Martedí, 11 novembre 2008

«Lo scheletro appartiene a una ragazza. Quand’è morta aveva un’età compresa tra i quindici e i diciotto anni». Henning Kirchhoff andava di fretta. Doveva prendere un aereo e volare a Londra, dove lo attendevano per una perizia. Seduto su una sedia davanti alla scrivania, Bodenstein rimase in ascolto mentre il medico legale metteva nella valigetta tutti i documenti necessari al viaggio e nel contempo parlava di fusione delle suture basilari, parziale fusione delle creste iliache e altri indicatori di età.

«Quant’è rimasta in quel serbatoio?» chiese infine il commissario.

«Dieci, quindici anni. Non di piú». Kirchhoff si avvicinò alla lavagna luminosa e gli mostrò una radiografia. «Si era rotta un braccio. Qui si vede chiaramente la frattura ormai saldata».

Bodenstein osservò la lastra scura, su cui spiccavano le ossa bianche.

«Ah sí, ho trovato un’altra cosa piuttosto interessante…». Henning Kirchhoff non era uno di quegli uomini che mettono subito in mostra tutto il loro sapere. Anche quando non aveva tempo, riusciva a creare una certa suspense. Prese un altro paio di radiografie, le mise davanti alla luce al neon e, individuata quella giusta, la appese vicino alla lastra del braccio. «Le hanno estratto i primi premolari superiori, probabilmente perché aveva la mascella troppo piccola».

«Questo che significa?».

«Che vi abbiamo risparmiato un po’ di lavoro» rispose Kirchhoff, fissando il commissario capo con le sopracciglia inarcate. «Inserendo questi dati nel computer e confrontandoli con quelli delle persone scomparse abbiamo ottenuto un risultato. Una ragazza sparita nel 1997. Abbiamo confrontato le sue radiografie ante mortem con le nostre e… guardi qui». Incastrò un’altra lastra sotto il bordo della lavagna luminosa. «Ecco la frattura quando non si era ancora saldata del tutto».

Bodenstein si sforzò di avere pazienza, anche se cominciava a capire di chi poteva essere lo scheletro portato alla luce per caso durante i lavori nel vecchio aeroporto di Eschborn. Ostermann aveva fatto una lista di ragazze e giovani donne scomparse negli ultimi quindici anni e non ancora ritrovate. Ai primi posti c’erano le due vittime di Tobias Sartorius.

«Data l’assenza di materiale organico» proseguí Kirchhoff, «non è stato possibile effettuare un sequenziamento. Siamo comunque riusciti a estrarre il dna mitocondriale e abbiamo trovato una seconda corrispondenza. La ragazza del serbatoio è…».

S’interruppe di colpo, girò intorno alla scrivania e si mise a frugare in una delle tante pile di carta.

«Laura Wagner o Stefanie Schneeberger» azzardò Bodenstein. L’altro alzò gli occhi e fece un sorrisetto acido.

«Lei è un vero guastafeste. Non poteva aspettare ancora un attimo? Visto che mi ha rovinato cosí il finale, dovrei tenerla sulla corda finché non torno da Londra. Ma con questo tempaccio, se è disposto ad accompagnarmi alla stazione, giuro che in macchina le dirò quale delle due ragazze è uscita dal serbatoio».

 

