Giovedí, 13 novembre 2008

«Ieri è venuta la polizia». Tobias soffiò sul caffè bollente che lei gli aveva appena versato. Aveva evitato l’argomento per tutta la notte, ma ora doveva parlargliene. «Hanno trovato i resti di Laura nel vecchio aeroporto di Eschborn. In un serbatoio interrato».

«Cosa?». Nadja, che stava per bere un sorso di caffè, si bloccò con la tazza a mezz’aria. Erano seduti in cucina, al tavolo di granito grigio dove qualche sera prima avevano cenato insieme. Erano da poco passate le sette e fuori dalle grandi finestre regnava ancora l’oscurità. Alle otto Nadja doveva prendere un aereo per Amburgo, dove si effettuavano le riprese esterne per le nuove puntate della serie televisiva in cui aveva il ruolo di una commissaria di polizia.

«Quando…». Mise giú la tazza. «Come… come sanno che è proprio Laura?».

«Non ne ho idea». Tobias scosse la testa. «Non mi hanno detto molto. All’inizio non volevano neanche rivelarmi dove l’avevano trovata. Il capo era piú che convinto che lo sapessi già».

«Mio Dio» sussurrò lei, scioccata.

«Nadja». Tobias si piegò in avanti e posò una mano sulla sua. «Se vuoi che sparisca, devi solo dirlo».

«Perché dovrei volere una cosa del genere?».

«Perché hai paura di me. Lo vedo».

«Sciocchezze!».

Tobias ritirò la mano, si alzò e le diede le spalle. Per un attimo combatté con la propria coscienza. Era rimasto sveglio per buona parte della notte, aveva ascoltato il suo respiro regolare e si era chiesto quanto sarebbe durata. Temeva il giorno in cui Nadja avrebbe cominciato ad allontanarlo con discorsi impacciati, a evitarlo e a farsi negare. Prima o poi sarebbe successo. Non era l’uomo giusto per lei. Non si sarebbe mai adattato al suo mondo, alla sua vita.

«Dobbiamo affrontare l’argomento» disse infine con voce velata. «Sono stato condannato per omicidio e ho passato dieci anni in prigione. Non possiamo fare finta di niente e comportarci come se avessimo ancora vent’anni».

Si voltò. «Non so chi ha ucciso Laura e Stefanie. Magari sono stato proprio io, ma in questo caso dovrei ricordarmene! Invece non ricordo niente. Ho solo questo… questo buco nero. La psicologa del tribunale ha detto che a volte succede, in certe situazioni il cervello umano reagisce con una specie di amnesia, come quando subiamo uno shock. Ma non credi che dovrei ricordarmi qualcosa? Magari il fatto di aver messo Laura nel bagagliaio e di averla portata da qualche parte. Non so niente di niente. Il mio ultimo ricordo è Stefanie che dice… che… non mi ama piú. Dopo un po’ hanno suonato Felix e Jörg, ma a quel punto avevo già fatto il pieno di vodka e stavo malissimo. Poi sono arrivati i poliziotti e hanno cominciato a dire che avevo ammazzato Laura e Stefanie!».

Nadja rimase seduta e lo fissò con i grandi occhi verde giada.

«Mi capisci?» aggiunse lui in tono supplichevole. Il dolore che aveva dentro era tornato, piú forte di prima. La posta in gioco era troppo alta. Non voleva iniziare una vera relazione con Nadja sicuro già che sarebbe finita con un’altra delusione. «Il fatto di non sapere cosa sia successo davvero undici anni fa non mi dà pace. Sono o non sono un assassino?».

«Tobi» disse dolcemente lei. «Ti amo. Ti ho sempre amato. Non m’importa se sei stato tu».

Tobias fece una smorfia di disperazione. Possibile che Nadja non lo capisse? Aveva assolutamente bisogno di qualcuno che gli credesse, che avesse fiducia in lui. Non era fatto per vivere ai margini. Sarebbe crollato.

