Sabato, 15 novembre 2008

Gregor Lauterbach camminava avanti e indietro nel soggiorno, non riusciva a stare fermo. Aveva già bevuto tre bicchieri di whisky, ma l’effetto rilassante dell’alcol tardava a farsi sentire. Per tutto il giorno era riuscito a non pensare al minaccioso contenuto della lettera anonima, ma la paura si era rimpossessata di lui non appena aveva messo piede in casa. Daniela era già a letto, non voleva disturbarla. Per un attimo aveva preso in considerazione l’idea di chiamare la sua amante e di organizzare un incontro con lei nell’appartamento segreto, solo per distrarsi, ma aveva poi scartato questa possibilità. Doveva risolvere il problema da solo. Aveva buttato giú un sonnifero e si era coricato.All’una era stato però svegliato dal suono del telefono. Le chiamate in piena notte non portavano mai niente di buono. Era rimasto a letto tremante, sudato e folle di paura. Daniela aveva risposto dalla sua camera e poco dopo aveva percorso il corridoio con passo leggero per non svegliarlo. Quando aveva sentito la porta d’ingresso richiudersi alle spalle della moglie, Lauterbach si era alzato ed era sceso al piano di sotto. A volte capitava che lei uscisse nel cuore della notte per andare da un paziente. Aveva dimenticato che nel suo lavoro c’erano i giorni di reperibilità. Nel frattempo erano passate le tre e ormai si trovava sull’orlo di una crisi di nervi. Chi poteva aver spedito la lettera? Chi sapeva di Biancaneve e del mazzo di chiavi? Accidenti! In gioco c’erano la sua carriera, la sua reputazione, tutta la sua vita! Se una lettera del genere fosse finita alle persone sbagliate, sarebbe stata la fine. I giornalisti non aspettavano altro che un bello scandalo! Si asciugò le mani sudate nell’accappatoio e si versò un triplo whisky, poi si sedette sul divano. Nell’ingresso c’era la luce accesa, ma il soggiorno era buio. Non poteva raccontare della lettera a Daniela. Già allora aveva preferito tenere la bocca chiusa. Era stata lei a far costruire e a pagare la casa diciassette anni prima. Con il magro stipendio da insegnante lui non avrebbe mai potuto permettersi una villa simile. Daniela si era divertita a prendere sotto la sua ala il piccolo professore di liceo e a introdurlo negli ambienti giusti. Lei era un ottimo medico, a Königstein e dintorni aveva un sacco di pazienti privati benestanti e molto influenti che avevano riconosciuto e valorizzato il talento politico di suo marito. Gregor Lauterbach le doveva tutto, se n’era accorto a proprie spese nel momento in cui aveva rischiato di perdere il suo favore e il suo appoggio. Quando Daniela aveva deciso di perdonarlo si era sentito enormemente sollevato. A cinquantotto anni era ancora una donna affascinante, il che lo preoccupava moltissimo. Anche se da allora non avevano piú dormito insieme, la amava con tutto il cuore. Le altre donne che entravano e uscivano dalla sua vita e dal suo letto non contavano niente, erano solo corpi. Non voleva perdere Daniela. Non poteva perderla! Per nessun motivo. Sapeva troppo, conosceva le sue debolezze, i suoi complessi di inferiorità, la tremenda paura di fallire che un tempo lo bloccava e che ora aveva imparato a gestire. Sentendo la chiave che girava nella toppa, si riscosse. Si alzò dal divano e raggiunse l’ingresso.

«Ah, sei sveglio» disse lei, sorpresa. Sembrava tranquilla e rilassata, la stessa di sempre. Lauterbach si sentí come un marinaio che in mezzo alla tempesta intravede il suo faro.

Daniela lo scrutò e inspirò forte col naso. «Hai bevuto. C’è qualche problema?».

Lo conosceva fin troppo bene! Non era mai riuscito a nasconderle niente. Si sedette sull’ultimo gradino della scala.

«Non riesco a dormire» rispose, evitando scuse e spiegazioni. All’improvviso, con una forza che lo spaventò, avvertí il bisogno del suo amore materno, del suo abbraccio, del suo conforto.

«Ti do una compressa di lorazepam».

«No!». Lauterbach si alzò di scatto, vacillò, allungò un braccio verso di lei. «Non voglio prendere niente. Vorrei solo…».

Vedendo la sorpresa nei suoi occhi, s’interruppe. Si sentiva piccolo piccolo.

«Continua. Cosa vorresti?» sussurrò Daniela.

«Vorrei dormire con te stanotte» confessò con voce velata. «Ti prego, Dani».

 

Pia osservò la donna seduta dall’altra parte del tavolo. Aveva appena informato Andrea Wagner che i resti di sua figlia Laura potevano finalmente lasciare l’istituto di Medicina legale. Dato che la signora appariva solida e controllata, osò farle alcune domande sulla ragazza e sul suo rapporto con Tobias Sartorius.

«Perché me lo chiede?» replicò lei, sospettosa.

«Negli ultimi giorni mi sono letta tutta la documentazione dell’epoca relativa al caso» spiegò Pia. «Ho la sensazione che allora sia sfuggito qualcosa. Quando siamo andati da Tobias Sartorius e l’abbiamo informato del ritrovamento di Laura, mi è sembrato che davvero non ne sapesse niente. Non mi fraintenda, la prego, non sto dicendo che è innocente».

Andrea Wagner la guardò con occhi spenti. Per diversi istanti rimase in silenzio.

«Ho smesso di pensare a quello che è successo» disse infine. «È già abbastanza difficile andare avanti e sopportare gli sguardi di tutto il paese. I miei figli piú piccoli hanno dovuto convivere con il fantasma della sorella. Ho fatto tutto il possibile per dar loro un’infanzia normale, ma non è facile credere che vada tutto bene, quando l’uomo di casa si ubriaca ogni sera al Cavallino Nero perché non riesce ad accettare la realtà».

