Lunedí, 10 novembre 2008
Claudius Terlinden bevve il caffè in piedi, guardando la casa dei vicini attraverso la finestra della cucina. Se si fosse sbrigato, avrebbe potuto accompagnare di nuovo la ragazza alla fermata dell’autobus. Qualche mese prima, quando Arne Fröhlich gli aveva presentato la figlia di primo letto, non si era accorto di nulla. I piercing, l’acconciatura stravagante e i vestiti neri l’avevano tratto in inganno, come anche l’espressione corrucciata e i modi bruschi. Ma il giorno prima al Cavallino Nero, quando lei gli aveva rivolto un sorriso, era rimasto folgorato. La ragazza aveva una somiglianza quasi inquietante con Stefanie Schneeberger. Lineamenti delicati, pelle di alabastro, labbra carnose, occhi scuri e penetranti… Era incredibile!
«Biancaneve» mormorò. L’aveva rivista durante la notte, in un sogno strano e nefasto in cui passato e presente si mescolavano in modo sconcertante. Si era svegliato in un bagno di sudore e aveva impiegato qualche istante per capire che si trattava solo di un sogno. Sentendo un rumore di passi, si voltò e vide la moglie sulla porta della cucina. Nonostante l’ora si era già sistemata i capelli.
«Ti sei alzata presto». Terlinden si avvicinò al lavello e fece scorrere l’acqua calda nella tazza. «Devi andare da qualche parte?».
«In città. Ho appuntamento con Verena alle dieci».
«Bene». In realtà i suoi programmi per la giornata non gli interessavano minimamente.
«Ci risiamo» disse lei di punto in bianco. «Proprio ora che stavamo cominciando a dimenticare».
«Di cosa stai parlando?». Claudius Terlinden la guardò irritato.
«Sartorius avrebbe dovuto trasferirsi, sarebbe stato meglio».
«E dove doveva trasferirsi? Certe storie arrivano dappertutto».
«Forse. Comunque avremo dei problemi. In paese stanno già affilando i coltelli».
«Lo temevo» rispose lui, mettendo la tazza nella lavastoviglie. «Sarà un caso, ma venerdí sera Rita ha avuto un grave incidente. Sembra che qualcuno l’abbia spinta giú da un ponte, direttamente su un’auto di passaggio».
«Cosa?». Christine Terlinden spalancò gli occhi, sconvolta. «Come l’hai saputo?».
«Ieri sera ho scambiato qualche parola con Tobias».
«Cos’hai fatto? Perché non me l’hai detto prima?». Lo fissò incredula. Nonostante avesse cinquantun anni, era ancora una donna straordinariamente bella. Bionda naturale, portava i capelli alla paggetto, come voleva la moda. E grazie al fisico minuto riusciva a sembrare elegante anche in vestaglia.
«Non te l’ho detto perché ieri sera non ci siamo piú visti».
«Parli con lui, vai a trovarlo in prigione, aiuti i suoi genitori… Hai forse dimenticato che dieci anni fa ha coinvolto anche te?».
«No, non l’ho dimenticato». Claudius Terlinden posò lo sguardo sull’orologio appeso alla parete. Le sette e un quarto. Ancora dieci minuti e Amelie sarebbe uscita di casa. «Tobias ha solo riferito alla polizia quello che aveva sentito. Dovremmo ringraziare il cielo che…». S’interruppe. «Be’, se le cose fossero andate diversamente, oggi Lars non sarebbe dov’è».
Da bravo marito le sfiorò la guancia con un bacio.
«Devo andare. Stasera potrei fare un po’ tardi».
Christine Terlinden rimase in attesa finché non sentí la porta di casa chiudersi con uno scatto, poi prese una tazza dalla mensola, la mise sotto la macchina del caffè e premette il pulsante per un espresso doppio. Con la tazza in mano si avvicinò alla finestra e guardò la Mercedes scura del marito percorrere lentamente il viale che scendeva verso il cancello. Poco dopo l’auto si fermò davanti alla casa dei Fröhlich e le luci rosse dei freni brillarono nell’oscurità del primo mattino. La figlia dei vicini non si fece pregare ed entrò subito in macchina; sembrava che lo stesse aspettando. Christine inspirò profondamente e strinse le dita intorno alla tazza. L’aveva capito subito, la prima volta che aveva incontrato Amelie Fröhlich. Si era accorta immediatamente dell’inquietante somiglianza. Non le faceva piacere che la ragazza fosse amica di Thies. Dieci anni prima non era stato facile tenerlo fuori da tutta la faccenda. La storia doveva ripetersi? Un senso di smarrimento quasi dimenticato tornò a farsi strada dentro di lei.
