in quasi tutti gli uomini. Poche donne sono davvero cosí, la maggior parte impara a fingere nel corso del tempo per manipolare efficacemente gli altri.
«Potremmo parlare con suo figlio? Forse può dirci qualcosa di utile su Amelie».
«Mi dispiace, ma non è possibile». Christine Terlinden sistemò il collo di pelliccia del gilet e si toccò di nuovo il caschetto biondo. «Thies non sta bene. Ieri ha avuto una brutta crisi, abbiamo dovuto chiamare la dottoressa».
«Che tipo di crisi?» chiese ancora Pia. Se la signora credeva di cavarsela con qualche risposta vaga, doveva capire subito che si sbagliava. La domanda sulla crisi del figlio la infastidí parecchio.
«Thies è molto fragile. Il piú piccolo cambiamento nell’ambiente che lo circonda può scatenare una reazione esagerata».
Sembrava che avesse imparato la risposta a memoria. Nelle sue parole non c’era alcuna empatia. Era chiaro che le importava poco o niente della figlia dei vicini. Non voleva sapere cosa le era successo, non l’aveva chiesto neanche per pura cortesia. Era strano. A Pia tornarono in mente le allusioni delle donne nel negozio di alimentari; secondo loro Thies aveva l’abitudine di girare per il paese con il buio, quindi era possibile che avesse incontrato la ragazza e le avesse fatto qualcosa.
«Cosa fa suo figlio durante il giorno? Va a lavorare?».
«No, gli altri pretendono troppo da lui» spiegò Christine Terlinden. «Si occupa del nostro parco e di alcuni giardini qui intorno. È un ottimo giardiniere».
Il pensiero di Pia andò subito alla canzone che Reinhard Mey aveva scritto negli anni Sessanta come parodia dei gialli di Edgar Wallace. L’assassino è sempre il giardiniere. Era davvero cosí? Forse i Terlinden sapevano piú di quel che dicevano, forse stavano nascondendo il figlio autistico per proteggerlo.
Alla fine la pioggia si era trasformata in neve. L’asfalto era coperto da un sottile strato bianco e Pia ebbe qualche difficoltà a bloccare la pesante bmw con le gomme estive all’ingresso dell’azienda dei Terlinden.
«Dovresti cambiare le gomme» disse al suo capo. «Lo sai, da o a p sono meglio quelle da neve».
«Cosa?». Bodenstein corrugò la fronte, irritato. Aveva la testa altrove, ma di sicuro non stava pensando al caso. Si udí il ronzio del cellulare.
Diede un’occhiata al display e rispose. «Dottoressa Engel…».
«Da ottobre a Pasqua» mormorò Pia, abbassando il vetro per mostrare il tesserino alla guardia. «Il signor Terlinden ci sta aspettando».
Non era vero, ma l’uomo annuí, tornò nel gabbiotto caldo e alzò la sbarra. Pia ripartí lentamente per non scivolare e attraversò il parcheggio vuoto, puntando verso la facciata a vetri dell’edificio principale. Davanti alla porta vide una Mercedes Classe s nera. Fermò la bmw lí dietro e uscí, sperando che Bodenstein mettesse fine alla telefonata con la Engel. Aveva i piedi congelati: nel breve tragitto da una parte all’altra di Altenhain la macchina non si era scaldata. La neve cominciava a cadere piú fitta. Sarebbe riuscita a guidare fino a Hofheim senza finire in un fosso? Il parafango posteriore della Mercedes nera aveva una brutta ammaccatura sulla sinistra. Pia osservò attentamente il danno. Doveva essere recente, non c’era segno di ruggine.
Sentendo uno sportello che si chiudeva, distolse l’attenzione dal parafango. Bodenstein le aprí la porta e insieme entrarono nell’atrio dell’edificio. Dietro il lucido bancone di noce era seduto un giovane uomo; alle sue spalle, su un’altissima parete bianca, spiccava il nome terlinden scritto a lettere dorate. Semplice ma impressionante. Pia si presentò e, dopo una breve telefonata, l’uomo la accompagnò insieme a Bodenstein fino a un ascensore in fondo all’atrio. In silenzio salirono al quarto piano, dove una bella signora di mezza età li stava già aspettando. Indossava cappotto e sciarpa e aveva la borsa a tracolla; evidentemente era l’ora in cui andava a casa. Ligia al suo dovere, li portò comunque nell’ufficio del titolare.