Non c’era amarezza nella sua voce. Stava solo constatando un fatto.

«Ho imparato a non farmi toccare da questo argomento. Ho dovuto, altrimenti qui sarebbe già andato tutto a rotoli». Con un movimento della mano indicò una pila di fogli sul tavolo. «Fatture non pagate. Solleciti. Vado a lavorare in un supermercato di Bad Soden per evitare che la casa e la falegnameria finiscano all’asta. Non voglio che la mia famiglia si ritrovi nella stessa situazione dei Sartorius. In un modo o nell’altro bisogna andare avanti. Non posso permettermi di vivere nel passato, come fa mio marito».

Pia non disse niente. Non era la prima volta che si trovava di fronte una simile realtà, sapeva che un singolo evento può sfasciare un’intera famiglia e distruggerla per sempre. Quanta forza ci voleva per fare come Andrea Wagner, per alzarsi mattina dopo mattina e andare avanti senza speranza di miglioramento? C’era ancora qualcosa in grado di darle un po’ di piacere?

«Conosco Tobias da quando è nato» continuò la signora. «Eravamo amici dei suoi genitori, cosí come lo eravamo di tutti gli altri. Mio marito guidava una squadra di vigili del fuoco e allenava i ragazzi del circolo sportivo. Tobias era il suo miglior attaccante. Ne andava molto orgoglioso». Sul viso pallido ed emaciato apparve un sorriso, ma durò solo un attimo. Andrea Wagner sospirò. «All’inizio nessuno voleva credere che fosse stato lui. Nemmeno io. Ma bisogna guardare in faccia la verità, no?».

«Ha perfettamente ragione». Pia annuí con convinzione. I Wagner avevano già sofferto abbastanza, non voleva rigirare il dito nella piaga. E poi non aveva motivo di fare domande su una faccenda chiarita da tempo. A spingerla era una vaga sensazione.

Dopo aver salutato la signora Wagner, uscí e attraversò il cortile trascurato per raggiungere l’auto. D’un tratto sentí il rumore stridente di una sega. Si fermò, tornò indietro e aprí la porta della falegnameria. Voleva solo essere gentile e informare il signor Wagner che presto avrebbe potuto seppellire la figlia e chiudere cosí un capitolo molto doloroso. Forse sarebbe riuscito a rimettersi in carreggiata. Lo trovò al banco da lavoro, di schiena, impegnato a tagliare una tavola con la sega a nastro. Appena la macchina si spense, Pia manifestò la propria presenza. L’uomo portava un sudicio berretto da baseball, ma nessuna protezione per le orecchie, e in un angolo della bocca aveva una sigaretta spenta. Dopo averla guardata in modo tutt’altro che amichevole, si allungò verso il basso per prendere un’altra tavola e i pantaloni sformati scivolarono giú, lasciando scoperta la parte inferiore della sua schiena pelosa. Uno spettacolo poco piacevole.

«Cosa vuole?» borbottò. «Non vede che ho da fare?».

Dall’ultimo incontro non si era ancora rasato, i vestiti puzzavano di sudore vecchio. Pia rabbrividí e fece istintivamente un passo indietro. Come si poteva convivere giorno e notte con un uomo cosí trasandato? La compassione per Andrea Wagner crebbe all’istante.

«Signor Wagner, ho appena parlato con sua moglie, ma vorrei dirlo personalmente anche a lei».

Il falegname si tirò su e si voltò per guardarla.

«Il medico legale ha…». Pia s’interruppe di colpo. Il berretto da baseball! La barba! Non c’erano dubbi. Davanti a lei c’era l’uomo della foto segnaletica che avevano ricavato dalla registrazione della telecamera di sorveglianza.

«Allora?». Lui la fissò con un misto di aggressività e indifferenza, poi, come se le avesse letto nel pensiero, impallidí e indietreggiò. Aveva il senso di colpa stampato in faccia.

«È… è stato un incidente» balbettò, alzando le mani. «Glielo giuro, non volevo che andasse cosí. Io… volevo solo parlare con lei, davvero!».

Pia fece un respiro profondo. Quindi aveva ragione, poteva esserci un collegamento tra l’aggressione a Rita Cramer e i fatti di quella fine estate del 1997.

«Quando ho saputo che quel… quel maledetto assassino era uscito di prigione e si era stabilito di nuovo ad Altenhain… be’, mi è tornato in mente tutto. Ho subito pensato a Rita. La conosco bene, una volta eravamo amici. Volevo solo parlare con lei, volevo che convincesse il bastardo a sparire… Ma Rita è scappata… si è messa a tirare calci e pugni… e di colpo… di colpo non ci ho visto piú per la rabbia…».

Si zittí.

«Sua moglie lo sapeva?» domandò Pia. Lui scosse la testa e incurvò le spalle.

«All’inizio no. Poi ha visto la foto sul giornale».

Andrea Wagner aveva sicuramente riconosciuto il marito, cosí come l’avevano riconosciuto tutti gli altri abitanti di Altenhain. Avevano taciuto per proteggerlo. Era uno di loro, un pover’uomo che aveva perso la figlia in modo tragico. Forse credevano che Wagner si fosse preso una giusta rivincita e che la famiglia Sartorius meritasse una simile disgrazia.

«Pensa di farla franca solo perché in paese l’hanno coperta?». Non provava piú alcuna compassione per Manfred Wagner.

«No» sussurrò lui. «Veramente… volevo già andare alla polizia».

All’improvviso fu sopraffatto dalla rabbia e dal dolore. Picchiò i pugni sul banco da lavoro. «Quel maledetto assassino ha scontato la pena, ma la mia Laura è morta per sempre! Quando Rita si è rifiutata di ascoltarmi, mi sono infuriato. E il parapetto era cosí basso…».