Seduta alla sua scrivania, Pia rimuginava. Aveva studiato gli atti del processo fino a notte fonda e aveva rilevato alcune incongruenze. I fatti erano chiari e a prima vista gli indizi contro Tobias Sartorius sembravano schiaccianti. Ma solo a prima vista. Già leggendo il verbale dell’interrogatorio si era posta alcune domande che poi non avevano trovato risposta negli altri documenti. Tobias Sartorius aveva vent’anni quando, per l’omicidio preterintenzionale di Stefanie Schneeberger e l’omicidio volontario di Laura Wagner, entrambe diciassettenni, era stato condannato alla massima pena prevista nel diritto penale minorile. La sera del 6 settembre 1997 un vicino aveva visto le due ragazze entrare nella casa della famiglia Sartorius a distanza di pochi minuti l’una dall’altra; già per strada Tobias e la sua ex ragazza, Laura Wagner, avevano avuto un violento scontro verbale. Erano stati tutti e tre alla festa del paese e, secondo diversi testimoni oculari, avevano bevuto grandi quantità di alcol. Il tribunale aveva accettato l’ipotesi secondo cui Tobias aveva afferrato un cric e ucciso d’impulso la sua ragazza, Stefanie Schneeberger, per poi colpire anche la ex, che nel frattempo era diventata una testimone. Il sangue di Laura era un po’ ovunque – in casa, sui vestiti di Tobias e nel bagagliaio della sua auto – e a giudicare dalla quantità sembrava che l’omicidio fosse avvenuto in modo estremamente brutale. L’efferatezza del gesto e l’occultamento del cadavere erano due elementi distintivi dell’omicidio volontario. Perquisendo la casa, avevano trovato lo zaino di Stefanie nella camera di Tobias, la collana di Laura sotto un lavandino e il cric, ovvero l’arma del delitto, nella fossa dei liquami della stalla. La tesi della difesa, secondo cui Stefanie aveva dimenticato lo zaino nella camera del ragazzo dopo aver litigato con lui, non aveva convinto nessuno. Quella sera, poco dopo le undici, qualcuno aveva visto Tobias lasciare Altenhain al volante della sua auto. Ma due dei suoi amici, Jörg Richter e Felix Pietsch, affermavano di avergli parlato sulla porta di casa a mezzanotte meno un quarto! Il giovane Sartorius, tutto sporco di sangue, aveva rifiutato di andare con loro a fare la guardia all’albero della festa.

C’era qualcosa che non quadrava nei tempi. In tribunale erano partiti dal presupposto che Tobias avesse messo i due cadaveri nel bagagliaio e li avesse portati via. Ma cosa poteva aver fatto in tre quarti d’ora? Pia bevve un sorso di caffè e appoggiò il mento su una mano, pensierosa. I colleghi erano stati scrupolosi, nel corso delle indagini avevano interrogato quasi tutti gli abitanti di Altenhain. Eppure aveva la vaga sensazione che all’epoca avessero tralasciato qualche particolare.

La porta si aprí e apparve Hasse. Era bianco come un lenzuolo, ma aveva il naso rosso e irritato per esserselo soffiato praticamente di continuo.

«Allora? Va un po’ meglio?».

Lui starnutí due volte in rapida sequenza, poi inspirò rumorosamente e fece spallucce.

Pia scosse la testa. «Vattene a casa, Andreas. Mettiti a letto e guarisci. Tanto qui non c’è niente da fare».

«A che punto sei?» domandò lui, indicando con aria sospettosa i faldoni impilati sul pavimento accanto alla scrivania. «Hai trovato qualcosa?».

Il suo interessamento la sorprese, ma solo per un attimo. Probabilmente era mosso dal timore che potesse chiedergli di aiutarla.

«Dipende dai punti di vista» rispose. «A una prima analisi sembra che siano stati molto scrupolosi e non abbiano trascurato nulla. Ma c’è qualcosa che non quadra. Chi conduceva le indagini?».

«Il commissario capo Brecht dell’ufficio 11 di Francoforte. Ma se vuoi parlare con lui, ti informo che è troppo tardi. È morto lo scorso inverno. Lo so perché sono stato al suo funerale».

«Ah!».

«Era in pensione solo da un anno. Tutto merito dello Stato, che ci fa sgobbare fino a sessantacinque anni. Cosí poi finiamo direttamente sottoterra».

Pia non fece caso al suo solito tono amareggiato. Di certo Hasse non aveva mai corso il rischio di finire sottoterra per il troppo lavoro.