Dopo tutto quello che aveva sentito su Claudius Terlinden, Pia si aspettava di incontrare un patriarca dall’aria affabile. Rimase quindi un po’ delusa vedendo un uomo in giacca e cravatta piuttosto anonimo dietro una scrivania ingombra di carte. Terlinden si alzò subito dalla sedia, si abbottonò la giacca e si avvicinò per salutarli.
«Buonasera». Bodenstein si era finalmente riscosso. «Ci dispiace disturbarla a quest’ora, ma è da stamattina che cerchiamo di metterci in contatto con lei».
«Buonasera» rispose Claudius Terlinden, sorridendo. «Lo so, ho avuto il messaggio che avete lasciato alla mia segretaria. Mi sarei fatto vivo domani mattina».
Doveva avere un’età compresa tra i cinquantacinque e i sessant’anni; i capelli folti e scuri erano brizzolati sulle tempie. Da vicino non sembrava piú cosí anonimo, anzi! Non era un bell’uomo, aveva un naso troppo grande, un mento troppo squadrato e una bocca troppo carnosa, ma possedeva un fascino che catturò anche Pia.
«Ma… è ghiacciata!» esclamò preoccupato non appena la toccò. Per un attimo le strinse le dita con entrambe le mani; la sua pelle era piacevolmente calda e asciutta. Pia trasalí come se avesse ricevuto una scossa e sul viso di Terlinden apparve una fugace espressione di sorpresa.
«Posso offrirle un caffè? O magari una cioccolata bollente?».
«No, grazie, sto bene cosí» farfugliò lei, sentendosi avvampare per l’intensità del suo sguardo. Si scambiarono un’occhiata un po’ piú lunga del necessario. Cos’era successo? Un semplice fenomeno fisico dovuto all’elettricità statica? O qualcosa di completamente diverso?
Prima che potessero fargli una sola domanda, Terlinden chiese notizie di Amelie.
«Sono molto preoccupato» disse con espressione seria. «È la figlia di un mio stretto collaboratore, la conosco bene».
Pia ricordò mestamente che doveva trattarlo con durezza e accusarlo di avere un interesse particolare per la ragazza. Era partita con questa intenzione, che però stava improvvisamente sfumando.
«Nessuna novità, purtroppo». Saltando i preamboli, Bodenstein andò dritto al punto. «Ci è stato riferito che qualche volta lei è andato a trovare Tobias Sartorius in carcere. Perché? E per quale motivo si è accollato i debiti dei genitori?».
Pia infilò le mani nelle tasche del gilet imbottito e cercò di farsi tornare in mente quello che voleva chiedere con tanta urgenza a Claudius Terlinden. Ma aveva la testa vuota come un hard disk appena formattato.
«Dopo i tragici fatti che conoscete, tutti gli abitanti del paese hanno cominciato a trattare Hartmut e Rita come appestati» spiegò l’uomo. «Ma per me, ognuno è responsabile delle proprie azioni. Qualunque cosa avesse fatto il figlio, loro due non c’entravano niente».
«Se non sbaglio, Tobias aveva insinuato che lei potesse essere coinvolto nella scomparsa di una delle due ragazze. L’ha messa in una brutta situazione».
Terlinden annuí, nascose le mani nelle tasche dei pantaloni e piegò la testa all’indietro. Il fatto che Bodenstein lo superasse di oltre una spanna e lo costringesse quindi a guardare in alto non sembrava influire sulla sua sicurezza.
«Non me la sono presa con Tobias per quello che aveva detto. Era sottoposto a una terribile pressione, ha solo cercato di difendersi con ogni mezzo. In effetti, in un paio di occasioni mi ero trovato davvero in imbarazzo con Laura. Era la figlia della nostra governante e veniva spesso da noi. Purtroppo credeva di essere innamorata di me».