 

Andrea Wagner se ne stava in cortile con le braccia incrociate sul petto e un’espressione indecifrabile sul volto, mentre il marito veniva portato via da due poliziotti. Il modo in cui lo guardava diceva già tutto. Tra loro non c’erano piú né amore né affetto. A tenerli insieme potevano essere i figli, i doveri quotidiani o la mancanza di prospettive legata al divorzio, ma niente di piú. La signora Wagner disprezzava il marito, che invece di affrontare problemi e preoccupazioni li affogava nell’alcol. Era una donna gravata dal dolore e Pia provava una sincera compassione per lei. Il futuro della famiglia Wagner non sarebbe stato piú roseo del passato. Aspettò finché l’auto della polizia non ebbe lasciato il cortile. Bodenstein sapeva già tutto e piú tardi, in commissariato, avrebbe parlato personalmente con Manfred Wagner.

Pia entrò in macchina, si allacciò la cintura di sicurezza e partí. Guidò attraverso la piccola zona industriale, occupata in gran parte dall’azienda di Terlinden. L’alto recinto racchiudeva una vasta area con capannoni, parcheggi e prati ben curati. Per raggiungere l’edificio principale, una grande costruzione di forma semicircolare con un’altissima facciata a vetri, bisognava superare delle sbarre e un gabbiotto. Diversi camion erano in attesa davanti a una sbarra; all’interno un altro veicolo veniva controllato dagli addetti alla sorveglianza. Il camion che aveva dietro suonò il clacson. Pia aveva già messo la freccia a sinistra per prendere la b519 che l’avrebbe portata a Hofheim, ma all’ultimo momento decise di fare una breve visita alla famiglia Sartorius e svoltò a destra.

La nebbia mattutina si era diradata, lasciando spazio a una bella giornata di sole, un residuo di tarda primavera a metà novembre. Altenhain era praticamente deserta. Pia vide una ragazza che portava a spasso due cani, e un uomo di una certa età che, appoggiato al cancelletto di casa, conversava con una signora non piú giovane. Dopo aver superato il Cavallino Nero e il suo parcheggio ancora vuoto, passò davanti alla chiesa, fece una stretta curva a destra e frenò per non investire un grosso gatto grigio che stava attraversando la viuzza con dignitosa lentezza. Davanti all’ex trattoria dei Sartorius c’era una Porsche Cayenne argentata con targa di Francoforte. Pia parcheggiò accanto al suv e varcò il portone spalancato. In cortile non c’era piú traccia di rifiuti e rottami; anche i topi erano scomparsi, probabilmente in cerca di lidi migliori. Salí i tre gradini d’ingresso e suonò. Quando la porta si aprí, si trovò davanti Hartmut Sartorius e una donna bionda. Con grande sorpresa riconobbe l’attrice Nadja von Bredow, famosa in tutta la Germania per il ruolo della commissaria Stein nella versione amburghese di Tatort. Che ci faceva ad Altenhain?

«Lo troverò» disse l’attrice a Hartmut Sartorius, che vicino alla sua figura elegante e slanciata sembrava ancora piú malconcio del solito. «Grazie mille e a presto».

Diede una rapida occhiata a Pia e le passò accanto senza una parola o un cenno di saluto. Lei la seguí con lo sguardo, poi si voltò verso il padre di Tobias.

«Nathalie è la figlia dei nostri vicini» spiegò l’uomo prima che potesse fargli qualunque domanda. Era chiaro che aveva notato lo stupore sul suo viso. «Da piccola giocava insieme a Tobias e negli ultimi dieci anni è rimasta in contatto con lui. È stata l’unica».

«Ho capito». Pia annuí. Anche le attrici famose avevano alle spalle un’infanzia da qualche parte. Perché non ad Altenhain?

«Cosa posso fare per lei?».

«Suo figlio è in casa?».

«No, è uscito per una passeggiata. Ma si accomodi, la prego».

Pia entrò e si lasciò condurre in cucina. La stanza era molto piú ordinata della volta precedente, proprio come il cortile. Ma perché la gente portava sempre la polizia in cucina?

 

Amelie camminava lungo il margine del bosco con le mani in tasca, immersa nei propri pensieri. La violenta pioggia della notte aveva lasciato il posto a una giornata mite e silenziosa. Sui prati disseminati di alberi da frutto c’era un sottile strato di nebbia, ma il bosco, illuminato qua e là dai raggi che filtravano tra le nuvole grigie, risplendeva di colori autunnali. Le ultime foglie sui rami brillavano di rosso, giallo e marrone, e tutt’intorno aleggiava un profumo di ghiande e terra bagnata. Si sentiva anche l’odore di un fuoco che qualcuno aveva acceso in un prato. Amelie, abituata alla grande città, inspirò profondamente e si riempí i polmoni di aria fresca e tersa. Non si era mai sentita cosí viva. Doveva ammettere che la campagna aveva anche aspetti positivi. Sul fondo della valle giaceva il paese. Da lontano sembrava cosí tranquillo! Un’auto rossa scivolò lungo la strada come una grossa coccinella e scomparve tra le case appiccicate le une alle altre. Sulla panchina di legno vicino alla vecchia croce era seduto un uomo. Avvicinandosi, Amelie rimase sorpresa nel riconoscere Tobias.

«Ehi!» disse, fermandosi proprio lí davanti. Lui alzò la testa e nella ragazza la sorpresa si trasformò di colpo in orrore. La metà sinistra del viso era tutta un ematoma viola scuro, un occhio era terribilmente gonfio e il naso somigliava a un’enorme patata. Sul sopracciglio aveva una ferita chiusa con dei punti.

