Mercoledí, 12 novembre 2008

Nicola Engel guardò indispettita ciò che rimaneva dell’ufficio 11. Alla riunione mattutina erano solo in quattro; oltre a Behnke mancava anche Kathrin Fachinger. Mentre Ostermann parlava dei risultati poco soddisfacenti sul fronte delle segnalazioni, Bodenstein girava il caffè con aria assente. Sembrava stanco morto. Come se non avesse chiuso occhio, pensò Pia. Cosa diavolo gli stava succedendo? Da un paio di giorni dava l’impressione di non essere in sé. Forse aveva problemi in famiglia. L’anno prima, a maggio, aveva attraversato un periodo simile. Tutto si era risolto quando aveva scoperto che le sue preoccupazioni sulla salute di Cosima erano infondate; semplicemente non sapeva della gravidanza.

«Allora…». Dato che Bodenstein non interveniva, fu la dottoressa Engel a prendere la parola. «Lo scheletro trovato nel serbatoio dell’aeroporto è di Laura Wagner, scomparsa nel settembre del 1997 da Altenhain. Il dna coincide, inoltre abbiamo una frattura al braccio sinistro presente anche nelle radiografie ante mortem».

Pia e Ostermann avevano già letto il contenuto del rapporto medico-legale, ma ascoltarono con pazienza finché il loro capo non ebbe finito la sua esposizione. Forse la dottoressa Engel si intrometteva continuamente nel lavoro della squadra perchè aveva il timore di annoiarsi. Il suo predecessore, il dottor Nierhoff, si faceva vedere a ogni morte di papa, solo quando c’era da risolvere un caso eclatante.

«C’è una cosa che non capisco» disse Pia. «Come ha fatto Tobias Sartorius a raggiungere Eschborn, entrare in una zona militare recintata e protetta e scaricare il cadavere in un serbatoio interrato in soli tre quarti d’ora?».

Gli altri rimasero in silenzio; tutti gli occhi, tranne quelli di Bodenstein, erano fissi su di lei.

«Si presume che Sartorius abbia ucciso entrambe le ragazze nella casa di famiglia. I vicini l’hanno notato quando è entrato con Laura Wagner e poi quando ha aperto la porta a Stefanie Schneeberger. Ma abbiamo anche la testimonianza degli amici, dai quali è stato visto intorno a mezzanotte, quando sono andati a prenderlo».

«Dove vuole arrivare?» chiese la dottoressa Engel.

«Forse non è stato Tobias Sartorius».

«Certo che è stato lui!» esclamò Hasse. «Ti ricordo che ha subito una condanna».

«Alla fine di un processo indiziario. Leggendo attentamente gli atti ho notato alcune incongruenze. Alle undici meno un quarto un vicino ha visto Stefanie Schneeberger entrare nella casa di Tobias Sartorius e mezz’ora dopo due testimoni hanno riconosciuto la sua auto in paese».

«Esatto» replicò Hasse. «Ha ucciso le due ragazze, ha messo i cadaveri in macchina e se n’è liberato. Secondo il tribunale è andata cosí».

«Ma all’epoca del processo si credeva che avesse nascosto i corpi non lontano da Altenhain. Oggi sappiamo che non è vero. E come ha fatto a entrare in una zona militare recintata?».

«I ragazzi ci sono sempre andati di nascosto per fare baldoria. Conoscevano qualche passaggio segreto».

«No, non ha senso». Pia scosse la testa. «Com’è possibile che un tipo mezzo ubriaco abbia fatto tutto da solo? E dov’è finito il secondo cadavere? Nel serbatoio non c’era! Credetemi, non ha avuto abbastanza tempo!».

«Commissaria Kirchhoff» disse la Engel in tono di rimprovero. «Il caso è chiuso. Il responsabile è stato arrestato, processato e condannato tanti anni fa e ormai ha scontato la sua pena. Andate dai genitori della ragazza, informateli che abbiamo trovato i resti della figlia e basta!».

 

«E basta!» ripeté Pia, scimmiottando il capo. «Non ho nessuna intenzione di lasciar perdere. È chiaro che hanno indagato in modo sommario e sono giunti a conclusioni totalmente arbitrarie. Mi domando perché!».

Bodenstein non aprí bocca. Dopo averle ceduto il volante, aveva ripiegato le lunghe gambe nella piccola e scomoda Opel di servizio, aveva chiuso gli occhi e non aveva piú emesso suono.