«Che significa “in imbarazzo”?» domandò il commissario.
«Una volta si è infilata nel mio letto mentre ero in bagno» raccontò Terlinden con voce piatta. «Un’altra volta, in soggiorno, si è spogliata completamente proprio davanti ai miei occhi. Mia moglie era partita e lei lo sapeva. Mi disse chiaro e tondo che voleva venire a letto con me».
Per qualche strano motivo queste parole infastidirono Pia, che per non guardare Claudius Terlinden si concentrò sull’arredamento dell’ufficio. La grande scrivania in massello con splendidi intagli ai lati poggiava su quattro enormi zampe leonine. Si trattava senz’altro di un mobile antico e prezioso, ma era una delle cose piú brutte che Pia avesse mai visto. Accanto alla scrivania c’era un vecchio mappamondo e alle pareti erano appesi cupi dipinti espressionisti con sobrie cornici dorate molto simili ai quadri che aveva visto nella villa sbirciando alle spalle della signora Terlinden.
«Com’è andata a finire?» insistette Bodenstein.
«Quando la respinsi, corse via piangendo. Proprio nel momento in cui stava entrando mio figlio».
Pia si schiarí la voce. Aveva ripreso il controllo.
«Sappiamo che piú di una volta lei ha dato un passaggio ad Amelie Fröhlich. L’abbiamo letto nel suo diario: la ragazza aveva l’impressione che lei la aspettasse apposta».
«Non l’ho mai aspettata» replicò Terlinden con un sorriso. «Però è vero, qualche volta l’ho incontrata per caso mentre andava alla fermata dell’autobus o saliva dal paese verso casa. Allora le ho offerto un passaggio».
Parlava in modo calmo e rilassato, non lasciando intravedere alcun senso di colpa.
«Le ha procurato un lavoro al Cavallino Nero. Perché?».
«Amelie voleva guadagnare un po’ di soldi e al locale cercavano un’altra cameriera». L’uomo alzò le spalle. «Qui in paese conosco tutti, se posso rendermi utile lo faccio volentieri».
Pia lo osservò attentamente. Gli occhi indagatori di Claudius Terlinden si fissarono nei suoi, ma non le fecero abbassare lo sguardo. Lei poneva domande, lui rispondeva. Ma stava succedendo anche qualcos’altro. Da cosa dipendeva la strana attrazione che Terlinden esercitava su di lei? Dai suoi occhi scuri? Dalla bella voce sonora? Dall’aura di calma e sicurezza che lo avvolgeva? Se riusciva a turbare cosí una donna adulta, era piú che comprensibile che avesse fatto colpo su una ragazza come Amelie.
«Quando l’ha vista l’ultima volta?» intervenne Bodenstein.
«Non lo so, non ricordo».
«E ricorda dov’è stato sabato notte, tra le dieci e le due?».
Claudius Terlinden sfilò le mani dalle tasche e incrociò le braccia sul petto. Sul dorso della sinistra aveva un graffio incrostato di sangue, quindi piuttosto recente.
«Sabato ho cenato a Francoforte con mia moglie» disse dopo aver riflettuto un attimo. «Christine aveva un terribile mal di testa, per cui l’ho portata a casa presto e poi sono venuto qui a mettere i gioielli in cassaforte».
«A che ora siete tornati da Francoforte?».
«Verso le dieci e mezza».
«Quindi è passato due volte davanti al Cavallino Nero» osservò Pia.
«Sí». Mentre a Bodenstein aveva risposto quasi con noncuranza, Terlinden guardava Pia con la concentrazione di un concorrente televisivo al momento della domanda cruciale. Tanta attenzione la irritò. Probabilmente se ne accorse anche il commissario capo.
«Ha notato niente di diverso dal solito?» chiese di nuovo Bodenstein. «Ha visto qualcuno che faceva quattro passi o altro?».