 

Dopo aver lasciato il dottor Kirchhoff alla stazione della S-Bahn vicino allo stadio, Bodenstein prese il raccordo e proseguí in direzione del Frankfurter Kreuz. Finalmente i genitori di Laura Wagner avrebbero saputo con certezza che ne era stato della figlia. Dopo undici anni avrebbero potuto seppellire i suoi resti mortali e dirle addio una volta per tutte; forse questo avrebbe dato loro un po’ di sollievo. Era cosí immerso nei propri pensieri che ci mise qualche secondo a riconoscere la targa della x5 scura che aveva davanti. Cosa ci faceva Cosima a Francoforte? Quella stessa mattina non si era forse lamentata del fatto che avrebbe dovuto trascorrere il resto della settimana a Magonza perché erano indietro con il montaggio del film? Digitò il suo numero di cellulare. Nonostante la pioggerella e gli schizzi d’acqua vide la donna al volante della x5 portare il telefonino all’orecchio. Sentendo la sua voce familiare, sorrise. Guarda nello specchietto retrovisore, avrebbe voluto dire, ma qualcosa lo trattenne. Gli tornarono in mente le parole di Theresa. Avrebbe sottoposto la moglie a un piccolo test, cosí si sarebbe convinto che non c’era motivo di dubitare di lei.

«Cosa stai facendo?» chiese. La risposta di Cosima lo lasciò senza fiato.

«Sono ancora a Magonza. Oggi è andato tutto storto». Lo disse con un tono che normalmente non gli avrebbe fatto sorgere alcun dubbio. Fu un vero e proprio shock. Dentro di sé cominciò a tremare, le dita si strinsero intorno al volante. Alzò il piede dall’acceleratore e si lasciò superare da un’altra auto. Mentiva! Aveva sempre mentito! Cosima mise la freccia per svoltare a destra e imboccare la a5, continuando nel frattempo a parlare al telefono. Gli spiegò che aveva rivoluzionato l’ordine delle scene e che quindi non era riuscita a finire tutto quello che doveva.

«La sala di montaggio era a nostra disposizione solo fino alle dodici» aggiunse. A Bodenstein salí il sangue al cervello. Non poteva sopportare che Cosima, la sua Cosima, gli mentisse in modo cosí freddo e sfacciato. Avrebbe voluto alzare la voce e gridarle: «Basta, smettila! Sono proprio dietro di te!». Ma non riuscí a dire niente. Borbottò qualcosa e interruppe la comunicazione; poi, come in trance, guidò fino al commissariato. Raggiunti i garage che ospitavano i veicoli di servizio, spense il motore e rimase seduto in macchina. La pioggia tamburellava sul tetto della bmw, scendendo poi lungo i vetri. Il suo mondo stava cadendo a pezzi. Perché diavolo Cosima gli aveva mentito? C’era una sola spiegazione: faceva qualcosa di cui intendeva tenerlo all’oscuro. Bodenstein non voleva nemmeno sapere di che cosa si trattasse. Certe cose capitavano agli altri, non a lui! Dopo un quarto d’ora, quando finalmente si fu ripreso, uscí dall’auto e si avviò verso l’ufficio.

 

Sotto una pioggerella costante Tobias caricò il rimorchio del trattore per trasportare tutto fino ai contenitori sistemati vicino alla fossa dei liquami ormai secca. Legno, rifiuti ingombranti e non riciclabili. L’addetto dell’azienda di smaltimento gli aveva ripetuto piú volte che avrebbe dovuto pagare una bella cifra, se non avesse separato bene i rifiuti. Intorno a mezzogiorno era passato il ferrovecchio per prendere i rottami di metallo. Negli occhi gli era apparso il simbolo dei dollari, quando aveva visto la miniera d’oro nascosta in cortile. Con due aiutanti aveva caricato e portato via molte cose, dalle catene arrugginite che un tempo venivano usate per le mucche a grandi pezzi di stalla e fienile. Aveva pagato quattrocentocinquanta euro, promettendo di tornare la settimana seguente per prendere il resto. Tobias sapeva bene che il vicino Paschke osservava ogni sua mossa con occhio vigile. Il vecchio si nascondeva dietro la tenda, ma ogni tanto faceva capolino per sbirciare fuori. Tobias lo ignorò. Alle quattro e mezza, quando suo padre rincasò dal lavoro, nella parte inferiore del cortile non c’era piú un solo rifiuto.