«Insomma, Oliver, si può sapere cos’hai?» chiese infine lei, spazientita. «Non ho voglia di andare in giro tutto il giorno con uno piú silenzioso di un morto!».

Lui aprí un occhio e sospirò. «Ieri Cosima mi ha mentito».

Ah, un problema familiare. Come aveva immaginato.

«E allora? Chi non ha mai detto una bugia?».

«Io». Bodenstein aprí anche l’altro occhio. «Sono sempre stato sincero con Cosima. Le ho raccontato perfino quello che è successo con la Kaltensee».

Dopo essersi schiarito la voce, le spiegò cos’era accaduto il giorno prima. Pia ascoltò con crescente disagio. Sembrava una cosa seria. Incredibilmente, a causa del suo aristocratico senso dell’onore, Bodenstein si sentiva in colpa per aver cercato delle prove nel cellulare della moglie.

«Non pensare subito al peggio, potrebbe esserci un’altra spiegazione» gli disse, anche se non ci credeva. Cosima von Bodenstein non solo era una donna bella ed esuberante, ma grazie al lavoro di produttrice era anche autonoma e indipendente dal punto di vista economico. Negli ultimi tempi erano sorti diversi contrasti tra lei e il marito. Pia l’aveva notato, ma sembrava che Bodenstein non avesse dato grande importanza alla cosa. Per questo ora era cosí sorpreso. Viveva in una torre d’avorio. Questo suo atteggiamento era ancora piú sorprendente se si considerava che era incuriosito da ciò che si nascondeva dietro le altre relazioni di coppia, quelle delle persone che incontravano tutti i giorni per lavoro. Al contrario di Pia, non si lasciava quasi mai coinvolgere emotivamente in un caso, conservava sempre una certa distanza interiore. A lei sembrava un po’ presuntuoso. Pensava che certe cose non gli potessero capitare? Credeva di essere immune ai banali problemi tra marito e moglie? Era davvero convinto che Cosima fosse felice di stare a casa con una bambina piccola ad aspettare il suo ritorno? Era abituata a una vita completamente diversa.

«Mi dice che è al lavoro e invece si incontra con qualcuno» replicò Bodenstein. «Ovvio che pensi al peggio! Cosa dovrei fare secondo te?».

Pia rifletté un attimo. Al suo posto avrebbe fatto di tutto per scoprire la verità. Probabilmente avrebbe chiesto subito spiegazioni al proprio compagno, l’avrebbe affrontato con urla, lacrime e accuse. Non sarebbe riuscita a far finta di niente.

«Parla con lei» consigliò. «Non credo che riuscirà a mentire guardandoti negli occhi».

«No» rispose lui deciso. Pia fece un gran sospiro. Oliver von Bodenstein era diverso dalla maggioranza delle persone. Forse, per salvare le apparenze e proteggere la famiglia, avrebbe addirittura accettato un rivale e sofferto in silenzio. Il suo autocontrollo era da dieci e lode.

«Ti sei scritto il numero di cellulare?».

«Sí».

«Dammelo. Chiamerò io. Da un numero riservato».

«Meglio di no».

«Non vuoi sapere la verità?».

Bodenstein esitò.

«Senti, questa cosa ti divorerà. Hai bisogno di sapere».

«Maledizione!» sbottò lui. «Se solo non l’avessi vista! Se solo non l’avessi chiamata!».

«Ma l’hai fatto. E Cosima ti ha mentito».

Il commissario inspirò profondamente e si passò una mano tra i capelli. Pia non l’aveva mai visto in uno stato simile; non era cosí turbato neanche quando aveva scoperto che la figlia di Vera Kaltensee lo aveva drogato e costretto a fare sesso per poterlo poi ricattare. La cosa la rattristò molto.

«Cosa faccio se scopro… che mi tradisce?».

«Ti è già capitato di trarre conclusioni sbagliate dal suo comportamento» gli ricordò Pia, cercando di tranquillizzarlo.

«Questa volta è diverso. Se sospettassi un tradimento da parte del tuo uomo, vorresti sapere la verità?».

«Sí, assolutamente».

«E se…». Bodenstein s’interruppe e lei non disse niente. Avevano raggiunto la falegnameria di Manfred Wagner nella zona industriale di Altenhain. Uomini, pensò. Erano tutti uguali. Nessun problema a prendere una decisione di lavoro ma, quando si trattava di rapporti personali e sentimenti, diventavano tutti dei maledetti vigliacchi.

