Sabato, 22 novembre 2008
Si destò di soprassalto. Con il cuore che batteva a mille e gli occhi spalancati si guardò intorno, ma come sempre vide solo oscurità. Cosa l’aveva svegliata? Aveva davvero sentito un rumore o se l’era sognato? Amelie tese l’orecchio e rimase in ascolto. Niente. Si era sbagliata. Con un sospiro si mise a sedere sul materasso che sapeva di muffa, si prese le caviglie e cominciò a massaggiare i piedi gelati. Anche se si ripeteva che ce l’avrebbe fatta, che qualcuno sarebbe venuto a salvarla dall’incubo, sotto sotto aveva ormai abbandonato la speranza. Chiunque l’avesse chiusa in quella stanza non aveva alcuna intenzione di lasciarla andare. Finora Amelie era riuscita a resistere ai frequenti attacchi di panico, ma sempre piú raramente trovava il coraggio di reagire, e rimaneva sdraiata in attesa della fine. Vorrei essere morta! Quante volte, in preda alla rabbia, l’aveva gridato a sua madre! Ora si pentiva di aver pronunciato certe parole con tanta leggerezza. Si pentiva amaramente di tutto quello che aveva fatto alla madre per dispetto o indifferenza. Se fosse uscita viva dalla brutta situazione in cui si trovava, sarebbe diventata un’altra persona. Sarebbe cambiata in meglio. Niente piú obiezioni, niente piú fughe da casa, niente piú comportamenti da ingrata.
Doveva esserci un lieto fine. C’era sempre. Be’, quasi sempre. Pensando a tutte le storie finite male che aveva letto o sentito, non poté evitare di rabbrividire. Ragazze sepolte nel bosco, chiuse in una cassa, violentate, torturate a morte. Merda, merda, merda! Non voleva morire, non in uno stanzino fetido, al buio, sola come un cane. La fame non l’avrebbe uccisa in tempi brevi, ma la sete sí. Non era rimasta molta acqua, quindi doveva razionarla. Ne beveva un sorso per volta.
Trasalí. Si sentivano dei rumori! Non erano allucinazioni. Passi al di là della porta! Si fecero sempre piú vicini, poi si bloccarono. Qualcuno girò una chiave nella serratura. Amelie avrebbe voluto alzarsi, ma aveva le membra irrigidite dal freddo e dall’umidità che dopo tanti giorni e tante notti le era ormai penetrata nelle ossa. Per un paio di secondi la stanza fu illuminata da una luce abbagliante. Amelie rimase accecata; sbatté le palpebre, ma non riuscí a vedere niente. La porta si richiuse di colpo e ancora una volta la ragazza udí la chiave che girava cigolando nella serratura e poi dei passi che si allontanavano. La delusione la afferrò come una piovra, stritolandola con i suoi tentacoli. Niente acqua! All’improvviso le sembrò di sentire dei respiri. C’era qualcun altro nella stanza? Un brivido le corse lungo la schiena e il cuore cominciò a battere all’impazzata. Chi era? Una persona? Un animale? La paura la lasciò quasi senza fiato. Si schiacciò contro la parete umida, poi, prendendo il coraggio a due mani, si decise a parlare.
«Chi c’è?» domandò con voce roca.
«Amelie?».
Sentí un tuffo al cuore e per un istante smise di respirare.
«Thies?». Appoggiandosi alla parete si tirò in piedi. Non era facile mantenere l’equilibrio nell’oscurità, anche se ormai conosceva ogni millimetro della stanza. Avanzò con le braccia tese e dopo un paio di passi, sobbalzando per la sorpresa, toccò qualcosa di caldo. Sentí il respiro di Thies. Gli strinse il braccio e stranamente lui non si ritrasse. Anzi, le prese la mano.
«Oh Thies!». Amelie non riuscí piú a trattenere le lacrime. «Cosa fai qui? Oh Thies, Thies, sono cosí contenta!».
Si fece ancora piú vicina e lo abbracciò, abbandonandosi al pianto. Le ginocchia minacciarono di cederle per l’emozione. Si sentiva cosí sollevata, finalmente non era piú sola, finalmente! Thies si lasciò toccare di buon grado. Non solo: dopo un attimo ricambiò addirittura l’abbraccio, all’inizio in modo cauto e un po’ goffo, poi con maggiore sicurezza. Mentre la teneva stretta, le posò una guancia sui capelli e in un secondo tutta la paura si dissolse.
Fu svegliato di nuovo dal cellulare. Era quella mattiniera di Pia, che alle sei e venti voleva fargli sapere che durante la notte Thies Terlinden era scomparso dal reparto di psichiatria.
«Mi ha chiamato l’assistente del primario» spiegò. «Sono venuta subito all’ospedale e ho parlato con il medico di guardia e l’infermiera che ha fatto il turno di notte. Alle 23:27, quando ha guardato in camera, Thies era a letto che dormiva. Alle 5:12 ha controllato di nuovo e non c’era piú».
«Cosa può essere successo?». Bodenstein non riusciva ad alzarsi. Aveva dormito al massimo tre ore e si sentiva stanchissimo. Prima aveva ricevuto una telefonata di Lorenz, proprio quando si era appena addormentato. Poi era stata la volta di Rosalie, che voleva rimettersi al volante per tornare subito da lui. Ce n’era voluto per farle cambiare idea. Con un gemito soffocato riuscí a mettersi seduto e a scendere dal letto. Diversamente dalla prima volta, raggiunse l’interruttore vicino alla porta senza sbattere contro i mobili.
«È un mistero. Credevano si fosse nascosto, ma hanno cercato dappertutto e non l’hanno trovato. La porta della camera era chiusa a chiave. In pratica si è volatilizzato. Come tutti gli altri. Merda!».
Anche Gregor Lauterbach, Nadja von Bredow e Tobias Sartorius erano scomparsi senza lasciare traccia. Erano state avviate ricerche a livello nazionale, coinvolgendo stampa, radio e televisione, ma per il momento non avevano ottenuto alcun risultato.
Bodenstein si trascinò fino al bagno dove, prima di andare a letto, aveva saggiamente acceso il riscaldamento e chiuso la finestra. Si fermò davanti allo specchio e quel che vide non fu molto piacevole. Mentre ascoltava Pia, la sua mente si affollò di pensieri. Si era comportato in modo superficiale. Sapeva che Thies era in grave pericolo, ma si era illuso che nel reparto di psichiatria non gli sarebbe successo niente. Avrebbe dovuto farlo sorvegliare! Aveva commesso due errori nel giro di ventiquattr’ore. Andando avanti di questo passo, avrebbe fatto la fine dei due colleghi sospesi dal servizio! Dopo aver chiuso la telefonata si tolse i pantaloni e la maglietta impregnata di sudore e si fece una lunga doccia. Non rimaneva piú molto tempo. Rischiava di perdere il controllo della situazione. Qual era la cosa piú importante? Su cosa doveva concentrarsi? Nadja von Bredow e Gregor Lauterbach avevano sicuramente un ruolo centrale nell’intera faccenda. Doveva trovarli.
Claudius Terlinden accolse la notizia del suicidio del figlio senza batter ciglio. Dopo quattro giorni e tre notti in custodia il suo mutismo cortese ma ostinato aveva lasciato il posto a un atteggiamento un po’ piú morbido. Giovedí il suo avvocato aveva chiesto il rilascio immediato, ma Ostermann era riuscito a convincere il giudice che esisteva un elevato rischio di inquinamento delle prove. In ogni caso non potevano trattenerlo ancora per molto. Dovevano sbrigarsi e dimostrare in maniera inconfutabile che Terlinden non aveva un alibi per le ore in cui Amelie era scomparsa.
«Lars è sempre stato un debole» fu l’unico commento che gli strapparono di bocca. Con il colletto aperto, la barba di quattro giorni e i capelli sporchi aveva il fascino di uno spaventapasseri. Pia si sforzò di ricordare come mai la prima volta era rimasta tanto colpita da lui.
«Invece lei è un duro» disse in tono sarcastico. «Non è cosí? È talmente duro che se ne frega di tutti i problemi che ha causato con le sue bugie e i suoi sotterfugi. Ha spinto Lars a suicidarsi per il senso di colpa, ha rubato dieci anni di vita a Tobias Sartorius e ha costretto con le minacce Thies ad accudire un cadavere per ben undici anni».
«Non ho mai minacciato Thies». Claudius Terlinden la guardò per la prima volta dall’inizio del colloquio. All’improvviso gli occhi arrossati avevano assunto un’espressione attenta. «Cos’è questa storia del cadavere?».
«Per favore!». Pia scosse il capo, irritata. «Non vorrà farci credere che non sa niente della ragazza morta che abbiamo trovato nella cantina della sua dépendance!».
«In effetti non ne so niente. Sono vent’anni che non metto piede là dentro».
Pia tirò indietro la sedia e si accomodò proprio di fronte a lui.
«Ieri sotto l’atelier di Thies abbiamo scoperto il cadavere mummificato di Stefanie Schneeberger».
«Cosa?». Gli occhi di Terlinden furono attraversati da un lampo di sorpresa. Nella sua facciata di freddo autocontrollo si aprí una piccola crepa.
«Thies ha assistito ai due omicidi di undici anni fa» continuò Pia senza distogliere lo sguardo dall’uomo. «Qualcuno l’ha costretto a tenere la bocca chiusa, dicendogli che altrimenti sarebbe finito in un istituto. Secondo me è stato lei».
Claudius Terlinden scrollò la testa.
«Suo figlio mi ha rivelato quello che ha visto e, guarda caso, stanotte è scomparso dal reparto di psichiatria».
«Sta mentendo. Thies non le ha detto niente».
«È vero, non ha parlato. Ma mi ha fornito una testimonianza non verbale. Ha fatto un disegno molto dettagliato, quasi una fotografia di ciò che è accaduto».
Terlinden cominciò a mostrare qualche reazione. Gli occhi guizzavano di qua e di là, le mani si muovevano nervosamente. Pia esultò in silenzio. Dovevano farlo crollare in fretta. Ci sarebbero riusciti?