«No, non ho notato niente. Ma percorro la stessa strada un paio di volte al giorno, non faccio molta attenzione a quello che c’è intorno».
«Come si è procurato il graffio alla mano?» volle sapere Pia.
Terlinden s’incupí, il sorriso scomparve dal suo volto. «Ho avuto un breve scontro con mio figlio».
Ma certo, Thies! Stava per dimenticare il motivo che l’aveva portata da Claudius Terlinden! Anche Bodenstein non ci aveva piú pensato, o almeno cosí sembrava. Il commissario approfittò della risposta per affrontare con eleganza l’argomento.
«Sua moglie ci ha detto che ieri sera Thies ha avuto una crisi».
L’uomo esitò per qualche istante, poi annuí.
«Che tipo di crisi? È epilettico?».
«No, è autistico. Vive in un mondo tutto suo, qualunque cambiamento nell’ambiente che lo circonda è una minaccia per lui. Reagisce con comportamenti autolesionisti». Sospirò. «Credo sia stata la scomparsa di Amelie a scatenare la crisi di ieri».
«In paese dicono che Thies potrebbe sapere qualcosa» lo incalzò Pia.
«È una sciocchezza» ribatté Terlinden senza alcuno sdegno, quasi con indifferenza, come se avesse già sentito certe chiacchiere. «Thies adora quella ragazza. Ma alcuni sono convinti che dovrebbe stare in un istituto. Naturalmente nessuno me lo dice in faccia, ma so cosa pensano».
«Vorremmo parlare con lui».
«Purtroppo in questo momento non è possibile». Scosse la testa, dispiaciuto. «È stato necessario ricoverarlo in psichiatria».
«Cosa gli faranno?». Nella mente di Pia si formarono subito immagini terribili di persone legate e sottoposte a elettroshock.
«Cercheranno di calmarlo».
«E quanto ci vorrà? Quando potremo parlargli?».
Claudius Terlinden si strinse nelle spalle. «Non lo so. È stata la prima crisi violenta dopo tanti anni. Ho paura che questo episodio possa aver cancellato tutti i progressi che aveva fatto. Sarebbe una vera catastrofe. Per noi e per lui».
Promise di informarli non appena i medici avessero autorizzato un colloquio con Thies. Poi li accompagnò all’ascensore e sorridendo porse di nuovo la mano.
«È stato un piacere conoscervi» disse. Diversamente da prima, Pia non ricevette alcuna scossa; quando la porta dell’ascensore si chiuse, però, avvertí uno strano intontimento. Durante la discesa si sforzò di recuperare la lucidità.
«Be’, senza dubbio gli piaci. E lui piace a te». La voce di Bodenstein aveva una sfumatura ironica.
«Non dire stupidaggini!». Pia tirò su la zip, chiudendo il giubbino fino al mento. «Lo stavo solo studiando».
«Allora? A che conclusione sei arrivata?».
«Secondo me è stato sincero».
«Ah sí? Io credo che abbia mentito».
«Perché? Ha risposto senza esitare a tutte le nostre domande, anche alle piú sgradevoli. Ci ha raccontato perfino delle due occasioni in cui Laura l’ha messo in imbarazzo».
«Proprio questo mi ha insospettito. Non ti sembra strano che abbia fatto sparire il figlio proprio ora che è scomparsa un’altra ragazza?».
L’ascensore raggiunse il pianterreno e la porta si aprí.
«Siamo allo stesso punto di prima» constatò Pia, riprendendosi di colpo. «Pare che nessuno abbia visto Amelie».
«Forse l’hanno vista e non ce lo vogliono dire» obiettò Bodenstein. Attraversarono l’atrio, salutarono il giovane al bancone con un cenno del capo e uscirono dall’edificio. Furono subito investiti da un vento gelido. Pia schiacciò il telecomando e le portiere della bmw si sbloccarono.
«Dobbiamo riparlare con la signora Terlinden». Bodenstein si fermò sul lato del passeggero e guardò la collega da sopra il tetto dell’auto.