«Importa a me» replicò. «Ho perso dieci anni della mia vita e ora non ho piú un futuro. Qualcuno ha voluto distruggermi. Non posso fingere che vada tutto bene».

«E cosa vorresti fare?».

«Cercare la verità. Anche a costo di scoprire che sono stato io».

Nadja spinse indietro la sedia, si avvicinò con passo leggero, gli mise le braccia intorno alla vita e lo guardò negli occhi.

«Io ti credo» sussurrò. «E se vuoi ti aiuterò a fare quello che devi fare. Ma ti prego, non tornare ad Altenhain».

«E dove dovrei vivere?».

«Qui. O nella mia casa in Ticino. Oppure potresti venire ad Amburgo». Quest’idea la rallegrò e la fece sorridere. «Sí, vieni con me! Vedrai, la casa ti piacerà molto. È proprio in riva al fiume».

Lui esitò. «Mio padre non può rimanere di nuovo solo. E mia madre ha bisogno di me in questo momento. Magari ne riparliamo quando starà un po’ meglio».

«Da qui basta un quarto d’ora in macchina per raggiungere tuo padre». I grandi occhi verdi di Nadja erano vicinissimi. Tobias sentiva il profumo della sua pelle misto a quello dello shampoo. Stava vivendo il sogno di tanti tedeschi, Nadja von Bredow lo stava pregando di trasferirsi da lei. Che cosa lo tratteneva dall’accettare il suo invito?

«Per favore, Tobi!». Gli prese il viso tra le mani. «Ho paura. Non voglio che ti succeda qualcosa. Se penso che quei due uomini avrebbero potuto prendersela con te anziché con la ragazza…».

Amelie! Non ci aveva piú pensato! L’aveva lasciata ad Altenhain, dove si nascondeva la verità sui terribili fatti di undici anni prima.

«So badare a me stesso» le assicurò. «Non devi preoccuparti».

«Ti amo, Tobi».

«Anch’io ti amo» rispose lui e la strinse a sé.

«Capo?». Kai Ostermann era fermo sulla porta con due fogli in mano.

Bodenstein si bloccò. «Che c’è?».

«Sono appena arrivati via fax». Ostermann gli consegnò i fogli e lo scrutò in volto ma, seguendo il suo esempio, non fece alcun commento.

«Grazie». Con il cuore che batteva forte, Bodenstein raggiunse la propria scrivania. Erano i tabulati del cellulare di Cosima con le telefonate delle ultime due settimane; li aveva richiesti alla Telekom martedí. Era la prima volta che sfruttava la posizione di commissario per risolvere una faccenda privata. Il bisogno di vederci chiaro era piú forte del senso di colpa per un comportamento che qualche maligno avrebbe potuto definire abuso d’ufficio. Si sedette e si preparò mentalmente. La lettura dei tabulati gli tolse ogni illusione. Cosima era stata davvero a Magonza, ma solo un’ora al giorno per due giorni. Aveva quindi trascorso otto mattine a Francoforte. Bodenstein mise i gomiti sulla scrivania, posò il mento sui pugni e rifletté un attimo. Poi prese il telefono e digitò il numero dell’ufficio di Cosima. Dopo due squilli rispose Kira Gasthuber, assistente alla produzione e factotum. Cosima era uscita. Perché non provava a chiamarla sul cellulare?