«Ehi» rispose Tobias. Per un attimo si guardarono in silenzio. I suoi bellissimi occhi azzurri erano vitrei, ma era chiaro che stava soffrendo molto. «Mi hanno beccato. Ieri sera, nel fienile».

«Fantastico». Amelie si sedette al suo fianco. Per un po’ nessuno dei due disse una parola.

«Dovresti andare alla polizia» azzardò infine lei, senza troppa convinzione. Tobias sbuffò sprezzante.

«Non ci penso neanche! Hai una sigaretta?».

Amelie frugò nello zaino e insieme all’accendino tirò fuori un pacchetto tutto stropicciato. Dopo aver acceso due sigarette, gliene porse una.

«Ieri sera il fratello di Jenny Jagielski e quel ciccione del suo amico Felix sono arrivati piuttosto tardi al Cavallino Nero» raccontò senza guardarlo. «Si sono seduti in un angolo e devo dire che avevano un’aria molto strana. Mancavano anche dei giocatori di skat: il vecchio Pietsch, il signor Richter e Traugott Dombrowski. Erano già le dieci meno un quarto quando si sono fatti vivi».

«Mmh». Tobias diede un tiro alla sigaretta.

«Forse sono stati loro».

«È molto probabile» commentò lui in tono piatto.

«Ma… se sai chi può essere stato…». Amelie girò la testa e incontrò il suo sguardo. Si voltò subito dall’altro lato. Era molto piú facile parlare con Tobias senza guardarlo negli occhi.

«Perché stai dalla mia parte?» chiese lui di punto in bianco. «Mi sono fatto dieci anni di prigione perché ho ucciso due ragazze».

Non sembrava amareggiato, solo stanco e rassegnato.

«Io mi sono fatta tre settimane per coprire un amico. Ho detto alla polizia che la droga che avevano trovato era mia».

«E questo che significa?».

«Significa che secondo me non sei stato tu a uccidere quelle due ragazze».

«Be’, ti ringrazio». Tobias si piegò in avanti e fece una smorfia. «Ma c’è stato un processo e gli indizi contro di me erano davvero schiaccianti».

«Lo so». Amelie alzò le spalle e diede un ultimo tiro alla sigaretta, poi buttò il mozzicone nel prato dall’altra parte del sentiero ghiaioso. Doveva assolutamente parlargli dei disegni! Ma come? Decise di prenderla larga.

«In quel periodo i Lauterbach vivevano già qui?».

«Sí» confermò lui, sorpreso. «Perché?».

«Ho visto un disegno. Anzi, diversi disegni. In tre compare anche il signor Lauterbach».

Tobias la guardò attentamente, ma senza capire.

«Credo che qualcuno abbia visto quello che è successo davvero» spiegò Amelie dopo un attimo di esitazione. «È stato Thies a darmi i disegni, ma…».

S’interruppe. Un’auto stava salendo il sentiero ad alta velocità. Era una Porsche Cayenne color argento. Si fermò proprio davanti alla panchina, facendo scricchiolare la ghiaia sotto i grandi pneumatici. Dall’abitacolo uscí una bella donna coi capelli biondi. Amelie scattò in piedi e si mise lo zaino in spalla.

«Aspetta!». Tobias allungò un braccio per fermarla e si alzò con una smorfia di dolore. «Di quali disegni stavi parlando? E che c’entra Thies? Nadja è la mia migliore amica, puoi raccontare tutto anche a lei».

«Meglio di no». Amelie lanciò un’occhiata dubbiosa alla donna. Era molto magra e aveva un’aria elegantissima con i jeans aderenti, il maglione a collo alto e il piumino beige senza maniche su cui era ben visibile il logo di un costoso stilista. I capelli biondi e lisci erano raccolti in una specie di chignon, sul viso dai tratti regolari era stampata un’espressione preoccupata.

«Ciao!». Si avvicinò e guardò con sospetto Amelie, poi concentrò tutta la sua attenzione su Tobias.

«Mio Dio, come ti hanno ridotto!». Gli toccò dolcemente una guancia, in un gesto di grande confidenza. Amelie sentí una fitta e provò subito una forte antipatia per Nadja.

«Ci vediamo» disse in fretta, e li lasciò soli.

 

Per la seconda volta in un giorno Pia si era seduta a un tavolo di cucina e aveva rifiutato gentilmente un caffè. Ora aveva appena dato la notizia della confessione e dell’arresto di Manfred Wagner a Hartmut Sartorius.

«Come sta la sua ex moglie?» chiese.

«Sempre uguale» rispose l’uomo. «I dottori non ci dicono niente di preciso, non vogliono sbilanciarsi».

Pia osservò il suo viso stanco ed emaciato. Il padre di Tobias non aveva sofferto meno dei Wagner, anzi! I genitori della vittima avevano ricevuto dimostrazioni di affetto e solidarietà, mentre quelli dell’assassino erano stati emarginati e puniti per una colpa non loro. Il silenzio era insopportabile. Pia non sapeva perché aveva deciso di far visita ai Sartorius. Cosa voleva?

«Spero che gli altri abbiano smesso di darvi fastidio» disse infine. Lui fece una breve e amara risata. Aprí un cassetto, tirò fuori un foglio spiegazzato e glielo consegnò.

«L’abbiamo trovato oggi nella cassetta delle lettere. Tobias l’ha buttato nel secchio della spazzatura, ma io l’ho recuperato».

Assassino, lesse Pia. Sparisci da qui o ci sarà un altro incidente.

«Una lettera minatoria. Anonima, vero?».

«Certo». Sartorius si strinse nelle spalle e si rimise seduto. «Ieri hanno aggredito e picchiato Tobias nel fienile». La voce ebbe un tremito; si sforzò di mantenere il controllo, ma all’improvviso gli occhi si riempirono di lacrime.

«Chi è stato?».