«O Signore, no» disse con un filo di voce. «Ti prego, non un’altra volta».
La foto che Ostermann aveva ricavato dalla registrazione della telecamera di sorveglianza piazzata sul binario era in bianco e nero e piuttosto sgranata, ma l’uomo con il berretto da baseball si distingueva chiaramente. Anche se l’angolo di ripresa purtroppo non era abbastanza ampio da mostrare ciò che era accaduto sul ponte, con l’attendibile testimonianza del quattordicenne Niklas Bender avrebbero potuto arrestare lo sconosciuto non appena l’avessero trovato. Bodenstein e Pia erano tornati ad Altenhain per far vedere la fotografia a Hartmut Sartorius e al figlio. Suonarono diverse volte, ma ad aprire la porta non venne nessuno.
«Andiamo a mostrare la foto in quel negozio» propose lei. «Ho la sensazione che questo incidente sia davvero collegato a Tobias».
Lui annuí. Pia aveva un ottimo intuito, come Theresa, e spesso le sue sensazioni si rivelavano esatte. Per tutta la sera precedente Bodenstein aveva ripensato alla conversazione con la sorella, aspettando invano che Cosima gli parlasse della telefonata nella fucina. Si era detto che probabilmente era una cosa del tutto insignificante, per questo se n’era dimenticata. Usava molto il telefono; i suoi collaboratori la chiamavano spesso, pure di domenica. A colazione aveva deciso di non dare alcuna importanza all’episodio, anche perché Cosima si comportava in modo normalissimo. Si era alzata di ottimo umore e gli aveva raccontato allegramente come avrebbe trascorso la giornata: lavoro in sala di montaggio per il nuovo film, incontro con la voce narrante, pranzo con i colleghi a Magonza. Niente di strano. Alla fine lo aveva salutato con un bacio, come quasi ogni mattina negli ultimi venticinque anni. No, non era il caso di preoccuparsi.
La campanella sopra la porta suonò per annunciare il loro ingresso nel piccolo negozio di alimentari. Tra gli scaffali alcune donne con il cestino della spesa si stavano scambiando gli ultimi pettegolezzi di paese.
«Sono tutte tue, capo» bisbigliò Pia rivolta al collega, che con la sua straordinaria bellezza e il fascino “alla Cary Grant” di solito non aveva problemi a trattare con le rappresentanti del genere femminile. Sembrava però che Bodenstein non fosse in perfetta forma.
«Pensaci tu» rispose. Attraverso la porta aperta si intravedeva il cortile, dove un uomo robusto con i capelli grigi stava scaricando cassette di frutta e verdura da un furgone. Pia alzò le spalle e puntò dritta verso il gruppetto di donne.
«Buongiorno. Polizia giudiziaria di Hofheim». Mostrò il tesserino di riconoscimento.
In risposta, sguardi diffidenti e incuriositi.
«Venerdí sera la ex moglie di Hartmut Sartorius è rimasta vittima di una perfida aggressione». Pia si espresse volutamente in modo un po’ drammatico. «Immagino che conosciate Rita Cramer».
Le signore annuirono all’unisono.
«Abbiamo qui una foto dell’uomo che l’ha spinta giú da un ponte e l’ha fatta cadere su un’auto in transito».
Non ci furono reazioni di orrore. Era chiaro che la notizia dell’incidente aveva già fatto il giro del paese. Pia tirò fuori la foto e la porse alla donna con il grembiule bianco, che evidentemente era la proprietaria del negozio.
«Lo conosce?».
Lei socchiuse gli occhi e per un attimo osservò l’uomo; poi, alzando lo sguardo, scosse la testa.
«No» disse, fingendosi dispiaciuta. «Non l’ho mai visto».