Perché non voglio che mi racconti un’altra bugia, brutta stupida, pensò Bodenstein. Stava per chiudere la comunicazione quando in sottofondo udí la vocetta limpida di Sophia. Nella testa gli suonò un campanello d’allarme. Cosima non si separava mai dalla piccola, la portava ovunque andasse. Come mai l’aveva lasciata in ufficio? Kira, che non era affatto stupida, si affrettò a dargli una spiegazione: sua moglie era uscita per poco e Sophia si divertiva di piú in ufficio con lei e René. Dopo aver riagganciato, Bodenstein rimase seduto per un bel po’ alla scrivania, con i pensieri che turbinavano nella mente. Per cinque volte il cellulare di Cosima si era collegato alla cella che copriva il Nordend e piú precisamente il quadrilatero compreso tra Glauburgstraße, Oeder Weg, Eckenheimer Landstraße ed Eschenheimer Anlage. Sulla mappa poteva anche sembrare una piccola zona, ma in realtà includeva centinaia di case e migliaia di appartamenti. Maledizione! Dove diavolo era Cosima? E, soprattutto, con chi? Come avrebbe reagito se avesse scoperto che lo tradiva? E quali potevano essere i motivi di un tradimento? Sí, la vita sessuale di Cosima non era piú cosí vivace come prima della nascita di Sophia, ma era normale che si facesse meno sesso con una bambina piccola in casa. Non poteva essere questo il problema. O sí? Bodenstein si accorse con vergogna che non ricordava piú quando aveva avuto l’ultimo rapporto con la moglie. Si concentrò e tornò indietro con la mente. Già! Era successo la sera in cui erano rincasati brilli e di ottimo umore dopo la festa di compleanno di un amico. Tirò fuori l’agenda e si mise a cercare il giorno, ma fu subito preso da una strana sensazione, che si intensificò pagina dopo pagina. Possibile che avesse dimenticato di segnare il compleanno dell’amico? No, non l’aveva dimenticato. Bernhard aveva festeggiato i suoi cinquant’anni il 20 settembre a Schloss Johannisberg, nel Rheingau. Non poteva essere vero! Bastò un rapido conto per verificare che non toccava Cosima da ben otto settimane. Era imbarazzante. Forse cosí l’aveva spinta tra le braccia di un altro? Si udí bussare e nell’ufficio entrò Nicola Engel.

«Dimmi».

Lei rispose con espressione gelida. «Quando pensavi di dirmi che il commissario Behnke svolge una seconda attività non autorizzata in un locale di Sachsenhausen?».

Porca miseria! Con tutti i problemi personali che aveva, si era completamente dimenticato del secondo lavoro di Behnke. Non le chiese come l’avesse saputo e rinunciò anche a ogni tipo di giustificazione.

«Volevo parlare prima con lui» disse molto semplicemente. «Finora non ne ho avuto l’occasione».

«Potrai farlo stasera. Non mi interessa se sta male, l’ho convocato qui per le diciotto e trenta. Vedi di risolvere il problema».

 

Il cellulare cominciò a suonare non appena il suo possessore superò il controllo doganale e si diresse verso l’uscita. Lars Terlinden passò la valigetta nell’altra mano e prese il telefonino. Per tutto il giorno a Zurigo si era fatto strapazzare dai membri del consiglio di amministrazione, che solo un paio di mesi prima l’avevano festeggiato come il salvatore e ora, per lo stesso affare, volevano crocifiggerlo. Accidenti a loro, non era mica un chiaroveggente! Come poteva sapere che il dottor Markus Schönhausen si chiamava in realtà Matthias Mutzler, che non veniva da Potsdam ma da un paesino del Giura svevo e che era un millantatore della peggior specie? Non aveva nessuna colpa se quelli dell’ufficio legale non avevano fatto i compiti. Erano già rotolate alcune teste e la prossima sarebbe stata la sua. Doveva assolutamente trovare un modo per far recuperare alla banca le centinaia di milioni che aveva perso.