«Quindi i tuoi sospetti si concentrano su Thies e Claudius Terlinden».
«Sí, è possibile che il figlio abbia fatto qualcosa alla ragazza e che il padre voglia nascondere tutto. Per questo l’ha fatto ricoverare in psichiatria».
Entrarono in macchina, Pia avviò il motore e uscí da sotto la tettoia protettiva. In un attimo il parabrezza si coprí di neve e i delicati sensori della bmw misero in funzione i tergicristalli.
«Voglio sapere chi è il medico curante di Thies» continuò Bodenstein, pensieroso. «E se i Terlinden hanno davvero cenato a Francoforte sabato sera».
Pia si limitò ad annuire. Claudius Terlinden aveva suscitato in lei sentimenti contrastanti. Di solito non si lasciava abbagliare al primo incontro, ma quell’uomo l’aveva profondamente colpita. Doveva assolutamente scoprire perché.
Alle nove e mezza, quando tornò al comando regionale, non c’era piú nessuno. Rimanevano solo le guardie. All’altezza di Kelkheim la neve si era ritrasformata in pioggia e cosí, nonostante la ferita alla testa, Bodenstein aveva insistito per andare a casa da solo. Anche Pia sarebbe tornata volentieri a casa, senza dubbio Christoph la stava già aspettando, ma l’incontro con Claudius Terlinden non le dava pace. Per fortuna Christoph non si arrabbiava se ogni tanto restava al lavoro fino a tardi.
Attraverso corridoi e scale deserte raggiunse il suo ufficio, accese la luce e si sedette alla scrivania. Christine Terlinden aveva fatto il nome della dottoressa che aveva in cura Thies da tanti anni. Non c’era da stupirsi che si trattasse di Daniela Lauterbach, dopotutto era una vicina di lunga data e in caso di emergenza poteva arrivare in pochi minuti.
Digitò la password. Da quando avevano lasciato l’azienda di Terlinden non faceva altro che ripercorrere mentalmente la conversazione, cercando di ricordare ogni parola, ogni espressione, ogni minima allusione. Perché, a differenza di Bodenstein, credeva che Terlinden non fosse coinvolto nella scomparsa di Amelie? Forse l’attrazione che sentiva per lui l’aveva resa meno obiettiva?
Inserí il nome in un motore di ricerca e ottenne migliaia di risultati. Nella mezz’ora successiva raccolse informazioni sulla famiglia, sull’azienda e sulle numerose attività sociali e benefiche di Claudius Terlinden. Non solo era nel consiglio di amministrazione e vigilanza di diverse organizzazioni, ma elargiva anche borse di studio a ragazzi dotati provenienti da famiglie disagiate. Faceva molto per i giovani. Perché? Stando alle dichiarazioni ufficiali, sapeva di essere un uomo molto fortunato e voleva dividere parte di questa fortuna con la società. Nulla da ridire, era una motivazione decisamente nobile. Ma sotto poteva esserci qualcos’altro. Terlinden sosteneva di aver respinto per due volte le chiare avance di Laura Wagner. Era stato davvero cosí? Pia ingrandí alcune delle foto trovate dal motore di ricerca e osservò con attenzione l’uomo che l’aveva profondamente scombussolata. Forse la signora Terlinden si vestiva in un certo modo perché sapeva che a lui piacevano le ragazzine. Forse Amelie l’aveva respinto ed era finita male. Pia si mordicchiò il labbro inferiore. Non riusciva a credere che fosse questa la spiegazione. Si scollegò da Internet e cercò il nome nel polas, l’archivio informatizzato di cui disponeva la polizia. Niente. Non aveva precedenti penali, mai un problema con la legge. All’improvviso il suo sguardo fu attratto da un particolare in basso a destra nello schermo. Si raddrizzò di colpo. All’una e un quarto di domenica, 16 novembre 2008, qualcuno aveva sporto denuncia contro Claudius Terlinden. Pia cliccò sul link per visualizzare la pratica. Mentre leggeva, il cuore cominciò a batterle all’impazzata.
«Guarda, guarda» mormorò.