«Dov’è Amelie Fröhlich?».
«Chi?».
«Non scherziamo! È seduto qui proprio perché la figlia del suo vicino e collaboratore Arne Fröhlich è scomparsa».
«Ah già. Scusi, stavo pensando ad altro. Non ho la minima idea di dove sia la ragazza. Perché dovrei saperlo?».
«Thies ha mostrato ad Amelie la mummia di Stefanie. Le ha anche dato dei disegni che rappresentano i due omicidi. La ragazza stava per scoprire tutti gli oscuri segreti di Altenhain. Per questo ha dovuto fermarla».
«Quali oscuri segreti? Non so proprio di cosa stia parlando». Terlinden scoppiò in una risata beffarda. «Secondo me guardate troppe soap opera! Comunque non importa, presto dovrete lasciarmi andare. Non avete in mano niente di concreto. O sbaglio?».
Pia non si lasciò confondere. «La morte di Laura Wagner è stata un incidente, ma lei ha consigliato a Lars di non dire com’erano andate le cose. Vedremo se questo può bastare per tenerla in custodia un altro po’».
«Vuole tenermi in cella perché ho protetto mio figlio?».
«No, per ostacolo alla giustizia. E falsa testimonianza. Vuole aggiungere qualcosa?».
«Sono reati già caduti in prescrizione». Claudius Terlinden la squadrò con freddezza. Era veramente un osso duro. Tutta la fiducia di Pia svaní in un secondo.
«Dove siete andati lei e Lauterbach dopo aver lasciato l’Ebony Club?».
«Sono affari nostri. Non abbiamo visto la ragazza».
«Dove siete andati? Perché è scappato dopo aver urtato quell’auto? Pensava che nessuno avrebbe osato denunciarla?» chiese lei in tono pungente.
Terlinden non rispose. Non accettava nessuna provocazione. O forse era davvero innocente? Nella sua macchina la scientifica non aveva trovato la minima traccia di Amelie. L’incidente non bastava per trattenerlo in cella. E riguardo agli altri reati aveva ragione lui, erano già caduti in prescrizione. Accidenti!
Percorrendo la via principale, che ormai conosceva bene, superò il negozio dei Richter e il Gallo d’Oro, poi, all’altezza del parco giochi, svoltò a sinistra e proseguí sulla strada che costeggiava il bosco. I lampioni erano accesi; era una di quelle giornate in cui la luce rimaneva scarsa. Bodenstein aveva deciso di presentarsi un sabato mattina di buonora, nella speranza che Lauterbach fosse in casa. Perché il ministro aveva chiesto a Hasse di distruggere i vecchi verbali d’interrogatorio? Che ruolo aveva avuto nelle vicende del settembre 1997? Parcheggiò davanti alla villa e andò subito su tutte le furie vedendo che, contrariamente a quanto aveva ordinato, non c’erano veicoli della polizia, né con né senza i contrassegni. Prima che potesse chiamare il comando e fare una bella sfuriata, il garage si aprí e apparvero le luci posteriori di un’auto. Bodenstein uscí dalla macchina e si avvicinò. Con un tuffo al cuore si accorse che al volante della Mercedes grigio scuro era seduta Daniela Lauterbach. La dottoressa si fermò e scese. Aveva il viso stanco, senza dubbio non aveva dormito molto.
«Buongiorno. Cosa fa qui a quest’ora?».
«Vorrei sapere come sta la signora Terlinden. Ho pensato a lei tutta la notte». Era una bugia bella e buona, ma era sicuro che fingendo interesse per la vicina avrebbe fatto un’impressione positiva sulla Lauterbach. In effetti non si sbagliava. Gli occhi marroni si illuminarono e sul viso della donna comparve un fugace sorriso.
«Purtroppo non sta affatto bene. Perdere un figlio in quel modo è davvero terribile. E poi l’incendio dell’atelier, il cadavere in cantina… È normale che sia crollata». Scosse la testa, dispiaciuta per l’amica. «Sono rimasta con lei fino all’arrivo della sorella. Non potevo lasciarla sola».
«Sono molto colpito dal modo in cui si prende cura di amici e pazienti. È raro incontrare una persona come lei».
Daniela Lauterbach sembrò gradire il complimento. Sul suo volto tornò il sorriso. Un sorriso caldo e materno che scatenava l’insopprimibile bisogno di cercare conforto tra le sue braccia.
«A volte mi preoccupo anche troppo per gli altri». Sospirò. «Ma non posso farci niente. Se vedo qualcuno che soffre, devo assolutamente andargli in soccorso».
La gelida aria del mattino fece rabbrividire Bodenstein. Cosa che a lei non sfuggí.
«Sta morendo di freddo. Se ha altre domande, è meglio entrare in casa».
Il commissario capo la seguí in garage e su per una scala, fino a un salone di rappresentanza che nella sua inutilità richiamava subito alla mente gli anni Ottanta.
«C’è anche suo marito?» chiese con noncuranza, guardandosi intorno.
«No». Per una frazione di secondo la dottoressa esitò. «Mio marito è via per lavoro».
Poteva anche essere una bugia, ma per il momento Bodenstein accettò la spiegazione senza replicare. Forse lei non sapeva a che gioco stesse giocando il marito.
«Devo parlare con lui al piú presto. Abbiamo scoperto che aveva una relazione con Stefanie Schneeberger».
Daniela Lauterbach distolse lo sguardo, cambiando di colpo espressione.
«Lo sapevo già» ammise. «Gregor me lo ha confessato undici anni fa, dopo la scomparsa di Stefanie». Era chiaro che le costava molta fatica parlare dell’infedeltà del marito.
«Temeva che qualcuno avesse visto l’incontro amoroso nel fienile dei Sartorius e potesse sospettare di lui». La voce era piena di amarezza, gli occhi avevano un’espressione cupa. La ferita bruciava ancora. Bodenstein non poté evitare di pensare alla propria situazione. In undici anni la Lauterbach era forse riuscita a perdonare il marito, ma di sicuro non aveva dimenticato l’umiliazione subita.
«Perché volete tirare fuori questa vecchia storia?» domandò confusa.
«Amelie Fröhlich stava indagando sui fatti del 1997 e probabilmente aveva scoperto la relazione. Se suo marito l’ha saputo, forse si è sentito minacciato».
La dottoressa lo fissò incredula.
«Sospettate di mio marito? Credete che abbia fatto sparire Amelie?».
«No, non sospettiamo di lui» rispose il commissario, cercando di tranquillizzarla. «Ma dobbiamo parlargli al piú presto. Ha compiuto un’azione illegale. Potrebbero esserci delle conseguenze penali».
«Posso sapere di che si tratta?».
«Suo marito ha chiesto a uno dei miei uomini di rubare i verbali d’interrogatorio del 1997».
Daniela Lauterbach impallidí. Sembrava davvero scioccata.
«No». Scosse la testa con forza. «No, non può essere. Perché avrebbe fatto una cosa del genere?».
«Vorrei saperlo anch’io. Allora, dov’è? Se non lo troviamo, dovremo diramare un ordine di ricerca. Sarebbe meglio evitarlo, visto che suo marito è un personaggio in vista».
Daniela Lauterbach annuí, poi inspirò profondamente e con grande forza di volontà riuscí a tenere sotto controllo le emozioni. Quando guardò di nuovo Bodenstein, nei suoi occhi c’era un’espressione diversa. Paura? Rabbia? O entrambe le cose?
«Lo chiamerò e gli spiegherò la situazione» disse, sforzandosi di controllare la voce. «Sono sicura che si tratta di un equivoco».
«Lo credo anch’io» concluse Bodenstein. «Ma conviene chiarirlo al piú presto».
Finalmente, dopo tanto tempo, una notte di sonno profondo e senza sogni. Tobias si girò sulla schiena e sbadigliando si mise seduto. Impiegò qualche secondo a capire dove si trovava. Il giorno prima erano arrivati a destinazione piuttosto tardi. Nonostante la neve abbondante, Nadja aveva lasciato l’autostrada all’altezza di Interlaken. Si era fermata per montare le catene e aveva proseguito tranquillamente lungo una ripida strada a tornanti che portava su, sempre piú su. Tobi era cosí stanco che all’arrivo aveva visto ben poco dello chalet. Non aveva neanche fame, aveva solamente seguito Nadja subito su per la scala e si era infilato nel grande letto che occupava tutto il soppalco. Appena posata la testa sul cuscino, si era addormentato. Ora, dopo un lungo sonno ristoratore, si sentiva molto meglio.
«Nadja?».
Nessuna risposta. Tobias si mise in ginocchio e guardò fuori dalla minuscola finestra sopra il letto. Il panorama lo lasciò senza fiato. Cielo azzurrissimo, neve e cime imponenti. Non era mai stato in alta montagna; nella sua infanzia e adolescenza non c’erano state né settimane bianche né vacanze al mare. All’improvviso sentí il bisogno di toccare subito la neve. Scese la scala piú in fretta che poté. Lo chalet era piccolo e accogliente, con pareti e soffitto rivestiti in legno. Vide una panca ad angolo e un tavolo apparecchiato per la colazione. C’era profumo di caffè e i ciocchi nel camino bruciavano scoppiettando. Sorrise. S’infilò jeans, maglione, giacca e scarpe, aprí la porta e uscí. Per un attimo rimase accecato dalla luce abbagliante. Si bloccò e fece un respiro profondo per riempire i polmoni di aria fresca e tersa. Poi fu colpito in pieno volto da una palla di neve.
«Buongiorno!». Nadja scoppiò a ridere e gli fece l’occhiolino con aria di sfida. Si trovava a un paio di metri dai gradini d’ingresso, illuminata dai raggi del sole che si riflettevano sulla coltre bianca tutt’intorno. Tobias rispose con un gran sorriso, saltò giú e affondò fin sopra il ginocchio nella neve farinosa. Lei gli andò incontro, le guance rosse e il viso piú bello che mai sotto il cappuccio bordato di pelliccia.
«Wow, è fantastico!».
«Ti piace?».