 

Amelie aspettò che la matrigna uscisse di casa. Barbara le aveva creduto subito quando aveva detto che doveva entrare a scuola alla seconda ora. Sorrise tra sé e sé. La nuova moglie di suo padre era talmente ingenua che non c’era gusto a raccontarle bugie. Con la mamma era tutta un’altra storia. Lei era sospettosissima, diffidava di ogni parola che le usciva di bocca. Per questo Amelie aveva preso l’abitudine di mentire. Ogni tanto riusciva a far passare una bugia per la verità.

Dopo che Barbara si fu allontanata con i due figli a bordo della sua Mini rossa, Amelie sgattaiolò fuori e corse verso la proprietà dei Sartorius. Era ancora buio e per strada non c’era anima viva. In giro non si vedeva neanche Thies. Con il cuore che le martellava nel petto, si diresse verso la casa, passando accanto al fienile e alla lunga stalla che da tempo non ospitava piú animali. Continuò a camminare rasente al muro ma, non appena ebbe voltato l’angolo, si trovò improvvisamente davanti due uomini con il viso coperto. Per poco non morí d’infarto. Prima che potesse gridare, uno dei due la afferrò e le mise una mano sulla bocca; poi, in modo brutale, le piegò le braccia dietro la schiena e la sbatté contro il muro. Il dolore fu cosí intenso che Amelie rimase senza fiato. Perché il tizio le stava facendo tanto male? E cosa stavano combinando nella proprietà dei Sartorius alle sette e mezza del mattino? Non era la prima volta che si trovava in una situazione pericolosa; superato lo shock iniziale, invece di provare paura si infuriò. Cominciò a lottare per liberarsi dalla stretta d’acciaio dell’uomo, tirando calci a destra e a manca e cercando di strappargli la maschera dal viso. Con la forza della disperazione riuscí a scoprire la bocca. Davanti agli occhi aveva un pezzo di pelle nuda, un punto scoperto tra il guanto e la manica della giacca. Vi affondò i denti piú forte che poté. L’uomo cacciò un urlo soffocato e la buttò a terra. Né lui né il compagno si aspettavano una resistenza cosí tenace; ansimavano entrambi per lo sforzo e la rabbia. Il secondo uomo le sferrò un calcio nelle costole che le tolse il respiro, dopodiché le fece vedere le stelle con un pugno in faccia. L’istinto le suggerí di rimanere lunga distesa e di non fiatare. Sentí dei passi che si allontanavano in fretta, poi solo il proprio respiro affannoso. Tutt’intorno era di nuovo silenzio.

«Merda!». Tentò faticosamente di rialzarsi. Era tutta sporca e bagnata. Il sangue caldo le scendeva lungo il mento, gocciolando sulle mani. Quei bastardi l’avevano ridotta male.

 

Guardando la falegnameria e la casa adiacente si aveva l’impressione che i soldi fossero finiti a metà dei lavori. Muri non intonacati, un cortile mezzo lastricato e mezzo asfaltato, per giunta pieno di buche… La stessa atmosfera deprimente che si respirava a casa dei Sartorius. Ovunque erano accatastate assi e tavole di legno, alcune ricoperte di muschio come se fossero lí da anni. Porte avvolte nella plastica erano appoggiate a una parete del laboratorio e tutto era coperto da uno strato di sporcizia.

Pia suonò il campanello di casa, poi quello della porta con la scritta “Ufficio”, ma non successe niente. All’interno della falegnameria c’era una luce, quindi spinse la porta di metallo ed entrò, seguita da Bodenstein. L’aria profumava di legno fresco.

«C’è nessuno?» chiese ad alta voce. Nel laboratorio regnava un gran disordine; lo attraversarono da una parte all’altra e dietro una pila di assi trovarono un ragazzo con gli auricolari che muoveva la testa a ritmo di musica. Con una mano stava verniciando qualcosa e in bocca aveva una sigaretta. Quando Bodenstein gli toccò una spalla, si girò di scatto. Si tolse gli auricolari e li guardò con aria colpevole.

«Spenga la sigaretta» ordinò Pia e lui obbedí all’istante. «Vorremmo parlare con il signore o la signora Wagner. Sa dove possiamo trovarli?».

«Nell’ufficio là in fondo» rispose il giovane. «Almeno credo».