«Arrivo tra una ventina di minuti» disse alla segretaria, mentre i vetri opalini si aprivano per farlo uscire. Era esausto, sfinito, snervato. A trent’anni odiava già il mondo intero. Non riusciva piú a dormire senza sonnifero e mangiare gli pesava, ma in compenso non aveva difficoltà a bere. Sapeva di essere sulla buona strada per diventare un alcolista, ma si sarebbe occupato del problema piú avanti, dopo essere uscito dalla situazione drammatica in cui si trovava. Anche se sembrava che una via d’uscita non ci fosse. L’economia mondiale era in crisi, le grandi banche americane stavano fallendo. Lehman Brothers era solo l’inizio. Lo stesso istituto per cui lavorava, una delle banche piú importanti della Svizzera, nell’ultimo anno aveva licenziato cinquemila persone in tutto il mondo. Negli uffici e nei corridoi regnava il terrore. Il cellulare suonò di nuovo. Fece finta di niente e lo infilò in tasca. Erano passate sei settimane da quando la notizia del fallimento dell’impero immobiliare di Schönhausen l’aveva colto totalmente alla sprovvista. Solo due giorni prima aveva pranzato con lui all’Adlon di Berlino. Quel maledetto bastardo sapeva già cosa sarebbe successo di lí a poco, per questo se l’era svignata. L’Interpol lo stava ancora cercando. Con un colpo di coda Lars Terlinden era riuscito a garantire buona parte dei crediti e a venderli ad altri investitori, ma trecentocinquanta milioni di euro erano comunque andati in fumo.

Una donna gli si parò davanti. Tentò di schivarla per non perdere tempo, ma lei continuò ostinatamente a sbarrargli la strada. Solo quando sentí la voce capí che era sua madre. Non la vedeva da otto anni.

«Lars!» ripeté lei, implorante. «Ti prego, aspetta!».

Era la stessa di sempre, piccola e ben curata. Capelli dorati con un perfetto taglio alla paggetto, trucco discreto e un filo di perle sul décolleté abbronzato. Gli sorrise umilmente e questo lo fece andare subito in bestia.

«Cosa vuoi?» domandò brusco. «Ti ha mandato tuo marito?».

Non riuscí a dire “mio padre”.

«No, Lars. Aspetta un attimo. Ti prego».

Alzando gli occhi al cielo, Lars Terlinden si fermò. Da piccolo aveva un’autentica venerazione per la madre, stravedeva per lei e sentiva terribilmente la sua mancanza ogni volta che se ne andava per giorni o settimane affidando i figli alla governante. Le aveva perdonato tutto, desideroso di conquistare il suo amore, ma non aveva mai ottenuto niente, solo qualche sorriso, belle parole e vane promesse. Molti anni dopo aveva capito che lei non poteva dare di piú perché non ne era capace. Christine Terlinden era un guscio vuoto, una bellezza senza spirito e senza personalità, che aveva una sola ragione di vita: essere una perfetta moglie di rappresentanza per il grande imprenditore Claudius Terlinden.

«Ti trovo bene. Un po’ troppo magro, forse». Sí, era sempre la stessa. Dopo tanto tempo non riusciva comunque a evitare le banalità. Lars aveva cominciato a disprezzarla quando si era reso conto che per tutta la vita non aveva fatto altro che ingannarlo.

«Cosa vuoi, mamma?» ripeté spazientito.

«Tobias è uscito di prigione» rispose lei a voce bassa. «E la polizia ha trovato i resti di Laura. Nel vecchio aeroporto di Eschborn».

Lars serrò le mascelle. Di colpo fece un salto indietro nel tempo e, al centro della zona arrivi dell’aeroporto di Francoforte, ebbe la spiacevole sensazione di essere ancora un diciannovenne brufoloso e pieno di paura. Laura! Non avrebbe mai dimenticato il suo viso, la sua risata, la gioiosa spensieratezza che le avevano portato via all’improvviso. Non era piú riuscito a parlare con Tobias, suo padre aveva deciso tutto in un battibaleno e l’aveva mandato in esilio da un conoscente, in una tenuta nel cuore dell’Oxfordshire. Pensa al tuo futuro, figliolo! Tieni la bocca chiusa e non ti immischiare. Vedrai che andrà tutto bene. Naturalmente aveva obbedito. Era stato zitto e non si era immischiato. Poi, quando ormai era troppo tardi, aveva saputo della condanna di Tobi. Per undici anni aveva fatto di tutto per non pensare a quella terribile sera, per non ricordare l’orrore e la paura. Per undici schifosissimi anni aveva lavorato quasi ininterrottamente, nel tentativo di dimenticare. E ora arrivava lei con la sua bella pelliccetta e, sorridendo come una bambola, riapriva le vecchie ferite!