Una dopo l’altra, anche le sue tre amiche scrollarono il capo. Ma a Pia non sfuggí la rapida occhiata che una di loro lanciò alla proprietaria del negozio.
«Siete sicure? Guardate meglio. La qualità dell’immagine non è molto buona».
«Non conosciamo quest’uomo». La bottegaia le restituí la foto e sostenne il suo sguardo senza batter ciglio. Stava mentendo. Su questo non c’erano dubbi.
«Che peccato». Pia le sorrise. «Posso sapere come si chiama?».
«Richter. Margot Richter».
Mentre lei rispondeva alla domanda, l’uomo che poco prima stava lavorando in cortile entrò in negozio con tre cassette di frutta e le posò rumorosamente a terra.
«Lutz, c’è la polizia» lo informò Margot Richter prima che Pia potesse aprir bocca. Lui si avvicinò. Era un tipo alto e corpulento con un grosso naso a patata e un viso bonario tutto rosso per il freddo e la fatica. Dal modo in cui guardava la moglie si capiva che era comandato a bacchetta e aveva ben poca voce in capitolo. Prese la foto con una delle sue manacce, ma prima che potesse darci un’occhiata lei gliela sfilò dalle dita.
«Non lo conosce neanche lui».
Pia provò compassione per l’uomo, che di sicuro non se la passava tanto bene.
«Mi scusi». Tolse la foto alla signora Richter e, senza darle il tempo di protestare, la mise sotto il naso del marito. «Ha mai visto quest’uomo? Venerdí ha spinto la sua ex vicina di casa giú da un ponte, contro una macchina di passaggio. Adesso la signora Cramer è in terapia intensiva. La tengono in coma farmacologico, ma non si sa ancora se ce la farà».
Il signor Richter esitò. Non sapeva come rispondere. Era un pessimo bugiardo, ma un marito obbediente. Per un attimo il suo sguardo incerto si posò sulla moglie.
«No» disse infine. «Non lo conosco».
«Va bene. Grazie comunque». Pia si sforzò di sorridere. «Buona giornata».
Uscí dalla bottega insieme a Bodenstein.
«Lo conoscono tutti».
«Sí, senza dubbio». Il commissario capo fece scivolare lo sguardo lungo la via principale. «Lí c’è una parrucchiera. Facciamo un altro tentativo».
Percorsero qualche metro sullo stretto marciapiede e, entrando nel piccolo negozio d’altri tempi, videro la parrucchiera mettere giú il telefono con aria colpevole.
«Buongiorno». Pia la salutò e fece un cenno in direzione dell’apparecchio. «Immagino che la signora Richter le abbia già spiegato tutto. Posso anche risparmiarmi la domanda».
Con un’espressione un po’ stupida, la donna guardò prima lei e poi Bodenstein. I suoi occhi rimasero incollati su di lui. Se il capo fosse stato in forma, la parrucchiera non avrebbe avuto chance.
«Si può sapere cos’hai?» chiese Pia, leggermente irritata, quando un minuto dopo furono di nuovo in strada. «Se le avessi fatto un sorriso, si sarebbe sciolta all’istante e probabilmente ci avrebbe dato nome, indirizzo e numero di telefono del nostro sospettato».
«Scusa» rispose debolmente lui. «Oggi non ci sono con la testa».
La strada era piuttosto stretta. Passarono due auto, poi un camion; Pia e Bodenstein dovettero schiacciarsi contro il muro di una casa per evitare il contatto con uno specchietto retrovisore.
«A mezzogiorno mi farò portare il materiale relativo al caso Sartorius» continuò lei. «Ti giuro che è tutto collegato».
Ripeterono la domanda nel negozio di fiori, all’asilo e nella segreteria delle elementari, ma senza ottenere alcun risultato. Margot Richter aveva già dato istruzioni a tutti. Gli abitanti del paese erano solidali tra loro e, per difendere un membro della comunità, si trinceravano nel silenzio.