«Ma le sedie erano ancora in buono stato» protestò Hartmut Sartorius, sconvolto. «E anche il tavolo. Sarebbe bastata una mano di vernice…».

Tobias lo fece entrare in casa con forza, poi si accese una sigaretta e si concesse la prima – meritata – pausa della giornata. Si sedette davanti alla porta, sul gradino piú alto, e guardò con soddisfazione il cortile ripulito, al centro del quale rimaneva solo il vecchio castagno. Nadja. Per la prima volta tornò col pensiero alla notte di due giorni prima. Poteva anche avere trent’anni, ma per quanto riguardava il sesso era ancora un novellino. Rispetto a ciò che aveva fatto con lei, le esperienze del passato sembravano piuttosto infantili. Nel corso degli anni la mente, non potendo fare paragoni, le aveva trasformate in qualcosa di meraviglioso e unico, ma ora Tobias riusciva a vederle per ciò che erano state. Cosacce da ragazzi, un vergognoso dentro e fuori su un letto che sapeva di muffa, jeans e mutande abbassati fino al ginocchio, orecchie sempre tese perché la porta della camera non aveva chiave e i genitori potevano entrare in qualunque momento.

«Puh!». Sospirò pensieroso. Suonava un po’ esagerato, ma senza dubbio Nadja aveva fatto di lui un vero uomo. Dopo la prima frettolosa unione sul divano, si erano spostati in camera da letto e lí aveva pensato che fosse tutto finito. Si erano stretti l’uno all’altra, si erano accarezzati, avevano parlato; poi Nadja gli aveva confessato il suo amore, un amore che era sempre esistito, anche se ne aveva preso coscienza solo quando Tobias era uscito dalla sua vita. Per tanti anni aveva inconsciamente paragonato ogni uomo a lui. Questa confessione pronunciata dalla bellissima sconosciuta in cui faticava a riconoscere l’amica d’infanzia lo aveva confuso e insieme riempito di orgoglio e desiderio. Nadja era riuscita a eccitarlo e a farlo sudare come non era mai accaduto, ottenendo dal suo corpo cose che gli sarebbero parse impossibili. Aveva l’impressione di sentire ancora il suo odore, il suo sapore, la sua pelle. Semplicemente fantastico. Sbalorditivo. Meraviglioso. Era talmente assorto che non udí i passi leggeri e si prese un bello spavento quando, da dietro l’angolo della casa, sbucò una figura.

«Thies?» domandò stupito. Si alzò dal gradino, ma non pensò neanche per un istante di avvicinarsi al figlio dei vicini per abbracciarlo. Thies Terlinden non aveva mai amato i gesti affettuosi. Evitava il suo sguardo e se ne stava immobile e muto, le braccia lungo i fianchi. Il suo handicap non si notava. Lars doveva avere piú o meno lo stesso aspetto. Lars, il gemello nato per secondo, due minuti dopo Thies, ma erede designato della famiglia Terlinden proprio a causa della malattia del fratello. Dopo quel fatidico giorno di settembre del 1997, Tobias non aveva piú visto il suo migliore amico. All’improvviso si rese conto di non averne parlato neanche con Nadja. Eppure una volta loro tre erano inseparabili. Si erano dati anche dei soprannomi: Kalle, Anders ed Eva-Lotte. Insieme formavano la Rosa Bianca, come nei libri di Astrid Lindgren. Inaspettatamente Thies fece un passo avanti e gli porse la mano con il palmo all’insú. Con grande stupore Tobias capí che cosa voleva: un tempo si salutavano cosí, battendo tre volte le mani. All’inizio era una cosa segreta, un segno di riconoscimento per i membri della banda, poi però avevano continuato a farlo per divertimento. Sul bel volto di Thies apparve l’ombra di un sorriso quando rispose allo stesso modo.