«Tantissimo! Uno spettacolo cosí l’avevo visto soltanto in televisione».
Camminando a fatica, girò intorno allo chalet, che con il suo tetto spiovente stava abbarbicato a un ripido pendio. La neve scricchiolava sotto le sue scarpe. Si sentí stringere la mano.
«Guarda» disse Nadja. «Quelle sono le cime piú famose delle Alpi bernesi: la Jungfrau, l’Eiger e il Mönch. È una vista che adoro».
Indicò la valle sottostante. Molto piú giú rispetto allo chalet, a una distanza tale da essere difficilmente visibile a occhio nudo, c’era un piccolo agglomerato di case. E un po’ piú lontano scintillavano le acque blu di un lago dalla forma allungata.
«A che altezza siamo?» domandò Tobias, curioso.
«1800 metri. Sopra di noi ci sono solo ghiacciai e camosci».
Nadja scoppiò di nuovo a ridere, gli gettò le braccia al collo e lo baciò con le labbra morbide e fredde. Stringendola a sé, lui ricambiò il bacio. Si sentiva libero e leggero, come se tutte le preoccupazioni degli ultimi anni fossero rimaste a valle.
Era cosí assorbito dalle indagini che non aveva tempo per rimuginare sui problemi personali. E questo non poteva che fargli piacere. Da anni si confrontava quasi quotidianamente con gli abissi dell’animo umano ma ora, per la prima volta, vedeva analogie tra la vita degli altri e la propria, analogie di fronte alle quali aveva sempre chiuso gli occhi. Come Daniela Lauterbach, che sembrava sapere ben poco del marito, alla fine anche Bodenstein doveva ammettere di non conoscere affatto Cosima. Per quanto fosse spaventoso, era possibile vivere con la stessa donna per venticinque anni, dividendo il letto e mettendo al mondo dei figli, senza arrivare a conoscerla veramente. Aveva incontrato tante persone che per anni e anni avevano convissuto con assassini, pedofili e stupratori senza sospettare niente e poi, messe di fronte alla terribile verità, erano cadute dalle nuvole.
Superando la casa dei Fröhlich e l’accesso posteriore al cortile dei Sartorius, proseguí fino alla piazzola in fondo alla strada, dove svoltò per imboccare il cancello dei Terlinden. Ad aprire la porta di casa fu una donna che non conosceva. Doveva essere la sorella di Christine, anche se non le somigliava minimamente. Era alta, magra e molto sicura di sé, almeno a giudicare dal modo in cui lo squadrò.
«Sí?». I suoi occhi verdi e indagatori si fissarono in quelli del commissario. Dopo essersi presentato, Bodenstein chiese di parlare con la padrona di casa.
«Prego, si accomodi» rispose la donna. «Io sono Heidi Brückner. La sorella di Christine».
Doveva essere piú giovane di almeno dieci anni. A differenza della signora Terlinden, aveva un aspetto molto naturale. I capelli scuri e lucenti erano raccolti in una treccia, mentre il viso liscio e regolare con gli zigomi alti era completamente struccato. Dopo averlo fatto entrare, richiuse la porta.
«Aspetti qui».
Con queste parole si allontanò e sparí. Bodenstein ne approfittò per osservare da vicino i quadri alle pareti. L’autore era senza dubbio Thies. Si trattava di opere buie e apocalittiche, proprio come quelle appese nello studio della dottoressa Lauterbach. Volti deformati, bocche urlanti, mani bloccate, occhi pieni di dolore e paura. Sentendo dei passi, si voltò. Christine Terlinden era identica a come la ricordava: capelli biondi perfettamente pettinati, sorriso distaccato e volto senza rughe.
«Condoglianze» disse, porgendole la mano.
«Grazie. È molto gentile». Non sembrava avercela con lui per il fermo del marito. Anche il suicidio del figlio le era scivolato addosso senza lasciare tracce evidenti, cosí come l’incendio dell’atelier e il ritrovamento della mummia di Stefanie Schneeberger. Incredibile! Era una vera maestra nell’arte della rimozione. O forse era imbottita di tranquillanti e non si era ancora resa conto di niente.
«Thies è sparito dall’ospedale questa notte. Non è che per caso è tornato qui?».
«No». La signora non sembrava troppo preoccupata, solo leggermente inquieta. Comunque Bodenstein trovò strano che dall’ospedale non l’avessero ancora avvisata della scomparsa. Le chiese qualche informazione in piú sul figlio e si fece accompagnare fino alla stanza nel seminterrato. Heidi Brückner, muta e attenta, li seguí tenendosi a una certa distanza.
La camera di Thies era luminosa e accogliente. Dato che la casa sorgeva su un pendio, le grandi finestre offrivano una bella vista del paese. C’erano scaffali pieni di libri e un divano con degli animali di pezza. Il letto era rifatto, ogni cosa era al suo posto. Sembrava la camera di un bambino di dieci anni, non quella di un trentenne. L’unico elemento degno di nota era rappresentato dai quadri alle pareti. Thies aveva dipinto i suoi familiari, dimostrando chiaramente di essere un grande artista. Non si era limitato a ritrarre i visi, con grande abilità era riuscito a rendere anche il carattere delle persone. Claudius Terlinden sorrideva in maniera amichevole, ma la postura, l’espressione degli occhi e i colori dello sfondo creavano un effetto minaccioso. La madre era dipinta con colori chiari, primo fra tutti il rosa, ma il ritratto era scialbo e bidimensionale. Un quadro senza profondità per una donna priva di personalità. Davvero impressionante. Osservando la terza opera Bodenstein pensò subito a un autoritratto, ma poi capí che si trattava di Lars, il gemello di Thies. Era un quadro completamente diverso, quasi sfocato; mostrava un giovane con i tratti ancora immaturi e lo sguardo incerto.
«È come un bambino indifeso» spiegò Christine Terlinden quando il commissario le chiese di descrivere il figlio. «Da solo non sa cosa fare. Va in giro senza soldi. Non guida neanche la macchina. Con la sua malattia non ha potuto prendere la patente, il che è un bene. Non sa valutare i pericoli».
«E le persone?». Bodenstein la fissò.
«Cosa intende?» domandò lei, sorridendo perplessa.
«Sa valutare le persone? Può distinguere un amico da un nemico?».
«Sinceramente… non lo so. Thies non parla. Preferisce evitare il contatto con gli altri».
«Sa benissimo chi gli vuole bene e chi no» intervenne Heidi Brückner dal vano della porta. «Non è mica ritardato. In realtà non sapete che cos’ha».
Il commissario rimase molto sorpreso. La signora Terlinden non reagí. Rimase vicino alla finestra e osservò il grigiore di novembre al di là del vetro.
«Esistono diversi tipi di autismo» continuò la signora Brückner. «Voi avete smesso di incoraggiarlo, avete deciso di imbottirlo di farmaci per tenerlo calmo e non avere problemi».
Christine Terlinden si voltò. Il viso era impassibile, sembrava di ghiaccio.
«Mi scusi» disse a Bodenstein. «Devo far uscire i cani. Sono già le otto e mezza».
Lasciò la stanza e tacchettò su per la scala.
«Si rifugia nella sua routine». Nella voce di Heidi Brückner c’era una sfumatura di rassegnazione. «È sempre stata cosí. E credo che non cambierà mai». Il commissario la guardò. Era chiaro che non provava un grande affetto per la sorella maggiore. Perché era venuta?
«Mi segua, le mostro una cosa».
Risalirono insieme la scala e tornarono nel salone d’ingresso. Heidi Brückner si accertò che la sorella non fosse nei paraggi, poi raggiunse velocemente il guardaroba e afferrò una borsa appesa a un gancio.
«Volevo mostrarla a un amico farmacista» sussurrò. «Ma, date le circostanze, credo sia meglio consegnarla alla polizia».
«Di cosa sta parlando?» domandò Bodenstein, incuriosito.
«Di questa ricetta». La donna gli porse un foglietto ripiegato. «Sono anni che Thies è costretto a prendere questa roba».
Pia era seduta alla scrivania e con espressione cupa batteva al computer il verbale dell’interrogatorio di Pietsch, Dombrowski e Richter. Era arrabbiata perché non aveva trovato alcun appiglio per tenere in custodia Claudius Terlinden. Il suo avvocato era tornato alla carica e per la seconda volta ne aveva chiesto il rilascio immediato. Pia aveva consultato la dottoressa Engel e alla fine era stata costretta a liberare l’uomo. All’improvviso suonò il telefono.
«Qualcuno le ha fracassato la testa con un cric» disse Henning con voce sepolcrale, senza un saluto. «Nella vagina abbiamo trovato un dna estraneo, ma ci vorrà ancora un po’ per saperne di piú».
«Okay. Potreste rilevare le impronte sull’arma del delitto?».
«Vedrò se in laboratorio hanno un po’ di tempo». Pausa. «Pia…».
«Sí?».
«Per caso hai visto o sentito Miriam?».
«No. Perché?».
«Ieri quella stronza l’ha chiamata e le ha detto che l’ho messa incinta».
«Oh merda! E adesso?».
«Eh». Henning sospirò. «Miriam è rimasta perfettamente calma. Mi ha chiesto se era vero e io ho dovuto dire di sí. Allora, senza aggiungere una parola, ha preso la borsa e se n’è andata».
Pia si astenne dal fargli una predica su fedeltà e scappatelle. Aveva l’impressione che il suo ex marito non l’avrebbe sopportata. Anche se certe cose non la riguardavano piú, Henning le faceva pena.
«Sei sicuro che l’altra non ti voglia fregare? Al tuo posto m’informerei bene. È davvero incinta? Il bambino non può essere di un altro uomo?».
«Il problema non è la gravidanza» replicò lui.
«E qual è?».
Henning esitò un attimo.
«Ho tradito Miriam» disse infine. «Sono un vero idiota! Non mi perdonerà mai».
Bodenstein guardò la ricetta firmata dalla dottoressa Lauterbach e diede una scorsa ai farmaci prescritti. Ritalin, droperidolo, flufenazina, fentanil e lorazepam. Non era un medico, ma sapeva che l’autismo non era certo una malattia da curare con psicofarmaci e tranquillanti.