Distesa sull’amaca che Thies aveva montato apposta per lei tra due palme in vaso, Amelie si cullava dolcemente. La pioggia scendeva lungo le pareti di vetro a riquadri e picchiettava sul tetto del giardino d’inverno, nascosto dietro un enorme salice piangente nell’immenso parco di villa Terlinden. Era un ambiente caldo e accogliente; l’aria sapeva di colori a olio e trementina perché la struttura, che si estendeva in lunghezza, non solo ospitava le delicate piante mediterranee durante la stagione fredda, ma veniva anche usata da Thies come atelier. Centinaia di tele dipinte erano allineate lungo le pareti secondo un rigido ordine di grandezza. I numerosi pennelli erano invece sistemati in vecchi vasetti di marmellata. Thies era ossessivamente ordinato in tutto quel che faceva. Le piante in vaso – oleandri, palme, lantane, limoni e aranci – erano schierate come soldatini, anch’esse in base alle dimensioni. Nulla era lasciato al caso. Una parete era dedicata agli attrezzi con cui Thies curava il parco nella bella stagione; quelli che non si potevano appendere erano disposti in fila per terra. Di tanto in tanto Amelie spostava qualcosa o lasciava intenzionalmente un mozzicone di sigaretta da qualche parte, per far arrabbiare l’amico. Lui non lo sopportava e in tutta fretta ogni volta ristabiliva l’ordine. Anche quando Amelie invertiva tra loro le piante, Thies se ne accorgeva immediatamente.
«È cosí eccitante» gli disse. «Vorrei saperne di piú, ma come?».
Non si aspettava una risposta, ma gli lanciò comunque una rapida occhiata. Era in piedi davanti al cavalletto, tutto concentrato su ciò che stava dipingendo. Le sue opere erano in gran parte astratte e a tinte scure; di sicuro non erano per persone che già soffrivano di depressione. A prima vista Thies sembrava assolutamente normale. Se i lineamenti si fossero un po’ addolciti, sarebbe diventato addirittura un bell’uomo. Viso ovale, naso dritto e sottile, labbra morbide e carnose. La somiglianza con la sua bella madre era evidente; da lei aveva ereditato i capelli biondo chiaro e i grandi occhi azzurro cielo ornati da folte ciglia scure. Ma ad Amelie piacevano soprattutto le sue mani, sottili e delicate come quelle di un pianista, per nulla danneggiate dai lavori di giardinaggio. Quando Thies si agitava, le mani cominciavano a muoversi quasi fossero dotate di vita propria, svolazzando come uccelli in gabbia. Al momento, però, sembrava perfettamente tranquillo. Era quasi sempre cosí, quando dipingeva.
«Vorrei tanto sapere cos’ha fatto Tobias con quelle due ragazze» continuò Amelie. «Perché non ha mai detto niente? Se avesse parlato, forse non sarebbe rimasto in prigione per dieci anni. È davvero strano. Però devo ammettere che mi piace. È completamente diverso da quelli che vivono in questo buco di paese».
Incrociò le braccia dietro la testa, chiuse gli occhi e si lasciò percorrere da un piacevole brivido. «Magari le ha fatte a pezzi. O le ha murate da qualche parte nella proprietà di famiglia».
Thies continuò a lavorare indisturbato, mischiando sulla tavolozza un verde scuro con un rosso rubino. Dopo aver osservato per un attimo il risultato, aggiunse una punta di bianco. Amelie smise di dondolarsi.
«Secondo te sono piú carina senza i piercing?».
Silenzio. Facendo attenzione a non cadere, si tirò su e scese dall’amaca. Gli si avvicinò e da sopra una spalla diede un’occhiata alla tela. Ciò che Thies aveva dipinto nelle ultime due ore la lasciò a bocca aperta.
«Wow!» esclamò, colpita e sorpresa. «Che ficata!».
Dall’archivio della questura di Francoforte erano arrivati quattordici vecchi faldoni che ora giacevano nelle loro scatole accanto alla scrivania di Pia. Nel 1997 il distretto Meno-Taunus non aveva ancora una sezione per i reati violenti; fino alla riforma della polizia assiana, attuata solo da un paio d’anni, omicidi e stupri erano di competenza dell’ufficio 11 di Francoforte. I faldoni dovevano però attendere, alle quattro c’era una di quelle inutili riunioni che la dottoressa Engel amava tanto.