«Grazie». Pia non perse tempo a ricordargli le norme antincendio e si rimise in cerca del mastro falegname, al quale la cosa sembrava non interessare. Trovarono Manfred Wagner in un minuscolo ufficio senza finestre, talmente ingombro che starci in tre era un’impresa. L’uomo aveva posato il ricevitore accanto al telefono ed era intento a leggere la Bild Zeitung. Era evidente che ai clienti non veniva data molta importanza. La porta era aperta, ma Bodenstein bussò comunque, per avvertirlo che aveva visite. Wagner alzò gli occhi dal giornale controvoglia.

«Sí?». Aveva circa cinquantacinque anni e nonostante l’ora puzzava già di alcol. Indossava una tuta da lavoro marrone che senza dubbio non vedeva una lavatrice da settimane.

«Signor Wagner?» domandò Pia. «Siamo della polizia giudiziaria di Hofheim. Vorremmo parlare con lei e sua moglie».

L’uomo impallidí e la guardò con occhi rossi e acquosi come un coniglio davanti a un serpente. Nello stesso momento fuori passò un’auto. Si udí il rumore di uno sportello che si chiudeva.

«È mia… mia moglie» balbettò il falegname. Andrea Wagner entrò nel laboratorio tacchettando sul pavimento di cemento. Aveva i capelli corti e ossigenati ed era molto magra. In passato era stata sicuramente una bella donna, ma ora aveva un’aria patita. Le preoccupazioni, le amarezze e i dubbi sulla sorte della figlia avevano segnato il suo viso con profonde rughe.

«Siamo venuti a informarvi che abbiamo trovato i resti di vostra figlia Laura» disse Bodenstein dopo essersi presentato alla signora. Per un attimo regnò il silenzio. Manfred Wagner emise un gemito; poi, mentre una lacrima gli scendeva lungo la guancia non rasata, nascose il volto tra le mani. La moglie rimase calma e immobile.

«Dove?» chiese.

«Nella zona del vecchio aeroporto militare di Eschborn».

Andrea Wagner fece un profondo sospiro. «Finalmente».

Se anche avesse usato dieci frasi non sarebbe riuscita a comunicare il suo sollievo in modo altrettanto efficace. Quanti giorni di inutile speranza e di infinita disperazione avevano alle spalle entrambi? Cosa si provava a essere continuamente perseguitati dai fantasmi del passato? I genitori dell’altra ragazza se n’erano andati dal paese, ma i Wagner non potevano abbandonare la falegnameria, la loro unica fonte di reddito. Erano dovuti rimanere, anche se pian piano le speranze di veder tornare Laura si erano affievolite. Vivere nell’incertezza per undici anni era stato senza dubbio un inferno. Forse la possibilità di dire addio alla figlia con una degna sepoltura li avrebbe finalmente aiutati.

 

«Non è necessario» disse Amelie. «Non è cosí grave. È solo un brutto livido».

Non aveva nessuna intenzione di spogliarsi per mostrare a Tobias il punto dove uno dei due bastardi l’aveva colpita con la scarpa. Stare seduta di fronte a lui in uno stato pietoso era già abbastanza imbarazzante.

«Okay, ma questa ferita ha bisogno di qualche punto».

«Sciocchezze! Guarirà da sola».

Tobias l’aveva guardata come un fantasma quando, poco dopo le sette e mezza, aveva suonato il campanello tutta sporca e insanguinata e gli aveva raccontato di essere stata aggredita da due uomini mascherati proprio nel suo cortile! Poi il giovane Sartorius l’aveva fatta accomodare su una sedia della cucina e con cautela le aveva ripulito il viso. La perdita di sangue dal naso si era fermata, ma la ferita sul sopracciglio, i cui margini erano tenuti insieme alla bell’e meglio da due cerotti, avrebbe ricominciato presto a sanguinare.

«Sei bravo». Amelie fece un mezzo sorriso e diede un tiro alla sigaretta. Si sentiva tremare e aveva il cuore che batteva forte, ma non per l’aggressione. Il motivo era Tobias. Da vicino e alla luce del sole sembrava ancora piú bello. Il tocco delle sue mani era elettrizzante e il modo in cui la guardava con quegli occhi azzurrissimi, preoccupato e pensieroso… le rendeva quasi impossibile tenere i nervi saldi. Non c’era da meravigliarsi che una volta tutte le ragazze di Altenhain fossero ai suoi piedi!

«Chissà cosa volevano quei due». Mentre Tobias armeggiava davanti alla macchina del caffè, Amelie si guardò intorno con curiosità. Si trovava nella casa in cui erano state uccise le due ragazze, Biancaneve e Laura.