«Risolvere i problemi con quella robaccia chimica è molto piú facile che seguire un lungo cammino di psicoterapia». Heidi Brückner parlava a voce bassa, ma non riusciva a nascondere la rabbia. «Mia sorella ha sempre scelto la via piú semplice. Quando i bambini erano ancora piccoli, piuttosto che stare a casa a occuparsi di loro preferiva andare in giro con il marito. Thies e Lars sono stati molto trascurati nei primi anni di vita. Non si può sostituire una madre con domestiche che non conoscono una parola di tedesco».
«Dove vuole arrivare?».
La donna allargò le narici.
«Il problema di Thies è nato qui in casa» rispose. «Si è capito subito che qualcosa non andava. Era molto aggressivo, aveva frequenti scoppi di rabbia e non obbediva. Fino a quattro, cinque anni non ha detto una parola. Perché avrebbe dovuto? I genitori non c’erano mai. Claudius e Christine non hanno mai provato ad aiutarlo con terapie non farmacologiche, hanno sempre preferito le medicine. Thies rimaneva seduto immobile per settimane, completamente imbambolato. Appena gli toglievano i farmaci, però, andava fuori di testa. L’hanno fatto ricoverare nel reparto di psichiatria infantile e ce l’hanno lasciato per anni. Un vero dramma. Un ragazzo cosí sensibile e dotato costretto a vivere in mezzo ai malati di mente!».
«E gli altri non hanno fatto nulla?».
«Gli altri?» ripeté lei, sarcastica. «Thies non ha mai avuto contatti con persone normali o insegnanti in grado di capire la situazione».
«Sta dicendo che potrebbe non essere autistico?».
«No, è senz’altro autistico. Il fatto è che questo disturbo può presentarsi in tante forme diverse. Si va dal grave ritardo mentale alla sindrome di Asperger, che ha sintomi leggeri e permette di condurre una vita limitata ma indipendente. Molti adulti affetti da autismo imparano a cavarsela da soli». Scosse la testa. «Thies è vittima di due genitori egoisti. Sono riusciti a rovinare anche Lars».
«In che senso?».
«Da giovane Lars era molto timido. Non parlava quasi mai. Inoltre era molto religioso, voleva diventare prete» raccontò Heidi Brückner. «Purtroppo, dato che Thies non era in grado di prendere le redini dell’azienda, Claudius ha concentrato tutte le sue speranze sull’altro figlio. Ha impedito a Lars di studiare teologia, l’ha mandato in Inghilterra e l’ha costretto a laurearsi in economia aziendale. Quel povero ragazzo non è mai stato felice. E ora è morto».
«Se sapeva tutte queste cose, perché non è intervenuta?» chiese Bodenstein, sorpreso.
«Ci ho provato. Tanti anni fa». Heidi Brückner alzò le spalle. «Non potevo parlare con mia sorella, quindi mi sono rivolta a Claudius. Era il 1994, me lo ricordo bene perché ero appena tornata dal Sudest asiatico, dove avevo lavorato come cooperante allo sviluppo. Nel frattempo qui erano cambiate molte cose. Wilhelm, il fratello maggiore di mio cognato, era morto da un paio d’anni. Claudius aveva assunto la guida dell’azienda e si era trasferito con la famiglia in questa villa. Volevo rimanere per aiutare un po’ mia sorella».
Sbuffò.
«A lui non stava bene. Non gli sono mai piaciuta perché sono un tipo che non si lascia intimidire e controllare. Sono rimasta qui due settimane e ho visto una situazione davvero drammatica. Mia sorella perdeva tempo sui campi da golf mentre ai bambini pensavano la sua amica Daniela e una domestica del posto. Un giorno ho fatto una brutta litigata con mio cognato. Christine era a Maiorca, tanto per cambiare. Stava arredando la casa». Scoppiò in una risata sprezzante. «I figli, per lei, erano meno importanti dell’arredamento. Comunque, dopo aver fatto una passeggiata, sono rientrata in casa passando dal seminterrato. E in soggiorno ho sorpreso mio cognato con la figlia della domestica. Non riuscivo a credere ai miei occhi. La ragazza avrà avuto al massimo quattordici, quindici anni…».
Si interruppe e scrollò di nuovo il capo, disgustata dal ricordo di quello spettacolo. Bodenstein ascoltava con grande attenzione. Il racconto della donna coincideva con quello di Claudius Terlinden. Tranne per un particolare piuttosto importante.
«Era al colmo dell’eccitazione quando sono entrata nella stanza e ho cominciato a gridare. La ragazzina è corsa via e lui è rimasto in soggiorno con i pantaloni calati e la faccia tutta rossa. Non poteva certo negare. All’improvviso è arrivato anche Lars. Non dimenticherò mai la sua espressione. Da quel giorno non mi hanno piú voluta in questa casa. Christine non ha mai avuto il coraggio di ribellarsi al marito. Quando le ho raccontato per telefono quello che avevo visto, si è rifiutata di credermi. Mi ha dato dell’invidiosa e della bugiarda. Ci siamo riviste oggi per la prima volta dopo quattordici anni. E comunque non mi tratterrò a lungo».
Fece un sospiro.
«Ho sempre cercato di giustificare mia sorella» continuò dopo un attimo. «Forse anche per mettere a tacere il mio senso di colpa. Ho sempre saputo che prima o poi sarebbe successo qualcosa di grave, ma non mi aspettavo una simile tragedia».
«E adesso?».
Heidi Brückner afferrò subito il senso della domanda.
«Stamattina ho capito che i legami di parentela non bastano per proteggere qualcuno. Mia sorella si affida in tutto e per tutto a Daniela, come sempre. Perché dovrei rimanere?».
«La dottoressa Lauterbach non le piace?».
«No. Non mi è mai piaciuta. Ha qualcosa che non mi convince. Si preoccupa troppo per gli altri. E il modo in cui si comporta col marito, come se ne fosse la madre e non la moglie… Mi sembra strano. Quasi patologico». Spostò una ciocca impertinente che le era caduta sul viso. Bodenstein notò la fede all’anulare sinistro e per un istante provò una leggera delusione. Che assurdità! L’aveva appena conosciuta e di sicuro non l’avrebbe piú rivista dopo la fine delle indagini.
«E da quando ho visto tutti i medicinali che prescrive, mi piace ancora meno» continuò la Brückner. «Non sono una farmacista, ma mi sono informata il piú possibile sul disturbo di Thies. Ne so piú di lei».
«Oggi l’ha vista?».
«Sí, è venuta poco fa per vedere come stava Christine».
«E lei quando è arrivata qui ad Altenhain?».
«Ieri sera verso le nove e mezza. Dopo aver parlato per telefono con Christine e aver saputo cos’era successo, mi sono messa in viaggio. Da Schotten c’è voluta solo un’ora».
«Quindi la dottoressa Lauterbach non è rimasta qui tutta la notte?» domandò lui, stupito.
«No. È arrivata alle sette e mezza di questa mattina, ha bevuto un caffè e se n’è andata. Perché?». Heidi Brückner lo scrutò con i suoi occhi verdi, ma il commissario non rispose. Le informazioni si combinarono come per magia, ogni pezzo finí al posto giusto. Daniela Lauterbach aveva mentito. E non una volta sola.
«Qui c’è il mio numero». Le porse un biglietto da visita. «La ringrazio per aver parlato in tutta franchezza. Mi è stata di grande aiuto».
«Prego». Lei annuí e gli diede la mano. La sua stretta era calda e sicura. Bodenstein indugiò.
«Ah, nel caso avessi qualche altra domanda… dove posso trovarla?».
La donna accennò un sorriso. Prese il portafoglio, tirò fuori un biglietto e glielo consegnò.
«Come le ho già detto, non mi tratterrò a lungo. Appena mio cognato tornerà a casa, mi caccerà via».
Dopo colazione avevano passeggiato per un paio d’ore nella neve profonda, ammirando il bellissimo panorama delle Alpi bernesi imbiancate. Poi il tempo era cambiato improvvisamente, come succedeva spesso in alta montagna. In pochi minuti il cielo azzurro si era coperto di nuvole e la neve aveva cominciato a scendere fitta. Mano nella mano erano tornati allo chalet, si erano tolti velocemente i vestiti bagnati e senza nulla addosso erano saliti lungo la scala che portava al soppalco. Il calore della stufa si concentrava proprio lí in alto. Fuori il vento ululava e scuoteva le imposte. Si strinsero l’uno all’altra sul letto e si guardarono. Gli occhi di lei erano vicinissimi, Tobias sentiva il suo alito sulla pelle. Le scostò i capelli dal volto, poi, mentre Nadja scivolava lungo il suo corpo nudo, leccandolo e stuzzicandolo, chiuse gli occhi e cominciò ad ansimare. Il sudore usciva copioso da tutti i pori, i muscoli erano tesi fino allo spasmo. Con un gemito la tirò su di sé e osservò l’espressione vogliosa sul suo viso. Nadja prese a muoversi sempre piú veloce, spinta dal desiderio, mentre dal suo corpo cadevano piccole gocce di sudore. D’un tratto Tobias fu investito da un piacere inebriante, un’ondata di forza incredibile. Per un attimo fu come se le pareti oscillassero e il soppalco tremasse. Alla fine, stanchi e felici, ripresero fiato e aspettarono che il battito dei rispettivi cuori tornasse alla normalità. Tobias le prese il viso e la baciò a lungo e con dolcezza.
«È stato fantastico» sussurrò.
«Sí. E sarà sempre cosí» rispose lei con voce roca. «Solo tu e io».
Gli sfiorò la spalla con le labbra e sorridendo si strinse ancor piú al suo fianco. Lui tirò su la coperta e chiuse di nuovo gli occhi. Sí, sarebbe stato sempre cosí. I muscoli si rilassarono, la stanchezza prese il sopravvento.