«Quelli del paese». Sartorius fece un gesto impotente con la mano. «Avevano la faccia coperta ed erano armati di mazze da baseball. Quando… quando l’ho trovato nel fienile… ho… per un attimo ho pensato che… fosse morto».

Si morse le labbra e abbassò lo sguardo.

«Perché non ha chiamato la polizia?».

«Non sarebbe servito a niente. Non la smetteranno mai». L’uomo scrollò il capo con un misto di angoscia e rassegnazione. «Tobias si sta dando da fare per rimettere in sesto la proprietà. Spera di trovare un compratore».

«Signor Sartorius». Pia aveva ancora in mano la lettera minatoria. «Ho letto tutte le carte relative al caso di suo figlio e ho notato alcune incongruenze. Se devo essere sincera, mi stupisce che l’avvocato di Tobias non abbia presentato ricorso».

«Veramente l’ha fatto, ma il ricorso è stato respinto. Gli indizi, le testimonianze oculari… Era tutto chiarissimo». Sartorius si passò una mano sul viso. Era il ritratto dello sconforto.

«Ma ora è diverso, abbiamo trovato i resti di Laura» insistette Pia. «Mi domando come abbia fatto suo figlio a mettere il cadavere nel bagagliaio, a portarlo nella zona recintata dell’ex aeroporto militare di Eschborn e a buttarlo in un vecchio serbatoio interrato in appena tre quarti d’ora».

Hartmut Sartorius alzò la testa e la fissò. Negli occhi azzurri offuscati dalle lacrime ardeva una minuscola fiammella di speranza, che però si spense subito.

«È inutile, non ci sono nuove prove. E poi, anche se ci fossero, per la gente del paese Tobias è un assassino e lo sarà per sempre».

«Forse suo figlio farebbe bene a lasciare Altenhain per un po’. Potrebbe tornare dopo il funerale della ragazza, quando gli animi si saranno calmati».

«E dove dovrebbe andare? Non abbiamo soldi e non credo che Tobias troverà presto un lavoro. Non importa se ha in tasca una laurea. Chi assumerebbe un ex carcerato?».

«Potrebbe trasferirsi temporaneamente nell’appartamento della madre» suggerí Pia, ma lui scosse la testa.

«Ormai Tobias ha trent’anni. Lei è molto gentile, ma non posso obbligarlo a fare niente».

 

«Ho avuto un déjà vu quando vi ho visti qui sulla panchina» disse Nadja, scrollando il capo. Tobias si era riseduto e si tastava il naso con cautela. Il ricordo della folle paura che aveva provato la sera precedente era come un nuvolone scuro che rovinava la bella giornata. Quando gli aggressori avevano smesso di menar colpi e se n’erano andati, aveva detto addio alla vita. Se uno di loro non fosse tornato indietro per sfilargli lo straccio dalla bocca, senza dubbio sarebbe soffocato. Forse era proprio quello che volevano. Era stato a un passo dalla morte, un pensiero che lo faceva rabbrividire. Le ferite che aveva riportato erano dolorose e brutte da vedere, ma non erano certo letali. Suo padre aveva chiamato la dottoressa Lauterbach nel cuore della notte e lei era arrivata subito per medicarlo. Aveva chiuso la ferita sul sopracciglio con la suturatrice meccanica e gli aveva lasciato degli antidolorifici. Tanti anni prima Tobias aveva coinvolto anche suo marito nel processo, ma sembrava che la dottoressa non gli portasse il minimo rancore.

«Non ti pare?». La voce di Nadja lo riscosse.

«Cosa?». Era cosí bella e cosí preoccupata. Ad Amburgo la stavano aspettando per le riprese, ma lei aveva deciso di mettere il lavoro al secondo posto. Quando l’aveva chiamata si stava già preparando a partire. Non c’erano dubbi, era una vera amica!

«Quella ragazzina somiglia moltissimo a Stefanie. È incredibile!» ripeté Nadja, prendendogli la mano e accarezzando delicatamente il rilievo alla base del pollice. Il suo tocco leggero, che in altre circostanze sarebbe stato piacevole, riuscí solo a irritare Tobias.

«Sí, Amelie è davvero incredibile» rispose distratto. «È coraggiosa, non ha paura di niente».

Ripensò al modo in cui aveva reagito all’aggressione nel cortile. Qualunque altra ragazza sarebbe scoppiata in lacrime e sarebbe corsa a casa o alla polizia. Lei no. Cosa voleva raccontargli? Cosa le aveva detto Thies?

«Ti piace?» chiese Nadja. Se non avesse avuto la testa altrove, forse le avrebbe dato una risposta piú diplomatica.

«Sí» ammise. «Mi piace. È cosí… diversa».

«Diversa da chi? Da me?».

Tobias alzò gli occhi e incontrò il suo sguardo costernato. Provò a sorridere, ma il risultato fu una smorfia.

«Diversa dalla gente di qui». Le strinse la mano. «Ha solo diciassette anni. Per me è come se fosse una sorella minore».

«Be’, stai attento. Con quegli occhi azzurri potresti far girare la testa alla tua sorellina». Nadja ritrasse la mano, accavallò le gambe e lo guardò di traverso. «Secondo me non ti rendi conto dell’effetto che hai sulle donne».

Le sue parole lo portarono indietro nel tempo. Come mai non si era accorto che nei commenti di Nadja sulle altre ragazze c’era sempre un pizzico di gelosia?

«Dai, piantala!». Fece un gesto irritato. «Amelie lavora al Cavallino Nero e ha la possibilità di sentire certe cose. Tra l’altro ha riconosciuto Manfred Wagner nella foto pubblicata sul giornale. È stato lui a spingere mia madre giú dal ponte».

«Cosa?».

«Hai capito bene. Crede anche di sapere chi mi ha aggredito ieri sera. Dice che Pietsch, Richter e Dombrowski sono andati a giocare a skat piú tardi del solito».