«Ciao, Tobi» disse con la sua strana voce priva di inflessione. «È bello riaverti qui».

 

Amelie si mise a pulire il lungo bancone. Alle cinque e mezza la sala del Cavallino Nero era ancora vuota, troppo presto per i clienti serali. Stranamente non aveva avuto alcuna difficoltà a rinunciare di nuovo al solito look. Forse, ancora una volta, sua madre aveva ragione, forse l’abbigliamento, la pettinatura e il trucco gothic non rappresentavano uno stile di vita, come sosteneva Amelie, ma erano semplicemente una forma di protesta adolescenziale. A Berlino si sentiva perfettamente a suo agio con i vestiti larghi e neri, i piercing, il make-up pesante e l’acconciatura elaborata. I suoi amici adottavano lo stesso aspetto e nessuno si voltava a guardarli quando vagabondavano per le strade come uno stormo di corvi, prendendo a calci con gli anfibi i pali dei lampioni e giocando occasionalmente a calcio con i secchi dell’immondizia. Se ne fregava di quello che dicevano gli insegnanti e gli altri perbenisti, li aveva sempre ignorati. Erano solo scocciatori che muovevano le labbra per far uscire parole senza senso. All’improvviso, però, era cambiato tutto. La domenica precedente, quando gli uomini le avevano rivolto sguardi di apprezzamento per il fisico e la profonda scollatura, aveva provato una bella sensazione. Anzi, una bellissima sensazione. Le era sembrato di camminare sulle nuvole quando aveva capito che tutti gli uomini presenti in sala, Claudius Terlinden e Gregor Lauterbach compresi, le stavano fissando il sedere. Sentiva ancora l’euforia di quel momento. Jenny Jagielski uscí dalla cucina camminando come un’oca, con le suole di para che facevano cic ciac sul pavimento. Vedendo Amelie, inarcò le sopracciglia.

«Da spaventapasseri a vamp» osservò con sarcasmo. «Be’, contenta tu».

Dopo aver passato l’indice sul bancone, esaminò con occhio critico il risultato e ne rimase soddisfatta.

«Ci sono ancora i bicchieri da lavare» disse. «Doveva occuparsene mio fratello, ma come al solito non l’ha fatto».

Vicino al lavello c’erano tutti i bicchieri usati a mezzogiorno. Amelie non se la prese, era disposta a fare qualunque cosa. L’importante era ricevere la paga ogni sera. Jenny si arrampicò su uno degli sgabelli davanti al bancone e, nonostante il divieto di fumare, si accese una sigaretta. Lo faceva spesso quand’era sola e di buonumore. Amelie approfittò dell’occasione favorevole e le chiese di Tobias Sartorius.

«Tobi? Certo che lo conosco» rispose Jenny. «Era molto amico di mio fratello e veniva spesso a casa nostra».

Sospirò e scosse la testa.

«Però avrebbe fatto meglio a non tornare».

«Perché?».

«Pensa a Manfred e Andrea. Come si sentiranno a incontrare per strada l’assassino della figlia?».

Amelie asciugò i primi bicchieri lavati, lucidandoli con cura.

«Ma com’è cominciata questa storia?» domandò. Non aveva bisogno di motivare la propria curiosità, la padrona era in vena di chiacchiere.