All’improvviso vide il volto di Amelie. Fu come ricevere un pugno. Si svegliò all’istante. Come poteva godersi la vita con tanta calma quando lei era chissà dove e magari stava lottando per non morire?
«Che c’è?» domandò Nadja, mezza addormentata. Non era certo la situazione ideale per parlare di un’altra donna, ma in fondo erano entrambi preoccupati per la scomparsa della ragazza.
«Mi è appena venuta in mente Amelie» confessò. «Dove sarà? Spero che non le sia successo niente».
Nadja reagí in modo del tutto imprevisto. Sussultò, s’irrigidí e lo allontanò con uno spintone. Il suo bel viso era deformato dalla rabbia.
«Non ci posso credere!» gridò furibonda. «Scopi me e pensi a un’altra! Cos’è, non ti basto?».
Strinse i pugni e lo colpí sul petto con una forza insospettata. Tobias fece fatica a difendersi. Sconvolto e ansimante, la fissò senza dire una parola.
«Sei uno stronzo!» gridò ancora Nadja con le lacrime che le scendevano copiose. «Perché pensi sempre e solo alle altre? È tutto come una volta, quando mi raccontavi per filo e per segno quello che facevi o dicevi alle tue ragazze! Non ti è mai venuto in mente che per me poteva essere una sofferenza? E adesso te ne stai qui, a letto con me, e parli di quella… quella stronzetta!».
Nell’alto Taunus la nebbia fitta e umida si diradò e infine si dissolse. All’altezza di Glashütten, quando la b8 li portò finalmente fuori dal bosco, furono salutati da un bel sole. Bodenstein abbassò l’aletta parasole.
«Lauterbach si farà vivo» disse a Pia. «È un politico, non può rischiare di rovinarsi la reputazione. Sua moglie l’avrà già chiamato da un pezzo».
«Speriamo». Lei era molto meno ottimista del suo capo. «Faremo comunque sorvegliare Claudius Terlinden».
Le linee telefoniche tra l’ufficio 11, la procura e il tribunale si erano fatte incandescenti dopo l’ultima confessione di Jörg Richter. A quanto pareva, Laura Wagner era ancora viva quando lui e i suoi amici l’avevano buttata nel serbatoio interrato. La ragazza li aveva supplicati di non lasciarla lí, aveva pianto e gridato finché non avevano richiuso l’apertura con il coperchio. Ovviamente ci sarebbe stata una revisione del processo e Tobias Sartorius sarebbe stato riconosciuto non colpevole dell’omicidio di Laura Wagner. Sempre che si facesse rivedere. Per il momento non avevano la minima idea di dove fosse.
Bodenstein svoltò a sinistra e proseguí attraverso il villaggio di Kröftel. Poco prima di Heftrich si trovava la fattoria che i genitori di Stefanie Schneeberger avevano acquistato dieci anni prima. Un grosso cartello indicava il negozio di prodotti biologici interno alla fattoria. Il commissario capo parcheggiò nel cortile pulitissimo. Uscirono entrambi dalla macchina e si guardarono intorno. Della sobria e funzionale struttura costruita dal nulla negli anni Sessanta, come tante altre della zona, non era rimasto quasi niente. La fattoria era stata ristrutturata e ampliata. Sotto la nuova tettoia del corpo centrale, dove era situato il negozio, si vedevano diverse composizioni autunnali in attesa di compratori. I tetti erano coperti quasi completamente da pannelli solari e fotovoltaici. Due gatti si stiracchiavano e si godevano il sole sulla scala che conduceva alla porta d’ingresso dell’abitazione. Il negozio era chiuso per la pausa di mezzogiorno e sembrava che anche in casa non ci fosse nessuno. Bodenstein e Pia entrarono nella stalla dove, in recinti grandi e luminosi, mucche e vitelli stavano in piedi o sdraiati in un’abbondante quantità di paglia e ruminavano soddisfatti. Una bella differenza rispetto agli allevamenti con box strettissimi e pavimenti a griglia! Nel cortile posteriore due bambine di otto o nove anni stavano strigliando con cura un cavallo che accettava pazientemente le loro attenzioni.
«Ciao!». Pia le salutò allegramente. Le piccole, che si somigliavano come due gocce d’acqua, erano senza dubbio le sorelline della defunta Stefanie. Stessi capelli scuri, stessi occhi grandi e marroni. «Dove sono i vostri genitori?».
«La mamma è dai cavalli» rispose una delle due, indicando un lungo edificio dietro la stalla. «E papà sta portando via il letame col trattore».
«Ho capito. Grazie».
Entrando nella scuderia videro Beate Schneeberger che spazzava il corridoio. Quando un Jack Russell a caccia di topi uscí da un box vuoto e si mise ad abbaiare, la donna alzò la testa.
«Buongiorno!» gridò il commissario, fermandosi a distanza di sicurezza. Meglio non sottovalutare il cane, anche se era piuttosto piccolo.
«Venite, venite». La donna sorrise gentilmente, continuando a lavorare. «Bobby abbaia ma non morde. Cosa posso fare per voi?».
Bodenstein presentò se stesso e la collega. La signora Schneeberger si bloccò e smise di sorridere. Era una bella donna, ma ansia e dolore avevano lasciato tracce evidenti sul viso dai tratti armoniosi.
«Siamo venuti per informarla che abbiamo trovato il cadavere di sua figlia Stefanie» disse il commissario capo.
La signora lo guardò con i suoi grandi occhi scuri e annuí tranquillamente. Una reazione controllata come quella della madre di Laura.
«Andiamo in casa» suggerí. «Chiamo mio marito. Un paio di minuti e sarà qui».
Appoggiò la scopa alla porta di un box e prese il cellulare dalla tasca del gilet imbottito.
«Albert? Puoi tornare subito a casa? C’è la polizia. Hanno trovato Stefanie».
Amelie si svegliò perché in sogno le era sembrato di sentire un lieve gorgoglio. Aveva sete. Una sete terribile, davvero atroce. La lingua si incollava al palato, la bocca era secca come carta. Un paio d’ore prima aveva diviso con Thies gli ultimi biscotti e l’ultima razione d’acqua. Non era rimasto piú niente. Forse avrebbero dovuto bere la propria urina; Amelie aveva sentito di persone che l’avevano fatto e si erano salvate dalla morte per sete. Dall’alto penetrava una sottile striscia di luce, evidentemente fuori dalla prigione era giorno. Riconobbe la sagoma dello scaffale dall’altra parte della stanza. Thies era rannicchiato accanto a lei sul materasso, la testa sulle sue gambe. Dormiva profondamente. Com’era finito lí? Da chi erano stati rinchiusi? Dove diavolo si trovavano? Amelie si fece prendere dalla disperazione. Sentiva il bisogno di piangere, ma non voleva svegliare Thies, anche se aveva una gamba addormentata per il peso della sua testa. Si passò la lingua secca sulle labbra screpolate. Sí! Di nuovo un leggero gorgoglio! Come di acqua che esce da un rubinetto. Se fosse sopravvissuta, non avrebbe piú sprecato una sola goccia d’acqua. E non avrebbe piú vuotato bottiglie di coca mezze piene solo perché il sapore era svanito. Ora avrebbe dato qualunque cosa per un sorso di coca calda e insapore!
Lasciò vagare lo sguardo per la stanza e infine si soffermò sulla porta. Per un attimo non credette ai propri occhi. Da sotto la porta filtrava effettivamente dell’acqua! Tutta eccitata fece scivolare la testa di Thies sul materasso e imprecò contro la gamba che rifiutava di obbedirle. Camminando a quattro zampe si spostò sul pavimento bagnato. Leccò l’acqua come un cane assetato, si sciacquò il viso e scoppiò a ridere. Il buon Dio aveva ascoltato le sue preghiere disperate. Non sarebbe morta di sete! L’acqua continuava a entrare, scendeva dai tre gradini davanti alla porta con una graziosa cascatella. Amelie smise di ridere e si raddrizzò.
«Grazie, Signore, cosí può bastare» sussurrò, ma Dio non le diede ascolto. L’acqua continuava a penetrare nella stanza, aveva già formato un ampio lago sul pavimento di nudo cemento. Amelie cominciò a tremare di paura. Fino a poco prima non desiderava altro che un po’ d’acqua; ora il desiderio era stato esaudito, ma non nel modo sperato. Thies era sveglio. Seduto sul materasso con le gambe raccolte e le braccia intorno alle ginocchia, muoveva avanti e indietro la parte superiore del corpo. Amelie si spremette le meningi per trovare una soluzione, poi si avvicinò allo scaffale e lo scrollò. Era tutto arrugginito, ma sembrava piuttosto stabile. La persona che li aveva rinchiusi doveva aver aperto tutti i rubinetti. Probabilmente la stanza in cui si trovavano era piú bassa rispetto al resto della cantina. Il pavimento era privo di scarichi e la finestrella era collocata vicino al soffitto. Se il flusso non si fosse interrotto, presto o tardi l’ambiente si sarebbe riempito completamente d’acqua. Sarebbero annegati come topi! Amelie si guardò intorno disperata. Merda! Aveva resistito tanto tempo senza perdere la testa e senza cedere alla fame e alla sete, ora non aveva nessuna intenzione di annegare! Si piegò su Thies e lo afferrò per un braccio.
«Alzati!» ordinò. «Dai, Thies! Aiutami a mettere il materasso sopra lo scaffale!».
Con sua grande sorpresa lui smise subito di oscillare avanti e indietro e si alzò. Insieme riuscirono a sistemare il pesante materasso sull’ultimo ripiano. Forse l’acqua non sarebbe arrivata cosí in alto. Per un po’ sarebbero stati al sicuro, e intanto le probabilità di essere trovati sarebbero cresciute di ora in ora. L’acqua corrente avrebbe senz’altro attirato l’attenzione di qualcuno. Un vicino, un operaio dell’acquedotto… insomma, qualcuno! Amelie si arrampicò sullo scaffale stando ben attenta a non farlo cadere. Arrivata in cima tese il braccio verso Thies. Con un po’ di fortuna il vecchio mobile arrugginito avrebbe sopportato il peso di entrambi. Poco dopo erano seduti l’uno accanto all’altra sul materasso. L’acqua aveva ormai ricoperto il pavimento della stanza e continuava a filtrare da sotto la porta a velocità costante. Non potevano far altro che aspettare. Amelie spostò il peso del corpo e si distese cautamente.