Nadja lo fissò incredula. «Stai scherzando?».

«Per niente. Ma c’è dell’altro. Amelie è convinta che quel giorno qualcuno abbia visto qualcosa che potrebbe scagionarmi completamente. Quando sei arrivata, mi stava parlando di Thies, di Lauterbach e di certi disegni…».

«Ma… ma… sarebbe fantastico!». Nadja si alzò di scatto e fece qualche passo in direzione dell’auto, poi si voltò furibonda. «Se qualcuno ha visto qualcosa, perché non ha detto niente?».

«Magari lo sapessi!». Tobias si appoggiò allo schienale della panchina e allungò piano le gambe. Con il corpo tutto rotto, ogni movimento gli procurava dolore, nonostante gli analgesici. «In ogni caso credo che Amelie abbia davvero scoperto qualcosa. Stefanie mi aveva parlato di una tresca con Lauterbach. Ti ricordi di lui, vero?».

«Certo». Nadja annuí con forza e lo guardò negli occhi.

«Pensavo che lo dicesse solo per darsi importanza, ma poi, durante la festa del paese, li ho visti insieme dietro il tendone. Per questo sono andato subito a casa. Ero…». S’interruppe e cercò le parole giuste per descrivere la confusione di sentimenti che aveva provato in quel momento. Stefanie e Lauterbach erano letteralmente appiccicati, tra i loro corpi non sarebbe passato neanche un foglio di carta. Lui le teneva una mano sul sedere. L’improvvisa consapevolezza che Stefanie se la faceva con altri uomini l’aveva risucchiato verso il basso come un mulinello.

«… furioso?» suggerí Nadja.

«No, non ero furioso. Mi sentivo… triste e ferito. Amavo Stefanie!».

«Immagina se questa storia uscisse fuori». Lei fece una risatina maligna. «Pensa ai titoli in prima pagina. Il ministro della Pubblica istruzione è un pedofilo!».

«Credi che avessero una vera e propria relazione?».

Nadja si fece di nuovo seria. I suoi occhi avevano un’espressione strana e indecifrabile. Rispose con un’alzata di spalle.

«La cosa non mi stupirebbe. Era pazzo di Biancaneve, le aveva addirittura assegnato la parte della protagonista! Eppure Stefanie non aveva nessun talento. Ma ogni volta che lui la vedeva cominciava a sbavare».

Stavano affrontando l’argomento che per tanti giorni avevano evitato con cura. Undici anni prima Tobias non era rimasto minimamente sorpreso che Stefanie avesse ottenuto la parte della protagonista nella recita natalizia del gruppo di teatro. Dal punto di vista fisico era la piú adatta a impersonare Biancaneve. Ricordava perfettamente la sera in cui se n’era accorto. Stefanie era appena entrata in macchina, indossava un vestitino bianco e aveva le labbra tinte di rosso. Il vento le agitava i capelli scuri. Bianca come la neve, rossa come il sangue, nera come l’ebano. L’aveva detto lei e si era messa a ridere. Dov’erano andati quella sera? Mentre se lo chiedeva, ebbe una vera e propria folgorazione. All’improvviso le parole che gli frullavano nella testa da giorni tornarono in superficie. Vi ricordate quella volta che mia sorella ha rubato il mazzo di chiavi di mio padre e siamo andati a correre nell’hangar del vecchio aeroporto? Cosí aveva detto Jörg giovedí, quando si erano incontrati nel garage. Certo che ricordava il furto delle chiavi! Quella sera stavano andando proprio al vecchio aeroporto. Stefanie l’aveva convinto a partire in fretta per non avere altre persone in macchina. Il padre di Jörg, Lutz Richter, era stato un dipendente dell’ufficio poste e telecomunicazioni e negli anni Settanta e Ottanta aveva lavorato nell’ex aeroporto militare! Ogni tanto i bambini – Jörg, Tobias e gli altri – potevano accompagnarlo e giocare in quel luogo diverso dal solito mentre lui svolgeva il suo lavoro. In seguito, una volta cresciuti, avevano cominciato a organizzare feste e corse clandestine. Ora nello stesso posto avevano trovato i resti di Laura. Possibile che si trattasse di una coincidenza?

 

Come se fosse sbucato dal nulla, se lo trovò davanti quando si voltò per lanciare un’ultima occhiata a Tobias e alla strafica bionda col macchinone di lusso.

«Accidenti, Thies!» esclamò spaventata e di nascosto si asciugò le lacrime. «Devi proprio farmi morire di paura?».

A volte non riusciva a spiegarsi come facesse ad apparire e scomparire senza il minimo rumore. D’un tratto si accorse che non stava bene. Sembrava febbricitante, gli occhi erano infossati e lucidi. Tremava dalla testa ai piedi e teneva le braccia intorno al busto. Per un istante pensò che si comportava davvero come un pazzo. Poi se ne vergognò.

«Che c’è? Stai male?».

Thies non reagí, ma si guardò intorno nervosamente. Respirava in modo affannoso, come se avesse corso. Di colpo staccò le braccia dal petto e le prese la mano. Amelie rimase sbalordita. Non aveva mai fatto niente del genere. Odiava qualunque tipo di contatto fisico.

«Non sono riuscito a proteggere Biancaneve» disse con voce tesa e roca. «Ma con te starò piú attento».

Il suo sguardo vagava inquieto, correva continuamente verso l’alto, verso il margine del bosco, come se da quella direzione dovesse arrivare qualche pericolo. Amelie sentí un brivido lungo la schiena. Improvvisamente i pezzi del puzzle si incastrarono tra loro.