«Probabilmente stavano aspettando me. Tu gli hai messo i bastoni fra le ruote» ipotizzò lui. Dopo aver posato due tazze sul tavolo, aggiunse la zuccheriera e prese il latte dal frigo.

«E lo dici cosí? Non hai paura?».

Tobias si appoggiò al mobile, incrociò le braccia sul petto e la fissò con la testa inclinata. «Cosa dovrei fare? Nascondermi? Andare via? Non gli farò questo favore».

«Sai chi potevano essere?».

«Posso immaginarmelo».

Sotto il suo sguardo Amelie si sentí avvampare. Cosa diavolo le stava succedendo? Non aveva mai provato niente di simile! Trovò a malapena il coraggio di guardarlo negli occhi e capí che aveva la strana capacità di metterla in subbuglio. La macchina del caffè emise sbuffi di vapore e suoni poco incoraggianti.

«Dovresti eliminare le incrostazioni di calcare» osservò. Inaspettatamente il volto serio di Tobias fu illuminato da un sorriso e cambiò radicalmente. Amelie rimase incantata a fissarlo. D’un tratto sentí il folle desiderio di proteggerlo e aiutarlo.

«La macchina del caffè non rientra nelle mie priorità» spiegò lui, sempre sorridendo. «Per prima cosa devo fare un po’ di ordine in cortile».

Mentre parlava, qualcuno suonò il campanello. Tobias si avvicinò alla finestra e il sorriso scomparve dal suo volto.

«Ancora la polizia» disse, improvvisamente teso. «Devi andartene. Non voglio che ti vedano qui».

Amelie annuí e si alzò. Lui la condusse in corridoio e le mostrò una porta.

«Da quella parte si va verso la stalla. Ce la fai da sola?».

«Certo! Non ho mica paura» rispose lei in tono esageratamente disinvolto. «Ormai è pieno giorno, dubito che quei due siano ancora là fuori». Per un istante sostenne il suo sguardo, poi abbassò gli occhi.

«Grazie» sussurrò Tobias. «Sei una ragazza coraggiosa».

Amelie fece un gesto noncurante con la mano e si voltò per uscire. Ma lui la trattenne, come se di colpo avesse ricordato qualcosa.

«Aspetta».

«Che c’è?».

«Come mai eri nel nostro cortile?».

«So chi è l’uomo che ha spinto tua madre giú dal ponte» disse lei dopo un attimo di esitazione. «Ho visto la foto sul giornale e l’ho riconosciuto. È Manfred Wagner, il padre di Laura».

 

«Ancora voi». Tobias Sartorius non era felice di rivedere la polizia e non tentò minimamente di nasconderlo. «Non ho tempo. Cosa volete?».

Pia spalancò le narici. Nell’aria c’era profumo di caffè.

«Ha visite?» domandò. A Bodenstein era sembrato di vedere una seconda persona attraverso la finestra della cucina. Una donna con i capelli scuri.

«No, sono solo». Tobias rimase sulla soglia con le braccia incrociate. Non li invitò a entrare, anche se aveva cominciato a piovere. Pazienza.

«Vedo che si è rimboccato le maniche» continuò Pia, sorridendo amichevolmente. «Ha dato una bella ripulita».

La gentilezza non serví a niente. Tobias Sartorius mantenne le distanze; il suo atteggiamento era freddo e distaccato.

«Volevamo solo informarla che abbiamo trovato i resti di Laura Wagner» intervenne Bodenstein.

«Dove?».

«Dovrebbe saperlo meglio di noi» rispose seccamente il commissario. «Dopotutto è stato lei a mettere il corpo di Laura nel bagagliaio e a portarlo là la sera del 6 settembre 1997».

«No, non sono stato io». Tobias si accigliò, ma la voce rimase calma. «Dopo che Laura se n’è andata da casa mia, non l’ho piú vista. Ma questo l’ho già ripetuto decine di volte, no?».

«Lo scheletro è stato trovato durante dei lavori nell’ex aeroporto militare di Eschborn» spiegò Pia. «In un serbatoio interrato».

Tobias la guardò e deglutí. I suoi occhi riflettevano uno stato di confusione mentale.

«Nel vecchio aeroporto» mormorò tra sé e sé. «Non ci avrei mai pensato».