«Ecco fatto, un altro desiderio esaudito» disse con umorismo un po’ macabro. «Da piccola ho sempre voluto un letto rialzato. Ora ce l’ho».
Beate Schneeberger condusse Bodenstein e Pia in sala da pranzo e li fece accomodare al grande tavolo sistemato vicino all’imponente stufa di maiolica, che diffondeva un piacevole tepore. Dai piccoli locali della vecchia fattoria era stata ricavata un’unica stanza molto spaziosa; le pareti divisorie erano scomparse, ma rimanevano ancora le travi di legno. Il risultato era un ambiente moderno e molto accogliente.
«Se non vi dispiace, vorrei aspettare mio marito. Nel frattempo preparo il tè».
La signora si allontanò per raggiungere la cucina a vista. Bodenstein e Pia si scambiarono un’occhiata. A differenza dei Wagner, che dopo la scomparsa della figlia maggiore erano andati in pezzi, i coniugi Schneeberger erano sopravvissuti al dolore e avevano cominciato una nuova vita. Avevano anche messo al mondo due gemelle.
Meno di cinque minuti dopo arrivò un uomo alto, magro e bianco di capelli con indosso una camicia a quadri e un paio di pantaloni blu da lavoro. Albert Schneeberger salutò entrambi con una stretta di mano, dando la precedenza a Pia. Anche lui era serio e controllato. Dopo che la signora ebbe servito il tè, Bodenstein cominciò a raccontare e con molto tatto riferí loro tutti i dettagli. Il signor Schneeberger era in piedi dietro la sedia della moglie, le mani posate delicatamente sulle sue spalle. Era chiaro che stavano soffrendo, ma sembravano anche sollevati. Finalmente non avevano piú dubbi riguardo alla sorte della figlia.
«Sapete già chi è stato?» domandò Beate Schneeberger.
«No. Non con certezza, almeno. Però siamo sicuri che non può essere stato Tobias Sartorius».
«Quindi l’hanno condannato ingiustamente?».
«Sembra proprio di sí».
Per un attimo regnò il silenzio. Assorto nei suoi pensieri, Albert Schneeberger spinse lo sguardo oltre i grandi vetri della sala e osservò le due figlie che pulivano un altro cavallo in perfetta sintonia.
«Trasferirci ad Altenhain è stato un errore, non dovevo lasciarmi convincere da Terlinden» disse improvvisamente. «Avevamo un appartamento a Francoforte, ma cercavamo una casa in campagna perché in città Stefanie stava rischiando di finire in un brutto giro».
«Quindi conosceva già Claudius Terlinden?».
«In realtà conoscevo Wilhelm, il fratello maggiore. Abbiamo studiato insieme e poi siamo diventati soci. Quando è morto, ho conosciuto Claudius. Ero un fornitore della sua azienda. Tra noi si è creato subito un rapporto di amicizia. O meglio, credevo fosse amicizia. È stato lui ad affittarci la casa vicino a villa Terlinden. Era di sua proprietà». Albert Schneeberger fece un sospiro e si sedette accanto alla moglie. «Sapevo che era molto interessato alla mia azienda. Il nostro know-how e i brevetti gli sarebbero serviti a realizzare il suo progetto, quindi ci teneva particolarmente. In quel periodo stava per trasformare l’azienda di famiglia in una società per azioni da quotare in borsa. A un certo punto mi ha fatto un’offerta. Ma c’erano altre persone interessate. La concorrenza era piuttosto forte».
Fece una pausa e si portò la tazza di tè alle labbra.
«Poi nostra figlia scomparve». Parlava con voce ferma, ma era chiaro che faceva fatica a rievocare quei dolorosi avvenimenti. «Terlinden e la moglie erano cosí premurosi e comprensivi. Si comportavano come due veri amici. Io non riuscivo piú a occuparmi degli affari. Eravamo tutti concentrati sulle ricerche di Stefanie. Ci univamo alle iniziative delle varie organizzazioni, andavamo in televisione e alla radio… Quando Terlinden mi ha fatto una seconda offerta, l’ho accettata. L’azienda non mi interessava piú, riuscivo a pensare solo a Stefanie. Speravo di ritrovarla ancora viva».
Schneeberger si schiarí la voce e fece uno sforzo per mantenere il controllo. La moglie cercò di aiutarlo prendendogli la mano.
«L’accordo era che Terlinden non avrebbe cambiato la struttura dell’azienda e avrebbe tenuto tutti i dipendenti» aggiunse l’uomo dopo un attimo. «Ma alla fine ha fatto esattamente il contrario. Ha trovato un punto debole nel contratto e l’ha sfruttato. È andato in borsa, ha smembrato la mia azienda e ha venduto tutto quello che non gli serviva. Su centotrenta dipendenti, ottanta sono rimasti senza lavoro. E io non ho potuto fare niente per evitarlo. È stato… orribile. Tutte quelle persone che conoscevo cosí bene si sono ritrovate disoccupate da un giorno all’altro. Se non avessi avuto la testa da un’altra parte, non sarebbe successo».
Si passò una mano sul viso.
«A quel punto io e Beate abbiamo deciso di lasciare Altenhain. Vivere accanto a quel… a quell’essere era diventato insopportabile, non ne potevamo piú della sua ipocrisia. Aveva in pugno i suoi dipendenti e gli abitanti del paese, li controllava come burattini, ma nascondeva tutto dietro una facciata di generosità».
«Crede che Terlinden possa aver fatto qualcosa a Stefanie per mettere le mani sulla sua azienda?» chiese Pia.
«Be’, dato che avete trovato il suo… corpo nella loro proprietà, non lo escluderei». La voce di Schneeberger tremò, le labbra si serrarono con decisione. «A dire il vero, io e mia moglie non riuscivamo a credere che Tobias avesse fatto del male a nostra figlia. Ma c’erano tutti quegli indizi, le testimonianze… Non sapevamo piú cosa pensare. All’inizio sospettavamo di Thies. Seguiva Stefanie come un’ombra…».
Alzò le spalle.
«Non so se Terlinden sia arrivato a tanto, ma di sicuro ha approfittato della nostra situazione senza farsi scrupoli. È uno speculatore e un bugiardo, non ha neanche un briciolo di coscienza. Per ottenere ciò che vuole sarebbe disposto a passare su un cadavere. Letteralmente».
Suonò il cellulare. Bodenstein, che aveva ceduto il volante a Pia, rispose senza guardare il display. Sentendo la voce di Cosima, trasalí per la sorpresa.
«Dobbiamo parlare» disse lei. «Sul serio».
«Adesso non ho tempo» replicò lui. «Siamo nel bel mezzo di un interrogatorio. Ti chiamo piú tardi».
Interruppe la telefonata senza una parola di saluto. Non l’aveva mai fatto.
Appena avevano lasciato la valle, come per incanto il sole aveva smesso di splendere nel cielo e una nebbia grigia e cupa aveva avvolto di nuovo ogni cosa. In silenzio attraversarono Glashütten.
«Cosa faresti al mio posto?» domandò il commissario capo di punto in bianco. Pia esitò. Ricordava benissimo la delusione che aveva provato per la scappatella di Henning con la procuratrice Valerie Löblich. Vivevano già separati da piú di un anno, eppure lui aveva continuato a negare finché non li aveva colti sul fatto. Se anche il matrimonio non fosse stato in crisi, quella sarebbe stata la fine. Al posto di Bodenstein non si sarebbe mai piú fidata di Cosima. Dopotutto lei gli aveva mentito nel peggiore dei modi. C’era una bella differenza tra una scappatella, che in alcune circostanze si poteva anche perdonare, e una relazione vera e propria.
«Dovresti parlare con lei» suggerí. «Avete una bambina piccola. E poi venticinque anni di matrimonio non si possono buttare via cosí».
«Che bel consiglio!» esclamò il capo, sarcastico. «Grazie mille. Ora dimmi quello che pensi veramente».
«Vuoi davvero saperlo?».
«Sí. Altrimenti non te l’avrei chiesto».
Pia fece un respiro profondo.
«Quando una cosa è rotta, è rotta. Si possono rimettere insieme i pezzi, ma non sarà piú come prima. Mi dispiace, ma io la penso cosí. Forse ti aspettavi un’altra risposta».
«No». Con grande sorpresa della collega, Bodenstein accennò un sorriso. Senza allegria, ma pur sempre un sorriso. «Appezzo molto la tua sincerità».
Il cellulare suonò di nuovo. Per evitare altre sorprese, prima di rispondere guardò il display.
«È Ostermann». Accettò la chiamata e ascoltò in silenzio per qualche secondo, poi annuí. «Informi la dottoressa Engel. Dovrà essere presente anche lei quando lo interrogheremo».
«Tobias?».
«No». Il commissario capo inspirò profondamente. «Il ministro della Pubblica istruzione. Ci sta aspettando insieme al suo avvocato».
Si consultarono davanti alla porta della stanza interrogatori dove Bodenstein aveva fatto portare Lauterbach e l’avvocato. Il commissario capo non voleva un’atmosfera rilassata e amichevole; Gregor Lauterbach doveva capire che non avrebbe ricevuto nessun trattamento speciale.
«Come vuole procedere?» s’informò la dottoressa Engel.
«Lo metterò sotto pressione» rispose lui. «Non abbiamo tempo da perdere. Amelie è scomparsa da una settimana. Se vogliamo ritrovarla ancora viva, non possiamo usare i guanti di velluto».
Nicola Engel annuí. Entrarono nella stanza spoglia, dove una delle pareti era occupata da un grande vetro specchiato. Al centro era sistemato un tavolo intorno al quale sedevano il signor ministro e il suo legale, che Bodenstein e Pia conoscevano e trovavano tutt’altro che simpatico. Anders era specializzato nella difesa di persone importanti coinvolte in casi di omicidio. Non gli importava di perdere in aula, le sue massime aspirazioni erano finire sui giornali e presentare ricorso alla corte suprema.