«Hai visto cos’è successo, vero?» gli chiese in un sussurro. Thies si girò di scatto e la trascinò via, continuando a stringerle la mano. Amelie lo seguí incespicando tra buche fangose e fitte sterpaglie. Raggiunto il bosco di protezione, lui rallentò leggermente il passo, ma la ragazza, che fumava troppo e faceva poco sport, faticava comunque a stargli dietro. La sua stretta era d’acciaio; a un certo punto Amelie inciampò e cadde, ma Thies la rimise subito in piedi. Stavano ancora salendo. I rami secchi scricchiolavano sotto i loro piedi, le gazze lanciavano versi striduli dalla cima degli abeti. Di colpo Thies si fermò. Amelie si guardò intorno ansimando e tra gli alberi vide le tegole rosse di villa Terlinden, un po’ piú in basso. Il sudore le colava lungo il viso. Tossí. Perché Thies aveva fatto il giro della proprietà? Attraversare il giardino sarebbe stato molto meno faticoso. Le lasciò la mano e si avvicinò a un cancelletto arrugginito, che dopo un’iniziale resistenza si aprí cigolando. Amelie seguí l’amico dall’altra parte e si accorse che erano proprio dietro il giardino d’inverno. Thies cercò di afferrarle di nuovo la mano, ma lei la ritrasse.

«Perché corri in giro come un pazzo?» domandò, tentando di scacciare l’improvviso disagio. Era chiaro che Thies aveva qualcosa che non andava. La tranquillità quasi letargica che lo caratterizzava di solito era completamente svanita. Non evitava piú il contatto visivo, la guardava in faccia senza batter ciglio. I suoi occhi avevano un’espressione che la spaventò.

«Se prometti di non parlarne con nessuno, ti mostro un segreto» sussurrò. «Vieni!».

Aprí la porta del giardino d’inverno con la chiave nascosta sotto lo zerbino. Amelie considerò l’idea di scappare. Poi si ricordò che Thies era un amico e che si fidava di lei. Decise di ricambiare la sua fiducia ed entrò nel locale che conosceva bene. Lui richiuse accuratamente la porta dall’interno e si diede un’occhiata intorno.

«Si può sapere cos’hai? È successo qualcosa?».

Thies non rispose. Raggiunse il fondo della sala, spostò di lato una grande palma e alzò la tavola su cui prima era appoggiato il vaso. Amelie si avvicinò incuriosita e con grande sorpresa vide che nel pavimento c’era una botola. Thies la aprí e si voltò verso di lei. «Entra» disse.

Amelie si trovò su una ripida scaletta di ferro arrugginito che scendeva nell’oscurità. Thies chiuse la botola; un secondo dopo accese una debole lampadina. Le strisciò accanto e aprí una massiccia porta di ferro. Un soffio d’aria calda e secca investí entrambi. Entrando nella grande cantina, Amelie rimase senza parole. Moquette chiara. Pareti di un bel colore arancione. Da una parte uno scaffale pieno di libri, dall’altra un comodo divano. Una specie di paravento separava un angolo della stanza dal resto. Aveva il cuore che le batteva in gola. Thies non si era mai comportato come se da lei volesse qualcosa, e anche per questo non credeva che le sarebbe saltato addosso per violentarla. Comunque, in caso di necessità, ci avrebbe messo un attimo a risalire i gradini e a uscire fuori in giardino.

«Vieni». Thies spostò il paravento, mostrandole un letto vecchio stile con un’alta testiera in legno. Alla parete erano appese delle fotografie, perfettamente allineate come piaceva a lui.

«Su, vieni. Biancaneve ti conosce già, le ho parlato tanto di te».

Amelie si avvicinò e rimase a bocca aperta. Inorridita e affascinata, guardò la mummia stesa sul letto.

 

«Che c’è?». Nadja si accovacciò e gli mise delicatamente le mani sulle cosce, ma Tobias la respinse e si alzò spazientito. Percorse zoppicando un paio di metri, poi si fermò. Aveva un sospetto terribile!

«I resti di Laura sono stati trovati in un serbatoio interrato all’interno del vecchio aeroporto militare di Eschborn» disse con voce velata. «Ricordi che una volta ci andavamo spesso a festeggiare, vero? Il padre di Jörg aveva le chiavi per entrare».

«Dove vuoi arrivare?». Nadja lo raggiunse e lo guardò con aria confusa.

«Non sono stato io a buttare Laura in quel serbatoio!» esclamò lui e serrò i denti con tanta forza da farli stridere. «Merda, merda, merda!». Strinse i pugni. «Voglio sapere cos’è successo! I miei genitori hanno perso tutto, io ho passato dieci anni in prigione e ora mia madre è in ospedale perché il padre di Laura l’ha spinta giú da un ponte! Non ce la faccio piú!». Nadja ascoltò in silenzio il suo sfogo.

«Ti prego, Tobi, vieni via con me».

«No!» rispose seccamente Tobias. «Non lo capisci? Quei bastardi non aspettano altro!».

«Ieri si sono accontentati di picchiarti a sangue, ma cosa succederebbe se decidessero di fare sul serio?».

«Vuoi dire che potrebbero uccidermi?». Tobias scrutò il suo viso. Il labbro inferiore tremava leggermente, i grandi occhi verdi erano inondati di lacrime. Nadja non meritava un trattamento del genere. Era l’unica su cui aveva sempre potuto contare. Se non glielo avesse impedito, gli avrebbe addirittura fatto visita in prigione. Di colpo la rabbia svaní, cedendo il posto al senso di colpa.

«Scusa» mormorò, allungando le braccia verso di lei. «Non volevo alzare la voce con te. Vieni qui».

Nadja si avvicinò, gli appoggiò il viso sul petto e si lasciò abbracciare forte.

«Probabilmente hai ragione» le sussurrò tra i capelli. «Non si può tornare indietro».