«Non mi interessa» disse lapidario. «Sono cose che non mi riguardano».

«Ma…».

Non le diede il tempo di finire. «Lasciami in pace!» sbottò. «Non provare piú a contattarmi, hai capito? Stammi lontano, come hai sempre fatto!».

Lasciandola dov’era, si girò e si diresse con passo deciso verso la scala mobile che portava alla stazione della metropolitana.

 

Erano tutti in garage a bere birra dalla bottiglia come un tempo. Tobias si sentiva a disagio e anche gli altri sembravano imbarazzati. Perché aveva accettato l’invito? Era rimasto molto sorpreso quando nel pomeriggio aveva ricevuto la telefonata di Jörg, che gli aveva proposto una birra in compagnia. Oltre a lui c’erano Felix e un altro paio di amici. Il grande garage, che apparteneva allo zio di Jörg, era lo stesso in cui da giovani si erano riuniti tante volte per armeggiare intorno ai rispettivi motorini, poi sostituiti da motociclette e automobili. Jörg era un bravissimo meccanico, che da ragazzo sognava di diventare corridore. Nell’aria c’erano gli stessi odori – olio lubrificante e vernice, pelle e lucido – che Tobias ricordava bene. Erano seduti sul vecchio banco da lavoro, su cassette di birra rovesciate e gomme per auto. Tutt’intorno non era cambiato niente. Tobias non partecipava alla conversazione, che si svolgeva in modo forzatamente allegro proprio per la sua presenza. All’arrivo era stato salutato da tutti con una stretta di mano, ma senza troppo entusiasmo, e dopo un po’ si era ritrovato vicino a Felix e Jörg. Felix lavorava come copritetto insieme al padre. Era sempre stato un tipo robusto, ma negli anni il lavoro pesante e l’assiduo consumo di birra avevano fatto di lui un vero colosso. Quando rideva gli occhi miti quasi sparivano in mezzo al grasso, tanto che a Tobias sembrava di guardare un panino alle uvette. Jörg, invece, era praticamente uguale a prima, solo molto piú stempiato.

«Che fine ha fatto Lars?» domandò a un certo punto Tobias.

«Non quella che sperava il suo vecchio» rispose Felix con un sorrisetto maligno. «In pratica Lars l’ha mandato a cagare e ora gli rimane solo quell’idiota di Thies. Eh, anche i ricchi hanno problemi coi figli».

«Il nostro amico Lars ha fatto carriera» spiegò Jörg. «Me l’ha detto mia madre, che l’ha saputo direttamente dalla signora Terlinden. Lavora nell’investment banking. Maneggia un sacco di soldi. Ha una moglie, due bambini e un’enorme villa a Glashütten che ha comprato quand’è tornato dall’Inghilterra».

«Credevo che volesse studiare teologia e diventare prete» osservò Tobias, sorpreso dal dolore che gli provocava il ricordo del suo migliore amico, scomparso all’improvviso e senza un saluto.

«Neanch’io volevo fare il copritetto». Felix aprí un’altra bottiglia di birra facendo leva con l’accendino. «Purtroppo l’esercito non mi ha voluto e nemmeno la polizia. Potevo diventare panettiere, ma ho interrotto l’apprendistato dopo che… be’, lo sapete…».

Imbarazzato, abbassò lo sguardo.

«Io ho dovuto dire addio alle corse dopo essermi infortunato» aggiunse in fretta Jörg, per evitare che il silenzio diventasse troppo pesante. «E cosí, anziché arrivare in formula uno, sono finito al Cavallino Nero. Sai che mia sorella ha sposato Jagielski, vero?».