Gregor Lauterbach aveva afferrato la gravità della situazione ed era disposto a collaborare. Pallido e visibilmente provato, forní subito la sua versione dei fatti. La sera del 6 settembre 1997, raccontò con voce flebile, si era incontrato con Stefanie Schneeberger nel fienile dei Sartorius per dirle che non voleva una relazione con una studentessa. Aveva messo le cose in chiaro, poi era tornato subito a casa.
«Il giorno dopo appresi che Stefanie e Laura Wagner erano scomparse» continuò. «Qualcuno ci chiamò e ci disse che la polizia sospettava del ragazzo di Stefanie, Tobias Sartorius. Credevano che avesse ucciso entrambe le ragazze. Mia moglie aveva trovato un cric sporco di sangue nel nostro bidone dell’immondizia, cosí le spiegai che avevo parlato con Stefanie perché alla festa ci aveva provato con me e non mi aveva mollato neanche per un secondo. Eravamo sicuri che Tobias l’avesse uccisa in un impeto di rabbia e poi avesse buttato l’arma del delitto nel nostro bidone. Daniela voleva evitare che si facessero pettegolezzi su di me, quindi mi diede il cric e mi ordinò di seppellirlo da qualche parte. Non so perché non l’ho fatto… È stata una reazione istintiva… Comunque l’ho gettato nella fossa dei liquami dei Sartorius».
Bodenstein, Pia e la dottoressa Engel rimasero in silenzio. Anche l’avvocato non disse una parola; con le braccia incrociate sul petto e le labbra arricciate, continuò a fissare lo specchio che aveva di fronte.
«Io… ero convinto che Tobias avesse ucciso Stefanie» proseguí Lauterbach. «Ci aveva visti insieme. E poi lei l’aveva anche lasciato. Credevo che avesse buttato il cric nel nostro bidone per far ricadere i sospetti su di me. Per vendicarsi».
Bodenstein lo guardò con espressione dura. «Sta mentendo».
«No, glielo assicuro». Il ministro deglutí nervosamente e fece scivolare lo sguardo su Anders, che però era tutto concentrato sull’immagine riflessa nello specchio.
«Abbiamo scoperto che Tobias Sartorius non c’entra niente con l’omicidio di Laura Wagner». Il commissario capo era piú aggressivo del solito. «Abbiamo anche trovato il cadavere mummificato di Stefanie. Ora il cric è in laboratorio. Stanno rilevando le impronte digitali. Tra l’altro il medico legale ha rinvenuto tracce di un dna estraneo nella vagina della ragazza. Sperma. Se dovessimo scoprire che è il suo, finirà in un mare di guai».
Gregor Lauterbach si agitò sulla sedia e si passò la punta della lingua sulle labbra.
«Quanti anni aveva Stefanie?» domandò Bodenstein.
«Diciassette».
«E lei?».
«Ventisette». Il ministro rispose velocemente e a bassa voce, chinando il capo. Le guance pallide erano diventate improvvisamente rosso vivo.
«Allora, il 6 settembre 1997 lei ebbe un rapporto sessuale con Stefanie Schneeberger?».
Lauterbach sembrava impietrito.
«State bluffando» disse l’avvocato, degnandosi finalmente di intervenire. «La ragazza può essere andata con chiunque».
«Com’era vestito la sera del 6 settembre 1997?». Bodenstein non si lasciò distrarre e tenne lo sguardo fisso sul ministro. L’uomo si strinse nelle spalle, confuso.
«Glielo dico io. Indossava un paio di jeans, una camicia azzurra e sotto una maglietta verde con il logo della festa. Ai piedi scarpe marrone chiaro».
«Si può sapere dove vuole arrivare?» chiese l’avvocato.
«Guardi». Il commissario ignorò completamente Anders, prese le foto dei disegni di Thies e le mise sul tavolo una dopo l’altra. «Questi disegni sono di Thies Terlinden. Il ragazzo ha visto tutto. Entrambi gli omicidi. E questo è il suo modo di dircelo».
Batté l’indice su una delle persone ritratte.
«Sa chi è?». Il ministro osservò la figura e fece spallucce.
«È lei, signor Lauterbach. Ha baciato Stefanie davanti al fienile e poi avete fatto sesso».
«No» mormorò lui, bianco come un cadavere. «No, no, non è andata cosí. Dovete credermi!».
«Era il suo insegnante» insistette Bodenstein, per nulla impietosito. «Stefanie era sotto la sua responsabilità. Quello che ha fatto è punibile per legge. Ha capito subito di aver commesso un reato. Doveva assolutamente chiuderle la bocca. Un insegnante che fa sesso con un’allieva minorenne è rovinato per sempre».
Gregor Lauterbach scosse la testa.
«Ha ucciso Stefanie, ha gettato il cric nella fossa dei liquami ed è tornato a casa, dove ha confessato tutto a sua moglie. Poi ha seguito il suo consiglio ed è stato zitto. È andato tutto come doveva, o quasi. Per l’omicidio hanno arrestato, processato e condannato Tobias. C’era solo un piccolo problema: il cadavere di Stefanie era scomparso. Evidentemente qualcuno vi stava osservando».
Lauterbach continuò a scuotere la testa.
«Ha pensato subito a Thies Terlinden. Per evitare che il ragazzo parlasse, sua moglie – il medico curante di Thies – ha cominciato a minacciarlo e a imbottirlo di farmaci. La cosa ha funzionato. Per undici anni. Finché Tobias Sartorius è uscito di prigione. Quando il suo amico Andreas Hasse, membro dell’ufficio 11, le ha detto che ci stavamo interessando al vecchio caso di duplice omicidio e che avevamo addirittura richiesto i fascicoli, l’ha convinto a far sparire i suoi verbali d’interrogatorio».
«Non è vero» mormorò Lauterbach con voce roca. Aveva la fronte imperlata di sudore.
«Invece sí» ribatté Pia. «Hasse ha confessato ed è stato sospeso dal servizio. Vede, se non avesse deciso di strafare, ora non sarebbe qui».
«Insomma, cosa volete?» domandò l’avvocato Anders. «Anche se il mio cliente avesse fatto sesso con quella studentessa, ormai il reato di abuso sessuale sarebbe caduto in prescrizione».
«Ma il reato di omicidio no».
«Non ho ucciso Stefanie!».
«Se non è stato lei, perché ha chiesto a Hasse di rubare e distruggere quei verbali?».
«Perché… perché… pensavo fosse meglio tenere il mio nome fuori da tutta questa faccenda» ammise il ministro. Ora il sudore gli scendeva addirittura lungo le guance. «Potrei avere qualcosa da bere?».
Nicola Engel si alzò senza dire una parola, uscí dalla stanza e tornò poco dopo con una bottiglia d’acqua e un bicchiere. Li posò sul tavolo, proprio davanti a Lauterbach, e si rimise seduta. L’uomo svitò il tappo, riempí il bicchiere e lo vuotò tutto d’un fiato.
«Dov’è Amelie Fröhlich?» chiese Pia. «E dov’è Thies Terlinden?».
«Perché dovrei saperlo?» fece lui di rimando.
«Perché Thies aveva visto tutto e lei lo sapeva. Poi ha scoperto che Amelie si stava interessando ai fatti del 1997. Insieme rappresentavano una vera minaccia. Non è poi cosí strano pensare che lei abbia qualcosa a che vedere con la loro scomparsa. Sabato sera, quando Amelie è sparita, era in compagnia di Terlinden proprio nel luogo dove la ragazza è stata vista per l’ultima volta».
Nell’intensa luce dei tubi al neon Gregor Lauterbach sembrava uno zombie. Con il viso che scintillava per il sudore, sfregò le mani sulle cosce finché l’avvocato non gli toccò il braccio.
«Signor Lauterbach». Bodenstein si alzò, appoggiò i palmi sul tavolo e si piegò in avanti, parlando in tono minaccioso. «Confronteremo il suo dna con quello trovato nella vagina di Stefanie Schneeberger. Se il riscontro sarà positivo, dovrà rispondere dell’accusa di abuso sessuale nei confronti di una studentessa minorenne. Non importa se, come dice il suo avvocato, il reato è ormai caduto in prescrizione. Con un’accusa del genere dovrà dire addio al ministero della Pubblica istruzione. Farò di tutto per portarla in tribunale, può starne certo. E quando la stampa scoprirà che con il suo silenzio ha mandato in prigione per dieci anni un ragazzo innocente, che per di piú è stato suo allievo, be’… non devo certo spiegarle cosa succederà».
Si zittí e lasciò che le parole facessero effetto. Gregor Lauterbach tremava dalla testa ai piedi. Cosa lo spaventava di piú? Finire in tribunale o essere processato dalla stampa?
«Voglio offrirle un’ultima possibilità» aggiunse Bodenstein con voce piú tranquilla. «Sono disposto a non denunciarla alla procura, ma solo se mi aiuterà a trovare Amelie e Thies. Ci rifletta su e ne parli con il suo avvocato. Ora facciamo una pausa. Torneremo tra dieci minuti».
«Che bastardo!» esclamò Pia, osservando torvamente Lauterbach attraverso il vetro. «È stato lui. Ha ucciso Stefanie. E adesso ha rapito Amelie. Ne sono sicura».
Purtroppo non potevano sentire quello che veniva detto nella stanza interrogatori, perché l’avvocato Anders si era premurato di far spegnere il microfono.
«Terlinden gli ha senz’altro dato una mano». Bodenstein corrugò la fronte e bevve un sorso d’acqua dal bicchiere che stringeva tra le dita. «Ma come ha saputo che Amelie aveva scoperto qualcosa?».
«Non ne ho idea». Pia alzò le spalle. «Forse la ragazza ha parlato dei disegni a Claudius Terlinden. Anche se mi sembra poco probabile».
«Già. Ci manca ancora un tassello. Qualcuno o qualcosa deve aver spaventato Lauterbach».