Tutto il suo distacco era venuto meno di colpo. Sembrava turbato, addirittura sconvolto. Eppure aveva avuto undici anni per prepararsi al momento in cui avrebbe dovuto confrontarsi con il suo misfatto. Doveva sapere che prima o poi i cadaveri sarebbero saltati fuori. Forse era una reazione studiata, forse aveva pensato e ripensato a come fingersi sorpreso in modo credibile. D’altra parte… perché avrebbe dovuto? Aveva scontato la pena, poteva anche fregarsene dei cadaveri. Le tornò in mente la descrizione fatta da Hasse: freddo, presuntuoso, arrogante. Era davvero cosí?

«Ci piacerebbe sapere se era già morta quando l’ha buttata in quel serbatoio» intervenne di nuovo Bodenstein. Pia osservava attentamente il giovane Sartorius. Era pallidissimo e aveva gli angoli della bocca che tremavano, come se volesse scoppiare in lacrime.

«Purtroppo non posso darvi una risposta» disse in tono piatto.

«E chi può darcela?» chiese Pia.

«Sono undici anni che cerco di capirlo. Ci penso notte e giorno». Ora Tobias faticava a controllare la voce. «Potete anche non credermi, non mi interessa. Ormai sono abituato al fatto che gli altri mi considerino un mostro».

«Se avesse detto subito che fine aveva fatto la ragazza, oggi sua madre starebbe molto meglio» insistette il commissario capo. Tobias infilò le mani nelle tasche dei jeans.

«Significa che avete scoperto chi è quel bastardo che l’ha spinta giú dal ponte?».

«No, non l’abbiamo ancora scoperto» riconobbe Bodenstein. «Ma crediamo sia uno del paese».

Tobias scoppiò in una breve risata senza allegria.

«Complimenti per la perspicacia!» esclamò sarcastico. «Si dà il caso che io sappia chi è stato. Potrei anche dirvelo, ma perché dovrei?».

«Perché quell’uomo ha commesso un reato» replicò il commissario. «E lei deve dirci tutto quello che sa».

«Neanche morto!». Tobias scosse la testa. «Spero sinceramente che siate piú bravi dei vostri colleghi. Tutta la mia famiglia starebbe molto meglio se undici anni fa la polizia avesse indagato come si deve e avesse preso il vero assassino».

Pia voleva gettare un po’ di acqua sul fuoco, ma Bodenstein non glielo permise. «Certo» disse in tono pungente. «Lei non ha nessuna colpa, lo sappiamo. Le nostre prigioni sono piene di innocenti».

Tobias lo guardò con espressione gelida. Negli occhi aveva tutta la rabbia che stava trattenendo a fatica. «Voi sbirri siete tutti uguali: prepotenti e arroganti» sibilò con disprezzo. «Non avete la piú pallida idea di quello che sta succedendo. Sparite! Lasciatemi in pace!».

Prima che potessero aggiungere qualcosa, chiuse la porta in faccia a entrambi.

Mentre tornavano alla macchina, Pia rimproverò il collega. «Non dovevi dire quelle cose. Ora ce l’ha con noi. E siamo allo stesso punto di prima».

«Ho detto la verità!». Bodenstein si bloccò. «Hai visto i suoi occhi? Tobias Sartorius è capace di tutto. E se davvero sa chi ha spinto la madre giú dal ponte, è quell’uomo a essere in pericolo!».

«Sei prevenuto» gli rinfacciò lei. «Prova a metterti nei suoi panni. Torna a casa dopo aver trascorso piú di dieci anni in prigione, forse ingiustamente, e scopre che qui è cambiato tutto. Sua madre viene aggredita e finisce in terapia intensiva, qualcuno del paese imbratta la casa dei suoi genitori con una scritta ingiuriosa. È normale che covi tanta rabbia».

«Per favore, Pia! Non crederai davvero che l’abbiano condannato per sbaglio!».

«Non credo proprio niente. Però ho trovato diverse incongruenze nel materiale relativo al caso. Incongruenze che mi hanno fatto sorgere dei dubbi».

«Quell’uomo è freddo come il ghiaccio. E le reazioni degli abitanti di Altenhain… be’, sono comprensibili».

«Quindi approvi le scritte sui muri e i tentativi di coprire chi ha commesso un reato?». Pia scrollò il capo, incredula.

«Non ho detto che approvo quello che stanno facendo» ribatté il commissario. Mentre litigavano come marito e moglie sotto l’arco del portone, Tobias Sartorius poté uscire inosservato e allontanarsi nella direzione opposta.