Tobias annuí. «L’ho saputo da mio padre».

«Già». Jörg bevve un sorso dalla bottiglia. «Sembra proprio che nessuno di noi abbia ottenuto ciò che voleva».

«Nathalie ce l’ha fatta» obiettò Felix. «E noi ridevamo come pazzi quando diceva che sarebbe diventata una famosa attrice!».

«È sempre stata una tosta» ricordò Jörg. «Ci comandava a bacchetta! Però non credevo che sarebbe arrivata cosí in alto».

Tobias sorrise. «Be’, neanch’io credevo che avrei studiato economia e seguito un corso per fabbri in prigione».

Gli altri due ebbero un attimo di esitazione, poi scoppiarono a ridere. L’alcol allentò la tensione e dopo la quinta bottiglia di birra Felix divenne piuttosto loquace.

«Mi dispiace di aver raccontato agli sbirri che quella sera siamo venuti da te» confessò, picchiando una mano sulla spalla di Tobias.

«Avete detto solo la verità» rispose lui, facendo spallucce. «Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo. Comunque non ha piú importanza. Ora sono di nuovo qui e sono davvero felice che voi due mi parliate ancora. In paese mi evitano quasi tutti».

Jörg gli diede una pacca sull’altra spalla. «Ehi, noi siamo amici! Ricordi quando abbiamo sfasciato quella vecchia Opel che mio zio aveva rimesso a posto con pazienza certosina? Cavoli, che roba!».

Tobias ricordava bene quell’episodio. E anche Felix. In un attimo si trovarono immersi nei ricordi. La festa dai Terlinden, durante la quale le ragazze si erano spogliate e avevano cominciato a correre per casa con indosso le pellicce della signora. L’arrivo della polizia al compleanno di Micha. Le prove di coraggio al cimitero. Il viaggio in Italia con la squadra. Il falò di San Martino che si era trasformato in un mezzo incendio perché Felix aveva usato una tanica di benzina come accelerante… Non la smettevano piú di ridere. Jörg dovette asciugarsi le lacrime.

«E vi ricordate quella volta che mia sorella ha rubato il mazzo di chiavi di mio padre e siamo andati a correre nell’hangar del vecchio aeroporto? È stato un vero sballo!».

 

Amelie stava navigando in Internet, quando qualcuno suonò alla porta. Controvoglia chiuse il portatile e si alzò. Maledizione, erano le undici meno un quarto! I vecchi avevano dimenticato a casa la chiave? Scalza, si affrettò a scendere per evitare che suonassero di nuovo e svegliassero i bambini. Era riuscita a metterli a letto da appena un’ora. Diede un’occhiata al piccolo monitor collegato alle due telecamere ai lati della porta d’ingresso, ma nell’immagine sfocata in bianco e nero vide solo un uomo con i capelli chiari. Quando aprí e si trovò davanti Thies, si stupí non poco. Non si era mai avvicinato alla porta e ovviamente non aveva mai osato suonare il campanello. Lo stupore si trasformò in preoccupazione non appena notò lo stato in cui era. Non l’aveva mai visto cosí nervoso. Mani tremanti, occhi che guizzavano, corpo in preda agli spasmi.

«Che c’è?» chiese con un filo di voce. «È successo qualcosa?».

Invece di rispondere, Thies le porse un rotolo di carta ben legato con un grosso nastro. Amelie era ferma sul primo gradino e sentiva i piedi diventare due pezzi di ghiaccio, ma si preoccupava solo per l’amico.

«Vuoi entrare?».

Lui scosse la testa con forza e continuò a guardarsi intorno, come se avesse paura di essere seguito.

«Nessuno deve vedere i disegni» disse poi con voce come sempre un po’ roca. «Devi nasconderli».

«Va bene, lo farò».