«Tobi stava con Laura, ma poi si è messo con Stefanie, che era arrivata da poco ad Altenhain. Il giorno in cui sono scomparse c’era la festa del paese. Eravamo tutti sotto il tendone. All’epoca avevo quattordici anni ed ero contenta di poter rimanere fuori tutta la sera. A dire il vero non mi sono accorta di niente. Solo la mattina dopo, quando è arrivata la polizia con i cani, gli elicotteri e tutto il resto, ho saputo che Laura e Stefanie erano sparite».

«Non avrei mai immaginato che in un posto tranquillo come Altenhain potesse succedere una cosa tanto emozionante» confessò Amelie.

«Sí, in effetti è stato molto emozionante» ammise Jenny, guardando trasognata la sigaretta che fumava tra le dita a salsicciotto. «Ma da allora niente è tornato piú come prima. Una volta qui in paese erano tutti amici. Ora è completamente diverso. Il padre di Tobi gestiva il Gallo d’Oro, un locale molto animato, dove tutte le sere organizzavano qualcosa. Avevano un’enorme sala che a carnevale si riempiva di vita. In quel periodo il Cavallino Nero non esisteva ancora. Mio marito ha cominciato come cuoco proprio al Gallo d’Oro».

Per un attimo Jenny smise di parlare e si abbandonò ai ricordi. Amelie spinse verso di lei un posacenere.

«Jörg e i suoi amici sono stati interrogati per ore. Nessuno sapeva niente. Poi ha cominciato a spargersi la voce che Tobi aveva ammazzato tutte e due le ragazze. Nella sua auto c’era il sangue di Laura e le cose di Stefanie erano nascoste sotto il suo letto. La polizia ha anche trovato il cric con cui è stata ammazzata Stefanie. Era nella fossa dei liquami di casa Sartorius».

«Incredibile. Conosceva le due ragazze?».

«Conoscevo Laura. Era nel giro di amici di mio fratello, come Felix, Micha, Tobi, Nathalie e Lars».

«Nathalie? Lars?».

«Lars Terlinden. E Nathalie Unger. Lei è diventata un’attrice famosa, oggi si fa chiamare Nadja von Bredow. Magari l’hai vista in televisione». Jenny guardò dritto davanti a sé. «Sono gli unici due che hanno combinato davvero qualcosa. Lars ha un ottimo lavoro in una banca, o almeno credo. Non sappiamo niente di preciso, non è piú tornato ad Altenhain. Anch’io ho sempre sognato di andarmene e di vedere il mondo. Ma è difficile che i sogni si realizzino…».

Amelie aveva difficoltà a credere che la padrona del locale, grassa e sempre di cattivo umore, fosse stata un’allegra quattordicenne. Non riusciva a immaginarsela. Forse si comportava cosí spesso in maniera scontrosa perché era bloccata in un buco di paese con tre marmocchi che piagnucolavano continuamente e un marito che davanti a tutti, facendo allusione al suo fisico, la chiamava con disprezzo «Micheline».

«E Stefanie?» chiese, vedendo che Jenny stava per perdersi di nuovo nei ricordi. «Com’era?».

«Mmh». La donna fissò il vuoto. «Era bella. Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano».

Posò lo sguardo su Amelie. Gli occhi chiari contornati da ciglia bionde ricordavano quelli di un maiale.

«Tu le somigli un po’» disse. Non sembrava un complimento.

«Davvero?». Amelie smise di lavorare.

«Stefanie era completamente diversa dalle ragazze del paese» continuò Jenny. «Si era appena trasferita qui insieme ai genitori. C’è voluto poco perché Tobi si prendesse una cotta per lei e mollasse Laura». Fece una risatina. «Mio fratello sperava di approfittarne. I ragazzi erano tutti pazzi di Laura. Era molto bella, ma anche molto capricciosa. Quando Stefanie le ha soffiato il titolo di Miss Altenhain è andata su tutte le furie».

«Come mai gli Schneeberger non abitano piú qui?».

«Tu rimarresti a vivere nel posto dove è stata uccisa tua figlia? Hanno resistito circa tre mesi, poi un giorno se ne sono andati».