 

Andrea Wagner non riusciva a dormire. Avevano trovato il corpo di Laura, o meglio ciò che ne restava. Finalmente. Addio incertezza. Aveva smesso di sperare in un miracolo già da tempo. All’inizio aveva provato solo un immenso sollievo, poi era arrivato il dolore. Per undici anni si era imposta di non piangere, si era mostrata forte e aveva sostenuto il marito, che diversamente da lei si era abbandonato senza ritegno alla disperazione. Non poteva permettersi di cedere, doveva mandare avanti l’azienda per pagare i debiti con la banca. E doveva occuparsi degli altri figli, che avevano diritto a una madre. Niente era piú come prima. Manfred aveva perso l’energia e la gioia di vivere, era diventato una palla al piede con la sua piagnucolosa autocommiserazione e l’attaccamento alla bottiglia. A volte lo disprezzava per questo. Per lui non esisteva altro che il suo odio per la famiglia di Tobias.

Andrea aprí la porta ed entrò nella camera di Laura, dove non era cambiato niente rispetto a undici anni prima. Manfred aveva insistito per lasciare tutto cosí e lei l’aveva accontentato. Accese la luce, prese la foto di Laura dalla scrivania, si sedette sul letto e aspettò inutilmente le lacrime. Col pensiero tornò al momento in cui i poliziotti si erano fermati davanti alla porta di casa e le avevano comunicato che, in base agli indizi raccolti, l’assassino di sua figlia era Tobias Sartorius.

Perché Tobias? Questo aveva pensato, confusa. Le erano subito venute in mente altre dieci persone che avrebbero avuto un motivo piú valido per fare del male a Laura. Sapeva che in paese sparlavano di lei. La consideravano una sgualdrinella, una piccola carogna, una calcolatrice disposta a tutto pur di arrivare in alto. Manfred idolatrava la figlia, la amava in maniera incondizionata e trovava una scusa per ogni suo comportamento sbagliato. Andrea invece vedeva anche i suoi difetti e sperava che col passare degli anni sarebbero spariti. Purtroppo Laura non aveva avuto la possibilità di migliorare. Era strano, ma faceva fatica ad associarla a pensieri positivi. I ricordi negativi erano molto piú vividi. Laura non aveva alcuna considerazione per il padre, si vergognava di lui. Avrebbe voluto un genitore come Claudius Terlinden, educato e potente; a Manfred l’aveva detto in faccia piú di una volta, approfittando di ogni occasione. Lui incassava le offese senza battere ciglio e continuava ad amarla come prima, ma per Andrea era sempre uno shock, non solo perché capiva di non conoscere affatto la figlia, ma anche perché era evidente che non l’aveva educata nel modo migliore. Era anche spaventata. Che cosa sarebbe successo se Laura avesse scoperto che lei aveva una relazione con Claudius, il suo datore di lavoro?

Era rimasta sveglia molte notti per colpa sua. Con gli anni i motivi di preoccupazione erano aumentati. Laura aveva continuato a passare allegramente da un ragazzo all’altro, ma a un certo punto si era messa con Tobias ed era cambiata di colpo. Sembrava felice e soddisfatta. Tobias aveva un’ottima influenza su di lei. Aveva senza dubbio qualcosa di particolare; oltre che bello era anche molto bravo a scuola e nello sport, e gli altri ragazzi lo ascoltavano. Era tutto ciò che Laura aveva sempre desiderato; la luce di Tobias faceva risplendere anche lei, la sua ragazza. Per sei mesi era andato tutto bene, poi ad Altenhain era arrivata Stefanie Schneeberger. Laura l’aveva subito considerata una rivale e aveva deciso di farsela amica, ma non era riuscita a evitare il peggio. Tobias si era invaghito di Stefanie e l’aveva lasciata. Era stato un duro colpo. Andrea Wagner non sapeva esattamente cosa fosse successo quell’estate tra i ragazzi, ma sapeva che Laura si era messa a giocare col fuoco, tentando di aizzare gli amici contro Stefanie. Un giorno l’aveva trovata in ufficio con una pila di fotocopie. Aveva cercato di dare un’occhiata, ma sua figlia era andata su tutte le furie e avevano litigato. Nella concitazione del momento Laura aveva dimenticato una pagina nella fotocopiatrice. Sulla superficie bianca spiccava una singola frase in grassetto:

 

BIANCANEVE DEVE MORIRE

 

Andrea l’aveva ripiegata e messa via, ma in seguito non l’aveva mostrata né al marito né alla polizia. Il pensiero che la sua bambina potesse desiderare la morte di un’altra persona era davvero insopportabile. Possibile che Laura fosse diventata vittima di un intrigo che lei stessa aveva ordito? Andrea aveva comunque tenuto la bocca chiusa, aveva lasciato che le cose seguissero il loro corso e sera dopo sera aveva ascoltato Manfred tessere le lodi della figlia.