Mentre un’auto imboccava il vialetto dei Lauterbach, i fari squarciarono la nebbia e per un istante Amelie fu illuminata in pieno. Il garage dei vicini si trovava a soli cinque metri da lei. D’un tratto si accorse di essere sola; Thies era sparito nel nulla. Daniela Lauterbach spense il motore e uscí dalla macchina.

«Ciao, Amelie!».

«Salve, signora Lauterbach».

«Che fai davanti alla porta? Ti sei chiusa fuori?».

«No, torno adesso dal lavoro». Amelie rispose d’istinto, mentendo senza sapere perché.

«Ah, ho capito. Salutami i tuoi genitori. Buonanotte!». La dottoressa le fece un cenno di saluto, aprí col telecomando il portellone del garage doppio ed entrò. Un attimo dopo il portellone si richiuse alle sue spalle.

«Thies? Dove sei?».

Si spaventò vedendolo spuntare da dietro il grande tasso vicino alla porta.

«Che significa?» sussurrò Amelie. «Perché…».

La frase le morí in gola nel momento in cui osservò il suo viso. Negli occhi aveva il terrore. Perché era cosí spaventato? Preoccupatissima, allungò un braccio e lo toccò. Voleva solo calmarlo, ma lui si ritrasse.

«Devi custodire i disegni». Smozzicava le parole e aveva lo sguardo allucinato. «Non deve vederli nessuno. Neanche tu! Promettimelo!».

«Sí, sí, te lo prometto. Ma cosa…».

Thies si allontanò nell’oscurità prima che Amelie potesse finire la frase. Scuotendo la testa, lo seguí con lo sguardo mentre svaniva nella nebbia. Non sapeva come interpretare il suo strano comportamento. Ma non c’era niente da fare, Thies andava preso cosí com’era.

 

Cosima dormiva profondamente sul divano del soggiorno con il cane rannicchiato in grembo. Quando Bodenstein entrò in casa e si fermò ad ammirare la scena, l’animale non alzò neanche la testa, si limitò a scodinzolare pigramente. Cosima russava piano; gli occhiali le erano scivolati sulla punta del naso e il libro che stava leggendo era abbandonato sul petto. Normalmente si sarebbe avvicinato e l’avrebbe svegliata con un bacio delicato per non spaventarla, ma il muro invisibile che all’improvviso li divideva glielo impedí. Con grande sorpresa non provò neppure un briciolo di quella tenerezza che di solito lo pervadeva alla vista della moglie. Sapeva che il problema andava affrontato subito, prima che il sospetto avvelenasse il matrimonio. Avrebbe dovuto afferrarla per una spalla, scuoterla e chiederle perché aveva mentito, ma il vile desiderio di armonia e la paura di non sopportare la verità lo trattennero. Si girò dall’altra parte e andò in cucina. Mosso dalla speranza di ricevere da mangiare, il cane saltò giú dal divano e Cosima si svegliò. Con aria assonnata entrò in cucina mentre Bodenstein prendeva uno yogurt dal frigorifero.

«Ciao».

«Ciao. Mi sono addormentata». Lui affondò il cucchiaio nello yogurt e la guardò di sottecchi. Inaspettatamente notò delle rughe che non aveva mai visto prima; la pelle del collo era grinzosa e sotto gli occhi stanchi c’erano due borse piú che evidenti. D’un tratto Cosima dimostrava i suoi quarantacinque anni. Possibile che con la fiducia fosse venuto meno anche il filtro diffusore dell’affetto?

«Come mai oggi hai chiamato in ufficio e non sul cellulare?» chiese distrattamente lei, dando un’occhiata nel frigorifero.

«Non lo so». Bodenstein grattò tutto concentrato il fondo del vasetto. «Ho sbagliato numero e poi mi sono dimenticato di richiamarti. Comunque non era importante».