«Mmh. E Tobi? Che tipo era?».

«Ah, le ragazze erano tutte innamorate di lui. Anche io». Jenny sorrise malinconicamente, ripensando al periodo in cui era ancora giovane, magra e piena di sogni. «Era un gran bel ragazzo. Ma non se la tirava per niente, a differenza degli altri. Quando andavano in piscina, Tobi era d’accordo che mi unissi al gruppo. Gli amici storcevano il naso, non volevano portarsi dietro una piccola piattola. Ma lui era dolcissimo. E anche molto sveglio. Erano tutti convinti che nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande. Già. Guarda com’è andata a finire. L’alcol cambia le persone. Quando beveva, Tobi diventava un altro…».

La porta si aprí ed entrarono due uomini. Jenny spense immediatamente la sigaretta. Amelie mise a posto i bicchieri puliti, poi andò dai clienti e porse loro il menu. Tornando indietro, prese il quotidiano lasciato su un tavolo. Lo sguardo le cadde sulla pagina della cronaca locale. La polizia stava cercando il tizio che aveva spinto la madre di Tobias giú da un ponte.

«Oh merda!» esclamò sottovoce, spalancando gli occhi. Anche se l’immagine era di pessima qualità, aveva riconosciuto all’istante l’uomo nella foto.

 

Bodenstein temeva il momento in cui si sarebbe trovato davanti la moglie e cosí era rimasto in ufficio a riflettere, finché non aveva piú potuto rimandare il rientro a casa. Quando entrò e sentí uno sciacquio provenire dal piano di sopra, capí che Cosima era nella vasca da bagno. Si fermò in cucina, le braccia abbandonate lungo il corpo, e vide la sua borsa appesa a una sedia. Non aveva mai frugato nella borsa della moglie, cosí come non aveva mai pensato di ficcare il naso tra gli oggetti sulla sua scrivania, perché si era sempre fidato di lei e non aveva motivo di credere che avesse qualcosa da nascondergli. Ma le cose erano cambiate. Per un attimo fu combattuto, poi afferrò la borsa e rovistò fino a trovare il telefonino. Con il cuore in gola lo aprí. Cosima non l’aveva spento. Bodenstein sapeva che stava tradendo la sua fiducia, ma non poteva evitarlo. Dal menu scelse la voce Messaggi e diede un’occhiata agli sms in memoria. La sera prima, alle 21:48, aveva ricevuto un messaggio da un mittente sconosciuto. Domani, 9:30? Stesso posto? La risposta era stata inviata un minuto dopo. Dov’era? Come mai non si era accorto di nulla? Cosima aveva scritto: Bene, non vedo l’ora!!! Tre punti esclamativi. Dentro di lui si fece strada un senso di nausea. I timori che l’avevano assillato per tutto il giorno sembravano infine confermati. I tre punti esclamativi escludevano ogni possibilità innocente. Alle dieci meno dieci di un lunedí sera non si sarebbe rallegrata tanto per un appuntamento dal medico o dal parrucchiere. Con l’orecchio teso verso il piano superiore cercò altri messaggi compromettenti. Non trovò niente; senza dubbio Cosima aveva appena cancellato l’archivio. Bodenstein estrasse il proprio cellulare e memorizzò il numero dello sconosciuto che alle nove e mezza di un martedí mattina si era incontrato con sua moglie, chiaramente non per la prima volta. Poi richiuse il telefonino di Cosima e lo rimise nella borsa. Si sentiva male. Il pensiero che lei lo stesse ingannando e tradendo era insopportabile. Lui non le aveva mai mentito, neanche una volta in oltre venticinque anni di matrimonio. La sincerità non era sempre la scelta piú conveniente, ma bugie e false promesse erano in profondo contrasto con il suo carattere e la rigida educazione che gli avevano impartito. Doveva raggiungerla al piano di sopra e affrontarla? Chiederle perché aveva mentito? Si passò le mani aperte tra i folti capelli scuri e fece un respiro profondo. No, non le avrebbe detto niente. Avrebbe conservato ancora per un po’ l’apparenza e l’illusione di un rapporto perfetto. Forse era un comportamento da vigliacco, ma non aveva la forza di prendere in mano la propria vita e farla a pezzi. C’era ancora una piccolissima speranza. Magari le cose non erano proprio come sembravano.