«Laura» mormorò, accarezzando la foto con l’indice. «Cos’hai fatto?».

All’improvviso una lacrima le scivolò lungo la guancia, subito seguita da un’altra. Sbattendo le palpebre, si asciugò il viso con una mano. Non era il dolore che la faceva piangere, ma il senso di colpa per non aver mai amato sua figlia.

 

Arrivò davanti alla sua porta all’una e mezza, dopo aver guidato senza meta per tre ore. A casa non ce la faceva piú, erano successe troppe cose. A cominciare dall’apparizione di Amelie tutta insanguinata. Vedendola era rimasto scioccato. Ma non era stato il sangue sul suo viso a fargli schizzare l’adrenalina alle stelle, bensí la straordinaria somiglianza con Stefanie. A parte l’aspetto fisico, le due ragazze erano completamente diverse. Amelie non era la vanitosa reginetta di bellezza che l’aveva ammaliato, sedotto, conquistato e infine scaricato senza pietà. Era una ragazza sorprendente. Una ragazza che non provava paura davanti a nulla.

Dopo di lei erano arrivati i poliziotti. Avevano trovato i resti di Laura. Non potendo lavorare in cortile a causa della pioggia, aveva deciso di usare tutta la rabbia che lo consumava per riordinare la propria camera. Aveva strappato i ridicoli poster che decoravano le pareti e, senza pensarci due volte, aveva svuotato mobili e cassetti per ficcare ogni cosa nei sacchi dell’immondizia. Era ora di buttare via tutto! Mentre faceva pulizia, si era trovato in mano un cd. Time to say goodbye di Sarah Brightman e Andrea Bocelli. Gliel’aveva regalato Stefanie; era la canzone con cui si erano dati il primo bacio, a giugno, durante la festa di maturità. Aveva inserito il cd nel lettore e al primo accordo si era fatto sorprendere da un senso di vuoto che non si era ancora dissolto. Non si era mai sentito cosí solo e abbandonato, neanche in prigione. Dietro le sbarre sperava in tempi migliori, ma ora sapeva che non sarebbero mai arrivati. Aveva finito di vivere.

Nadja ci mise un po’ ad aprire, tanto che temeva non fosse in casa. Non aveva suonato alla sua porta per fare sesso con lei, non ci aveva neanche pensato, ma quando se la trovò davanti, con gli occhi socchiusi per la luce e il sonno, e i capelli biondi che le scendevano arruffati sulle spalle, cosí dolce e calda, fu preso da un desiderio talmente forte da sembrare impossibile.

«Cosa…» cominciò lei, ma Tobias soffocò il resto della frase con un bacio e la tirò a sé. Credeva che si sarebbe difesa, che l’avrebbe spinto via, invece successe il contrario. Nadja gli tolse la giacca di pelle bagnata, gli sbottonò la camicia e gli sfilò la t-shirt dalla testa. Un attimo dopo era sul pavimento sopra di lei e la penetrava con forza, mentre la sua lingua gli frugava la bocca e le mani sul fondoschiena lo spingevano a dare colpi sempre piú rapidi ed energici. Non ci volle molto perché sentisse arrivare il culmine. Un’ondata di calore lo investí e lo fece sudare da tutti i pori. Soddisfatto e sollevato, si accasciò su Nadja e si lasciò sfuggire un gemito che diventò poi un grido soffocato. Per qualche secondo rimase immobile, con il cuore che batteva furiosamente; non riusciva a credere a ciò che era successo. Scivolando di lato, si sdraiò sulla schiena e con gli occhi chiusi cominciò a boccheggiare come un pesce fuori dall’acqua. Una risata leggera lo costrinse a riaprire gli occhi.

«Che c’è?» sussurrò, confuso.

«Credo che dovremo esercitarci ancora un po’» rispose lei. Si rimise in piedi con un movimento aggraziato e gli porse la mano. Tobias la prese e si alzò con un altro gemito; poi, dopo essersi sfilato le scarpe e i jeans, si lasciò condurre in camera da letto. I fantasmi del passato erano spariti. Almeno per il momento.