«Hasse?» suggerí Nicola Engel da dietro.
«No, lui non sapeva dei disegni» rispose Pia. «Li abbiamo trovati dopo che è stato sospeso».
«Mmh. Allora è vero, ci manca un collegamento».
«Un attimo» intervenne Bodenstein. «Che ne pensate di Nadja von Bredow? Era presente quando i ragazzi hanno violentato Laura. E compare anche in un disegno con Stefanie e Lauterbach».
Nicola Engel e Pia lo guardarono con aria interrogativa.
«Può essere rimasta nel cortile per tutto il tempo. Non è andata a nascondere Laura con i ragazzi. Inoltre sapeva dei disegni di Thies. Gliene ha parlato Tobias!».
Le due donne capirono nello stesso istante dove voleva andare a parare. Forse Nadja von Bredow aveva usato le informazioni in suo possesso per fare pressione su Lauterbach e costringerlo ad agire.
«È ora di rientrare». Il commissario capo gettò il bicchiere nel cestino. «Lo abbiamo in pugno».
L’acqua saliva. Centimetro dopo centimetro. Nell’ultima luce del giorno Amelie aveva visto che era ormai arrivata al terzo gradino. Aveva provato a tappare la fessura sotto la porta con una grossa coperta di lana, ma la pressione aveva finito per spingerla via. Ora la stanza era immersa nell’oscurità, ma l’acqua continuava a scorrere senza il minimo rallentamento. Tentò invano di calcolare quanto ci sarebbe voluto perché il livello raggiungesse l’ultimo piano dello scaffale. Thies era sdraiato accanto a lei, vicinissimo. Amelie sentiva il suo petto alzarsi e abbassarsi. Ogni tanto tossiva e ansimava. Era bollente, aveva senz’altro la febbre; freddo e umidità non gli facevano certo bene. Nei giorni precedenti era già stato malato. Sarebbe riuscito a sopportare la reclusione in simili condizioni? Era cosí sensibile! Amelie aveva fatto due o tre tentativi di parlare con lui, ma non aveva ottenuto risposta.
«Thies». Aveva serie difficoltà ad articolare le parole. I denti le battevano cosí forte che apriva a malapena la bocca. «Thies, rispondimi!».
Niente. Per lei fu il colpo di grazia. Il ferreo autocontrollo che per giorni e giorni le aveva impedito di impazzire svaní tutt’a un tratto e dagli occhi cominciarono a sgorgare le lacrime. Non c’era piú speranza, sarebbero annegati lí dentro. Che morte orribile! Avrebbe fatto la fine di Biancaneve, che era ancora nascosta chissà dove, in attesa di essere trovata. La paura prese il sopravvento. Poi un tocco sulla schiena la fece sobbalzare. Thies le mise un braccio intorno al corpo, allacciò una gamba alle sue e la tirò piú vicino. Il suo calore la avvolse.
«Non piangere, Amelie» le sussurrò all’orecchio. «Non piangere. Sono qui con te».
«Come ha saputo di questi disegni?».
Bodenstein non perse tempo in chiacchiere. Gli bastò uno sguardo per valutare lo stato di Gregor Lauterbach. Il ministro non era un uomo particolarmente forte e soccombeva facilmente alla pressione. Dopo tutto ciò che era successo negli ultimi giorni, si trovava ormai sul punto di crollare.
«Ho ricevuto lettere e email anonime» confessò, alzando debolmente una mano per zittire l’avvocato che voleva protestare. «Insieme a una lettera c’era la foto di un mazzo di chiavi. Lo stesso che avevo perso all’epoca nel fienile. Ho capito subito che quella sera io e Stefanie non eravamo soli mentre…».
«Mentre?».
«Be’, lo sa». Lauterbach alzò lo sguardo; nei suoi occhi c’era solo autocommiserazione. «Stefanie mi aveva provocato per tutto il tempo. Non volevo… fare sesso con lei, ma… è stata cosí insistente che alla fine… non ho avuto scelta».
Bodenstein non disse niente. Dopo un attimo il ministro proseguí con voce piagnucolosa.
«Quando… quando mi sono accorto di aver perso le chiavi, ho provato a cercarle. Mia moglie mi avrebbe staccato la testa, nel mazzo c’erano anche quelle del suo studio!».
Alzò di nuovo lo sguardo, in cerca di comprensione. Il commissario capo dovette fare uno sforzo per nascondere il disprezzo crescente dietro un’espressione distaccata.
«Stefanie mi ha detto di sparire. Avrebbe cercato lei il mazzo di chiavi e poi me l’avrebbe portato».
«Ha seguito il suo consiglio?».
«Sí. Sono tornato a casa».
Bodenstein decise di crederci. Almeno per il momento.
«Quindi ha ricevuto lettere e email… Cosa dicevano?».
«Che Thies sapeva tutto. E che la polizia non avrebbe scoperto niente se avessi continuato a tenere la bocca chiusa».
«Tenere la bocca chiusa? A che proposito?».
Lauterbach alzò le spalle e scosse la testa.
«Chi può aver scritto quelle lettere?».
Un’altra alzata di spalle.
«Avrà pure qualche sospetto! Signor Lauterbach!». Il commissario si piegò in avanti. «In questo momento tacere è la cosa peggiore che possa fare!».
«Non ne ho idea!» replicò lui, confuso e disperato. Era chiaro che non stava fingendo. Solo e con le spalle al muro, Gregor Lauterbach stava mostrando tutta la sua debolezza. Lontano dalla moglie si trasformava in un omuncolo senza spina dorsale. «Non so piú niente! Mia moglie mi ha parlato dei disegni di Thies, ma non può essere stato lui a mandarmi quei messaggi».
«Quando le ha parlato dei disegni?».
«Non lo so». Il ministro appoggiò la fronte alle mani e scrollò la testa. «Non me lo ricordo».
«Si sforzi» insistette Bodenstein. «È successo prima o dopo la scomparsa di Amelie? E sua moglie come ha saputo dei disegni? Chi può avergliene parlato?».
«Mio Dio, non lo so! Non lo so!».
«Ci pensi!». Il commissario si raddrizzò. «Lo scorso sabato, quando Amelie è scomparsa, ha cenato con sua moglie e i Terlinden all’Ebony Club di Francoforte. Le due signore se ne sono andate verso le nove e mezza, mentre lei e Claudius Terlinden avete lasciato il locale piú tardi. Cos’avete fatto una volta usciti dall’Ebony Club?».
Gregor Lauterbach rifletté per un po’; ormai aveva capito che la polizia sapeva molto piú di quanto si aspettasse.
«D’accordo. Credo che mia moglie me ne abbia parlato mentre andavamo a Francoforte. Mi ha detto che Thies aveva dato alla figlia dei vicini alcuni disegni in cui comparivo anch’io» ammise controvoglia. «Lei l’aveva saputo quella mattina. Una donna le aveva fatto una telefonata anonima. Poi non abbiamo piú avuto occasione di parlarne. Daniela e Christine hanno lasciato il ristorante alle nove e mezza. Io ho chiesto informazioni su Amelie Fröhlich al direttore, Andreas Jagielski, e ho scoperto che lavorava come cameriera al Cavallino Nero. Jagielski ha chiamato la moglie e mi ha confermato che la ragazza era al lavoro. A quel punto io e Claudius siamo tornati ad Altenhain e ci siamo fermati nel parcheggio davanti al locale. Abbiamo aspettato un bel po’, ma la ragazza non è uscita».
«Cosa volevate da Amelie?».
«Solo sapere se mi aveva scritto lei quelle lettere anonime».
«È stata lei?».
«Non lo so, non ho potuto chiederglielo. Siamo rimasti in macchina ad aspettarla, ma alle undici, undici e mezza, è arrivata Nathalie. Voglio dire Nadja. Nadja von Bredow. Adesso si fa chiamare cosí».
Bodenstein alzò gli occhi e incontrò lo sguardo di Pia.
«Ha fatto tutto il giro del parcheggio» continuò Lauterbach. «Poi ha guardato tra i cespugli ed è andata alla fermata dell’autobus. All’improvviso ci siamo accorti che sulla panchina era seduto un uomo. Nadja ha tentato di svegliarlo, ma non ci è riuscita. Alla fine ha ripreso la macchina ed è sparita. Claudius ha chiamato la signora Jagielski con il cellulare e le ha chiesto se Amelie era ancora al lavoro, ma si è sentito rispondere che la ragazza se n’era già andata da un pezzo. Allora Claudius ha deciso di fare un salto in ufficio. Temeva che la polizia avrebbe cominciato a ficcare il naso qua e là. Voleva spostare alcuni documenti compromettenti per evitare che li trovaste in caso di perquisizione».
«Che tipo di documenti?» domandò il commissario.
Gregor Lauterbach esitò un attimo, poi cedette e rivelò che Terlinden si era fatto strada nel corso degli anni corrompendo un sacco di persone. Era sempre stato un uomo abbiente, ma alla fine degli anni Novanta era diventato ricchissimo grazie all’ampliamento e alla quotazione in borsa dell’azienda di famiglia. Aveva acquisito una grande influenza in campo economico e politico. Faceva ottimi affari con paesi ufficialmente sotto embargo, come Iran e Corea del Nord.
«Quella sera voleva far sparire i documenti relativi a queste operazioni» concluse il ministro. Ora che parlava di cose che non lo riguardavano direttamente, appariva piú sicuro. «Non li voleva distruggere, quindi li abbiamo portati nel mio appartamento di Idstein».
«Mmh».
«Non c’entro con la scomparsa di Amelie e Thies. E non ho ucciso nessuno».
«Vedremo». Bodenstein raccolse le foto e le mise via. «Può tornare a casa. La terremo sotto sorveglianza e controlleremo il suo telefono. Dovrà restare a disposizione e informarmi ogni volta che lascerà il domicilio».
Lauterbach annuí umilmente. «Potreste evitare di fare il mio nome alla stampa?».
«Mi dispiace, ma non posso prometterglielo». Il commissario tese la mano. «La chiave dell’appartamento di Idstein, per favore».