 

Arrivarono a due a due o in piccoli gruppi ed entrarono in chiesa dalla porta sul retro, ma solo dopo aver pronunciato la parola d’ordine. L’invito era avvenuto passandosi la voce, e la parola d’ordine era dunque fondamentale. Voleva assicurarsi che non ci fossero intrusi. Erano passati undici anni dall’ultima volta che aveva organizzato un simile incontro clandestino per evitare che succedesse qualcosa di terribile. Ora, prima che la situazione degenerasse, bisognava prendere nuovi provvedimenti. Nascosto vicino all’organo, dietro una delle travi di legno del matroneo, osservò con crescente nervosismo le file di panche che si riempivano lentamente. I pochi ceri intorno all’altare gettavano strane ombre sulle pareti e sul soffitto a volta della navata. La luce elettrica avrebbe potuto attirare attenzioni indesiderate, neanche la fitta nebbia che regnava all’esterno sarebbe riuscita a nascondere le vetrate illuminate a giorno. Si schiarí la voce e sfregò i palmi umidi, poi diede un’occhiata all’orologio. Era ora. Ormai erano arrivati tutti. Con cautela scese la scala a chiocciola, facendo scricchiolare i gradini di legno sotto il proprio peso. Quando emerse dall’oscurità per entrare nella fioca luce delle candele, il mormorio che si levava dai presenti cessò di colpo. Dalla cima del campanile giunsero undici rintocchi. Una coreografia perfetta. Si fermò vicino alla prima fila di panche, nel corridoio centrale, e scrutò i volti familiari che aveva davanti; ciò che vide gli diede coraggio. Tutti gli occhi erano puntati su di lui. Sguardi decisi, come undici anni prima. Erano tutti perfettamente consapevoli della situazione.

«Vi ringrazio di essere venuti» disse, iniziando il discorso che aveva limato a lungo tra sé e sé. Parlava piano, ma la voce arrivava fin negli angoli piú lontani. La chiesa aveva un’acustica perfetta, se n’era accorto durante le prove del coro. «Da quando lui è tornato, la situazione è diventata insostenibile. Stasera siamo qui per decidere cosa fare».

Non era un oratore esperto, sotto sotto tremava per l’emozione, come sempre quando doveva parlare davanti ad altre persone. Riuscí tuttavia a spiegare in poche parole qual era il problema. Nessuno chiese come mai si fossero riuniti e nessuno batté ciglio quando annunciò le proprie intenzioni. Per un istante regnò il silenzio piú completo. Qualcuno tossí in modo sommesso. Sentiva il sudore colargli lungo la schiena; anche se era quasi convinto dell’assoluta necessità di ciò che proponeva, era ben consapevole di trovarsi in una chiesa e di aver appena istigato gli altri all’omicidio. Fece scivolare lo sguardo sui trentaquattro visi tra le panche. Erano tutte persone che conosceva da sempre. Nessuno di loro si sarebbe lasciato sfuggire una sola parola su quell’incontro. Undici anni prima le cose erano andate nello stesso modo. Trattenendo il respiro, attese.

«Io ci sto» dichiarò qualcuno dalla terza fila.

Di nuovo silenzio. Mancava ancora un volontario. Dovevano essere almeno in tre.

«Vengo anch’io» disse un’altra voce e tutti risposero con un sospiro.

«Bene». Si sentiva sollevato. Per un attimo aveva temuto che volessero fare marcia indietro. «Gli daremo un avvertimento. Se non se ne andrà, passeremo alle maniere forti».