Lei alzò la testa e lo fissò. Sembrava molto preoccupata. «Ho paura per te, Tobi». La voce s’incrinò. «Ci siamo appena ritrovati. Non voglio perderti un’altra volta!».

Tobias fece una smorfia, poi chiuse gli occhi e appoggiò la propria guancia a quella di Nadja. Se solo avesse avuto la certezza che con lei sarebbe andato tutto bene! Non voleva ricevere un’altra delusione. Piuttosto preferiva rimanere solo fino alla fine.

 

Manfred Wagner era seduto in condizioni pietose nella stanza degli interrogatori. Quando Pia e Bodenstein entrarono, alzò faticosamente il capo per guardarli. Aveva gli occhi cerchiati e acquosi, da alcolizzato.

«Ha commesso diversi reati gravi» disse Bodenstein in tono serio, dopo aver acceso il registratore e aver fornito tutte le informazioni necessarie per il verbale. «Lesioni personali, interferenza pericolosa nella circolazione stradale e omicidio colposo. O addirittura preterintenzionale, se il procuratore deciderà cosí».

Wagner si fece ancora piú pallido. Posò lo sguardo su Pia, poi di nuovo su Bodenstein, e deglutí.

«Ma… ma… Rita è ancora viva» farfugliò.

«È vero» confermò il commissario. «Ma l’uomo che guidava l’auto su cui è caduta ha avuto un infarto ed è morto praticamente sul colpo. Non parliamo poi dei danni alle auto coinvolte nell’incidente. Quello che ha fatto avrà gravi conseguenze. Avrebbe dovuto costituirsi».

«Volevo farlo» replicò Wagner con voce piagnucolosa. «Ma… me l’hanno sconsigliato».

«Chi?» domandò Pia. Non provava nessuna pietà per quell’uomo. Sí, aveva subito una grave perdita, ma questo non giustificava l’aggressione alla madre di Tobias.

L’uomo alzò le spalle, evitando di guardarla.

«Tutti» rispose, vago come Hartmut Sartorius poche ore prima, quando Pia gli aveva chiesto chi poteva nascondersi dietro la lettera minatoria e il pestaggio di suo figlio.

«Ah! Fa sempre quello che dicono gli altri?». Non voleva essere cosí brusca, ma la domanda ebbe un certo effetto.

«Lei non può capire!» si difese Wagner. «La mia Laura era speciale. Sarebbe sicuramente diventata qualcuno. E poi era cosí bella. A volte non riuscivo a credere che fosse davvero mia figlia. Ora è morta. Quel mostro l’ha buttata via come un sacco d’immondizia. Eravamo una famiglia felice. Ci eravamo appena sistemati nella nuova zona industriale, il lavoro andava a gonfie vele. In paese si stava bene, eravamo tutti amici. Poi… Laura e quell’altra ragazza sono scomparse. Tobias ha ammazzato tutte e due. Maledetto bastardo! L’ho supplicato di dirmi perché l’aveva uccisa e cosa ne aveva fatto del cadavere, ma lui si è sempre rifiutato di rispondere».

S’incurvò e prese a singhiozzare. Bodenstein voleva spegnere il registratore, ma Pia lo fermò. Perché Wagner piangeva? Per il dolore di aver perso una figlia o per pura autocommiserazione?

«Basta con questa sceneggiata!».

L’uomo sollevò la testa e la fissò allibito, come se gli avesse tirato un calcio nel sedere. «Ho perso mia figlia» disse con voce tremula.

«Lo so» tagliò corto Pia. «E per questo ha tutta la mia comprensione. Ma le rimangono due figli e una moglie. La sua famiglia ha bisogno di lei. Possibile che non ci abbia pensato prima di aggredire Rita Cramer?».

Wagner rimase in silenzio per qualche secondo, poi fece una smorfia.

«Non può neanche immaginare cos’ho dovuto sopportare negli ultimi undici anni!» gridò furioso.

«Forse, ma so cos’ha dovuto sopportare sua moglie» replicò freddamente Pia. «Non solo ha perso una figlia, ha perso anche il marito, che preferisce piangersi addosso e ubriacarsi tutte le sere! Sua moglie lotta da sola per rimanere a galla. Lei cosa fa?».

Gli occhi di Wagner fiammeggiavano per la rabbia. Era chiaro che l’aveva punto sul vivo.

«Che gliene importa? Mi lasci in pace!».

«Chi le ha consigliato di non costituirsi?».

«I miei amici».

«Gli stessi amici che stanno a guardare mentre lei si rovina la vita sera dopo sera riempiendosi di alcol al Cavallino Nero?».

Wagner aprí la bocca per ribattere, ma non disse niente. Il suo sguardo pieno di ostilità si posò insicuro su Bodenstein.

«Credo di aver sopportato abbastanza». La voce tremò. «Senza avvocato non dirò piú una parola».

Incrociò le braccia e appoggiò il mento sul petto come un bambino cocciuto. Pia guardò il capo e inarcò le sopracciglia. Bodenstein premette il tasto stop del registratore.

«Può andare a casa».

«Ma… non sono in… in arresto?» gracchiò Wagner, sorpreso.

«No». Bodenstein si alzò. «Sappiamo dove trovarla. Il procuratore presenterà delle accuse contro di lei. Avrà comunque bisogno di un avvocato».

Aprí la porta e Wagner uscí barcollando, accompagnato dall’agente che aveva assistito all’interrogatorio. Il commissario capo lo seguí con lo sguardo.

«È cosí malridotto che fa quasi pena» disse Pia al suo fianco. «Ma solo quasi».

«Perché sei stata cosí dura con lui?» domandò Bodenstein.

«Perché ho la sensazione che dietro questa storia ci sia molto di piú» rispose lei. «In quel paesino c’è qualcosa che non va. Ed è cominciato tutto allora. Ne sono sicura».