«Sono andata al Main-Taunus a comprare due cose» spiegò Cosima, chiudendo il frigo e sbadigliando. «Ho lasciato Sophia con Kira. Senza di lei faccio piú in fretta».

«Certo». Mettendo il vasetto vuoto davanti al muso del cane, per un attimo Bodenstein ebbe la tentazione di domandarle cosa avesse comprato. La sua spiegazione non lo convinceva neanche un po’. Di colpo capí che non sarebbe piú riuscito a crederle.

 

Amelie aveva nascosto il rotolo e si era rimessa davanti al portatile. Ma non riusciva a concentrarsi. Le sembrava di sentire i disegni sussurrare: «Dai, tiraci fuori! Guardaci!».

In lotta con la propria coscienza, si girò sulla sedia e fissò l’armadio. Poi udí gli sportelli dell’auto che sbattevano e la porta di casa che si apriva.

«Siamo tornati!» gridò una voce maschile. Amelie scese un attimo per salutare le persone con cui viveva. Anche se Barbara e le piccole pesti l’avevano accolta bene, non riusciva a usare il termine “famiglia” quando pensava a loro. Una volta tornata in camera, si sdraiò sul letto e si mise a riflettere. Dalla stanza accanto giunse il rumore dello sciacquone. Cosa poteva esserci nel rotolo? Thies aveva una predilezione per le opere astratte, anche se due giorni prima le aveva fatto un bellissimo ritratto. Perché le aveva chiesto di nascondere i disegni? Sembrava ci tenesse molto, aveva addirittura suonato il campanello per darglieli e pregarla di non mostrarli a nessuno. Una cosa molto strana.

Quando la casa si fece di nuovo silenziosa, aprí l’armadio e tirò fuori i fogli arrotolati. A giudicare dal peso erano piú di due o tre. Non avevano l’odore intenso delle opere dipinte da poco. Con cura sciolse il nastro che Thies aveva annodato diverse volte. Il rotolo conteneva otto opere di formato abbastanza piccolo, realizzate con uno stile completamente diverso dal solito. Si trattava di arte figurativa, fedele alla realtà, con persone che… Amelie osservò meglio la prima immagine. Un brivido le corse lungo la schiena, il battito del cuore accelerò. Davanti a un grande fienile con la porta spalancata c’erano due giovani chini su una ragazza bionda, stesa a terra con la testa in un lago di sangue. Un terzo giovane con i riccioli scuri era fermo non lontano, mentre un quarto, spaventatissimo, correva incontro all’osservatore. Il suo viso era familiare, era… Thies! Amelie passò rapidamente al secondo foglio.

«Mio Dio» sussurrò. Il fienile con la porta aperta, una stalla lunga e bassa, gli stessi ragazzi. Thies era seduto vicino al fienile e il tipo coi riccioli scuri, fermo sulla porta della stalla, osservava gli altri due all’interno. Uno stava violentando la ragazza bionda, mentre l’altro la bloccava. Deglutendo, Amelie passò all’immagine successiva. Ancora il fienile, un’altra ragazza con lunghi capelli neri e un vestitino azzurro che baciava un uomo. Lui le toccava il seno con una mano, lei aveva una gamba intorno alla sua coscia. Era una rappresentazione molto realistica. In fondo al fienile buio si vedeva il solito giovane coi capelli ricci. Sembrava di guardare delle fotografie; Thies aveva reso perfettamente ogni dettaglio: i colori dei vestiti, la collana della ragazza, la scritta su una maglietta… Incredibile! I disegni mostravano senza dubbio la proprietà della famiglia Sartorius. E gli avvenimenti del settembre 1997. Amelie stirò l’ultimo foglio con le mani e rabbrividí. La casa era talmente silenziosa che sentiva il cuore pulsarle nelle orecchie. L’immagine raffigurava l’uomo che nell’altro disegno baciava la ragazza dai capelli neri. Guardava dritto verso di lei. Lo conosceva. Lo conosceva bene.