Nella stanza l’aria era calda e viziata. Dato che l’ordine del giorno non prevedeva nulla di particolare, regnava un’atmosfera tra il sonnacchioso e l’annoiato. Fuori era già buio; da un cielo ingombro di nubi scendeva una pioggia scrosciante.
«La foto segnaletica dello sconosciuto deve essere consegnata alla stampa oggi stesso» ordinò la Engel. «Sono sicura che qualcuno riconoscerà l’uomo e ci aiuterà a identificarlo».
Andreas Hasse, che era tornato in servizio pallido e silenzioso, si lasciò sfuggire uno starnuto.
«Non potevi rimanere a casa invece di tornare al lavoro ad appestarci tutti?» lo apostrofò Kai Ostermann, che sedeva proprio al suo fianco. Hasse non rispose.
«C’è altro?». Gli occhi attenti di Nicola Engel si posarono su ciascun presente, ma tutti evitarono saggiamente di incrociare il suo sguardo. La dottoressa dava l’impressione di saper leggere nel pensiero. Sensibile come un sismografo, si era accorta da un pezzo che nell’aria c’era tensione e voleva scoprirne la causa.
«Mi sono fatta portare tutto il materiale del caso Sartorius» intervenne Pia. «Credo che l’aggressione alla signora Cramer sia direttamente collegata al rilascio di Tobias Sartorius. Tutti quelli di Altenhain con cui abbiamo parlato oggi hanno riconosciuto l’uomo nella foto, ma nessuno di loro l’ha ammesso. Vogliono proteggerlo».
«Lei cosa ne pensa? È d’accordo?» domandò la dottoressa a Bodenstein, che per tutto il tempo aveva guardato distrattamente davanti a sé.
«Mi sembra una possibile spiegazione» rispose lui, annuendo. «Gli abitanti hanno reagito in modo strano».
«Okay». La Engel tornò a concentrarsi su Pia. «Legga il materiale che si è fatta portare, ma non ci perda troppo tempo. Lo scheletro dell’altro giorno ha la precedenza, anche se stiamo ancora aspettando i risultati dell’esame medico-legale».
«Tobias Sartorius è odiato da tutti ad Altenhain» spiegò Pia. «Hanno scritto una brutta frase sul muro della casa di suo padre e sabato, quando abbiamo portato la notizia dell’incidente alla famiglia, abbiamo visto tre donne che dall’altro lato della strada gli lanciavano insulti e minacce».
«Io ci ho avuto a che fare, dieci anni fa». Hasse si schiarí la voce un paio di volte e proseguí. «Era un freddo assassino. Un damerino presuntuoso e arrogante. Voleva far credere a tutti di non ricordare niente, di avere un vuoto di memoria. Peccato che gli indizi fossero schiaccianti. Ha continuato a mentire anche dopo essere finito dietro le sbarre».
«Ma ora ha scontato la sua pena» replicò Pia. «Ha il diritto di reinserirsi nella società. E poi il comportamento di quella gente mi irrita parecchio. Perché mentono? Chi vogliono proteggere?».
«Credi di trovare la risposta in quei vecchi faldoni?». Hasse scosse la testa. «Quel tipo ha ucciso la ragazza con cui stava perché lei voleva lasciarlo. E ha fatto fuori la ex fidanzata perché aveva assistito all’omicidio».
Pia era stupita dal fatto che il collega ci mettesse tanta foga. Di solito era piuttosto indifferente.
«Può darsi che tu abbia ragione. In ogni caso si è fatto dieci anni di carcere per quei due omicidi. Magari leggendo gli atti del processo troverò qualcosa che mi aiuterà a capire chi ha spinto Rita Cramer giú dal ponte».
«Ma cosa vuoi…». Hasse fu interrotto dalla dottoressa Engel, che mise fine alla discussione in modo energico.
«La commissaria Kirchhoff potrà leggere gli atti finché non sapremo niente di piú preciso sullo scheletro».
Non c’era nulla da aggiungere, la riunione era finita. Nicola Engel scomparve nel suo ufficio e i membri della squadra si separarono.
«Devo andare a casa» disse improvvisamente Bodenstein, dopo aver guardato l’orologio. Pia decise di fare altrettanto e di portare con sé una parte del materiale. Era inutile rimanere, di sicuro non sarebbe successo niente di interessante.
«Vuole che le porti dentro la valigia, signor ministro?» chiese l’autista, ma Gregor Lauterbach scrollò il capo.
«No, faccio io». Sorrise. «Vada a casa, Forthuber. Ci vediamo domani mattina alle otto».
«Va bene. Allora le auguro una buona serata, signor ministro».
Lauterbach rispose con un cenno e prese la piccola valigia. Era rimasto lontano da casa per tre giorni, prima per alcuni appuntamenti a Berlino, poi per la conferenza del ministero della Pubblica istruzione a Stralsund, dove c’era stato un violento scontro tra i colleghi del Baden-Württemberg e del Nordrhein-Westfalen riguardo alla definizione delle linee guida per la copertura del fabbisogno di insegnanti. Aveva appena aperto la porta e stava disinserendo l’allarme quando sentí il suono del telefono. Entrò in funzione la segreteria, ma la persona all’altro capo della linea non si disturbò a lasciare un messaggio. Gregor Lauterbach posò la valigia davanti alla scala, accese la luce ed entrò in cucina. Diede un’occhiata alla posta, che la donna delle pulizie aveva lasciato sul tavolo, ordinatamente divisa in due pile. Daniela non era ancora tornata. Se non ricordava male, in serata doveva parlare a un congresso medico a Marburgo. Si spostò in soggiorno e, dopo aver osservato per qualche secondo le bottiglie sul mobile, scelse un whisky Black Bowmore invecchiato quarantadue anni. Regalo di qualcuno che voleva conquistarsi le sue simpatie. Svitò il tappo e versò due dita di scotch in un bicchiere. Da quando lavorava come ministro della Pubblica istruzione a Wiesbaden non vedeva quasi piú Daniela. Si incontravano solo per caso o per sincronizzare gli impegni. Ormai non dormivano nello stesso letto da dieci anni. Lauterbach aveva un appartamento segreto a Idstein, dove una volta alla settimana incontrava un’amante molto discreta. Aveva subito chiarito in modo inequivocabile che non avrebbe mai divorziato dalla moglie, e cosí questo argomento non veniva neanche sfiorato durante gli incontri. Forse anche Daniela aveva qualcun altro; non lo sapeva e di certo non glielo avrebbe chiesto. Allentò la cravatta, si tolse la giacca del completo e la buttò sullo schienale di un divano. Mentre beveva un sorso di scotch, il telefono suonò di nuovo. Tre squilli, poi si attivò la segreteria.
«Gregor». La voce maschile esprimeva una certa urgenza. «Se ci sei, rispondi. È importante».
Lauterbach esitò un attimo. Conosceva quella voce; ogni volta sembrava che si trattasse di una faccenda importantissima. Con un sospiro si arrese e rispose al telefono. L’altro non perse tempo con i convenevoli. Mentre lo ascoltava, Lauterbach sentí rizzarsi i peli sulla nuca e senza volerlo scattò in piedi. Il senso di minaccia lo aggredí all’improvviso come un predatore.
«Grazie della telefonata» disse infine con voce roca e riagganciò. Rimase immobile nella semioscurità, sbalordito per ciò che aveva appena appreso. Uno scheletro a Eschborn. Tobias Sartorius di nuovo ad Altenhain. La madre del ragazzo spinta giú da un ponte da uno sconosciuto. E un’ambiziosa commissaria dell’ufficio 11 di Hofheim che frugava tra le vecchie carte. Accidenti! Lo scotch per ricchi acquistò di colpo un sapore amaro. Lauterbach mise giú il bicchiere e salí in fretta la scala per raggiungere la camera. Forse non significava nulla, forse era tutta una coincidenza. Cercò di tranquillizzarsi cosí, ma inutilmente. Si sedette sul letto, si sfilò le scarpe e si lasciò cadere all’indietro. Un’ondata di immagini indesiderate gli invase la mente. Com’era possibile che una singola decisione sbagliata, ma di per sé insignificante, avesse conseguenze catastrofiche? Chiuse gli occhi e la stanchezza si impossessò del suo corpo. Lentamente si staccò dal presente e per vie tortuose scivolò nel mondo dei sogni e dei ricordi. Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano…