VII
COLONIA AGRIPPINA
Giugno del 356 d.C.
Una leggera brezza fece oscillare le cime degli alberi, dando un breve sollievo agli uomini in colonna sotto il sole, chiusi nelle pesanti armature. Erano sporchi, stanchi e pieni di euforia. Il Cesare era in sella al cavallo nero catturato il giorno dello scontro e Dagalaifo montava lo stallone del principe, che glielo aveva donato per come si era distinto nel combattimento.
Il resto del bottino era stato diviso tra tutti i soldati che avevano partecipato alla battaglia.
«Mi hai salvato la vita, lurido franco.»
Victor ghignò. «Sì, Filopatròs, almeno due volte. Tre, se contiamo quando non ti ho ammazzato a Vienne.»
«Non barare, con quella siamo pari, perché poi ti ho salvato il culo con il Cesare.»
Draco fece una smorfia e allentò il sottogola, poi si rivolse a Dagalaifo più avanti. «Che ne è della nostra guida? Si è persa?» Alludeva a Nevitta che guidava la colonna.
«Non si è perso, è in Gallia.»
Gli uomini scoppiarono in una risata. Poco dopo, le mura di Tricasae si delinearono in lontananza, ancora un po’ confuse ed evanescenti.
«Quanto vuoi per quella bestia, Dagalaifo?»
Dal suo splendido stallone bianco, il franco squadrò ironicamente Filopatròs. «Non solo non è in vendita, ma ho intenzione di prendermi anche il cavallo di Nevitta.»
Gli uomini risero di nuovo, tranne Nevitta che questa volta aveva sentito e mandò loro un’occhiata minacciosa.
«Scherzavo» disse Dagalaifo, allegro. «E tu, graeculo, attento a non cadere più da cavallo la prossima volta, perché potrei decidere di lasciarti a terra e prendermi anche il tuo. Di’ un po’, come lo hai avuto?»
«Direttamente dal suo padrone, in Persia. A lui non serviva più, che riposi in pace.»
Di nuovo una risata.
«Dicono che i cadaveri dei Persiani non marciscono, è vero?»
Filopatròs annuì. «Vero. Si seccano come il legno del leccio. Sarà per quello che mangiano.»
«Che bastardi. Tu però ci somigli a un persiano, Corax.»
«Può darsi» disse Filopatròs, irritato «ma non lo sono.»
«Non ho detto che lo sei, graeculo» ghignò Dagalaifo «ho detto che ci somigli. Sei secco come un giunco, e forse per questo non riesci a tirare fuori una lancia dalle budella di un alemanno.»
L’imprecazione di Filopatròs suscitò altre risate.
Giuliano si rivolse a Sallustio, che cavalcava vicino a lui. «È una questione che dobbiamo risolvere» disse il principe, che cercava di essere sempre al corrente dei problemi della truppa.
«È vero» rispose il vecchio stratega. «Le lance vanno bene in mano ai catafratti, ma entrano troppo in profondità e c’è il rischio di non poterle più usare.»
Il Cesare diede un’occhiata a Filopatròs. «Il nostro Corax si è battuto con impeto, ma nella mischia aveva l’arma sbagliata.»
Sallustio annuì. «Meglio lasciare le lance solo ai catafratti per le cariche, e poi disimpegnarci per caricare di nuovo dopo aver riordinato i ranghi. E bisogna pensare a una soluzione per non far penetrare troppo le punte.»
«Aumentare lo spessore della punta o mettere un fermo» intervenne Nevitta «appesantirebbe le aste, che già gravano sull’equilibrio e l’assetto del cavaliere.»
Victor alzò lo sguardo alla coda del drago, che ondeggiava pigra nell’aria calda. «Una bandiera» disse poi.
Gli altri lo guardarono. «Potremmo mettere un drappo alla fine del codolo in ferro. Forse frenerebbe la lancia.»
Giuliano annuì. «E usando drappi di colori diversi, potremmo riconoscere i vari squadroni. Cosa ne dici, Flavio?»
Nevitta assentì poco convinto, più che altro perché l’idea non era venuta a lui.
«E quel pezzo di stoffa risolverebbe anche il problema del sangue» aggiunse Sallustio. «Quando i cavalieri si rimettono in linea dopo una carica tengono le lance in resta, con la punta in alto, per non ferirsi tra loro. Se nello scontro hanno colpito un nemico, il sangue cola lungo l’asta fino alla mano, e la presa si fa scivolosa.»
«È vero, è la causa principale per cui si perde la lancia» confermò Nevitta. «Bravo, Draco, ogni tanto ne dici una giusta!» Dagalaifo rifilò a Victor una gran pacca sulla spalla. «Bella corazza, ti deve essere costata un occhio.»
Victor lo guardò di traverso. «Non mi è costata un soldo. Non l’ho più riconsegnata dal giorno dell’investitura del Cesare. E ho fatto lo stesso con il drago.»
«Ecco dove sono finito,» disse Giuliano «in mezzo a un branco di Germani ladri e assassini, di Italici cristiani e pelandroni e di Galli riottosi e attaccabrighe, con in più un tagliagole greco ariano che ha una faccia da spia.»
Victor non batté ciglio e rise con tutti gli altri.
«Credevo che avrei trovato poco apprezzabile questa compagnia di soldatacci, quando sono partito da Mediolanum, e invece mi trovo a mio agio.»
Nevitta alzò una mano.
«Che succede, Flavio?»
«Comincio a pensare che vi sia qualcosa che non va. Come mai non è ancora arrivata una delegazione della città a renderti omaggio, Cesare?»
Le mura della città non erano più così lontane. Nei campi, intorno a loro, non si vedeva nessuno. Sembrava una terra disabitata, ferma in una quiete innaturale e immobile. Avanzavano al passo, guardinghi, con le armi saldamente in pugno. Filopatròs chiuse la protezione ad anelli davanti all’elmo e sguainò la spada. Victor alzò il dragone e Nevitta sciolse la colonna e dispose i cavalieri corazzati su due linee, con il fronte verso la città. Aguzzò la vista e imprecò. «Se non m’inganno, sono sulle mura pronti a difendersi, Cesare.»
«Credi che intendano combattere?»
«Vorrei proprio saperlo.»
Giuliano si guardò intorno, inquieto. Nessuno in vista. C’era qualche banda di Germani in agguato? Avevano forse conquistato la città?
Gli uomini proseguirono con cautela, al passo, fino a quando Nevitta non alzò di nuovo la mano.
«Oltre quel fosso saremo a tiro delle macchine, nobilissimo.»
Lo schieramento si arrestò. I cavalieri si allinearono, guardando verso le mura, dov’erano ben visibili gli uomini schierati.
«È chiaro» disse Giuliano «che ci hanno scambiati per Germani, oppure i Germani sono loro.»
«Vado a chiederglielo» disse deciso Dagalaifo.
«Tu? Con quella faccia e quell’accento?»
«Andiamo noi, allora» intervenne Victor «io e Filopatròs, con il dragone.»
«L’idea dello stendardo per farci riconoscere è buona, ma se sono Germani rischio di perdere il mio draconarius. Può essere una trappola. Affida lo stendardo a uno dei Galli.»
«No, Cesare!» Victor pensò alla sacerdotessa di Vienne. «Io sono il draconarius.»
Giuliano fissò Victor negli occhi. «Questo non ti dà il diritto di contraddirmi. Non farlo mai più!» Si rivolse a Nevitta, secco. «Prepara i balestrieri. Tre uomini andranno a parlamentare.» Fece una pausa. «Corax, Draco e io stesso.»
«Ma nobilissimo, non puoi…»
«Silenzio!» Il tono del Cesare era di quelli definitivi. «Io comando e quindi decido chi va e chi resta.»
La tensione a stento controllata eruppe. Alcuni dei soldati mormorarono tra loro, e vari ufficiali gridarono che sarebbero morti, piuttosto che lasciare solo il Cesare davanti al nemico sulle mura.
«Perdonami, nobilissimo» disse Sallustio, pacato. «Basterà che qualcuno sugli spalti alzi una lancia, magari per sbaglio, perché i nostri partano all’attacco. Sai quanto ti siano ormai devoti.»
Giuliano guardò verso le mura.
«Non si aspettavano il nostro arrivo, può darsi quindi che ci abbiano scambiati per nemici. Sarebbe tragico, uno scontro tra fratelli.»
I soldati cominciarono a urlare il nome del Cesare battendo le lance contro le corazze e Giuliano li guardò.
«Non ti lasceranno andare solo.»
Gli occhi del giovane brillarono, mentre il suo nome saliva alto nel cielo. Rinfoderò la spada, poi guardò Victor e annuì. «E sia. Ma fai attenzione a ogni minima mossa, a ogni segnale.»
«Lo farò, nobilissimo.»
«Fai schierare i balestrieri, Nevitta.»
Gli uomini esultarono, poi il principe chiese il silenzio con un gesto. Per qualche istante si udì l’ininterrotto ronzio degli insetti nell’erba.
«Sappi che apprezzo il tuo coraggio, Draco.»
«E io la tua saggezza, mio Cesare.»
Giuliano sorrise. «Quando siete pronti, andate.»
Victor e Filopatròs si mossero al passo verso le mura, senza voltarsi. Davanti a loro, un tratto di terreno incolto lungo oltre trecento passi, completamente allo scoperto.
«Ci ammazzeranno, franco?»
«Conviene credere di sì, così non ci pensiamo più.»
Il greco sputò a terra. «Speriamo che mirino prima a quello con il drago.»
«Non lo faranno.»
«Davvero? E perché?»
«Ti ricordi la sacerdotessa di Vienne?»
«La strega? Sicuro.»
«Mi disse che finché avessi tenuto alto il drago, non mi sarebbe accaduto niente. E come vedi, lo tengo alto.»
“E poi è destino che io debba morire in Frigia” pensò Victor.
Filopatròs guardò Victor. «E perché hai suggerito me allora? Perché non Dagalaifo, magari?»
«Dagalaifo si sarebbe messo a insultarli sotto le mura, e ci avrebbe fatto uccidere entrambi. Tu hai più sangue freddo, non perderai la calma.» Il franco sorrise. «E poi, se non sbaglio, tu credi nella risurrezione, no? Se muori, vai a star meglio.»
«Allora lasciami pregare per quei pochi momenti che ci restano, fottuto barbaro.»
Giunti in prossimità delle mura squadrate, i due si fermarono, scrutando la lunga fila di difensori pronti a scagliare su di loro una pioggia di giavellotti, frecce incoccate e verrettoni.
«Porto il simbolo del nobilissimo Cesare delle Gallie Claudio Flavio Giuliano» gridò Victor a voce spiegata, in latino «cugino dell’augusto imperatore Flavio Giulio Costanzo. Il Cesare intende conferire con il comandante della guarnigione.»
Per qualche attimo si udì soltanto un mormorio. A rispondere fu una voce tonante in un incerto latino. «Chi ci assicura che non siete Alemanni?»
Victor ebbe un attimo di incertezza, poi sventolò il dragone imperiale. «Ho il drago imperiale.»
«E allora? Di quelli ne abbiamo anche noi.»
«Ma questo è quello vero!»
L’uomo che parlava tradusse agli altri e in parecchi scoppiarono a ridere.
«Filopatròs, vai a chiamare uno di quei Galli, magari tra di loro si capiscono.»
L’esercito delle Gallie entrò a Tricasae sei ore dopo, spossato da un’estenuante trattativa sotto il sole di giugno. Gli abitanti si inchinarono davanti al Cesare d’Occidente, che per errore avevano scambiato per Cnodomario, re degli Alemanni. Giuliano fece il suo ingresso trionfale, cercando di dissimulare la stanchezza. A Nevitta che consigliava una punizione esemplare per qualche funzionario, disse che si sentiva clemente.
Tre giorni dopo, cresciuti di numero grazie ai tanti volontari accorsi a servire il principe, gli uomini ripresero la strada per Remi, dove si stavano radunando le legioni per la grande offensiva d’estate agli ordini del generale Marcello.
La distesa multicolore sormontata da pinnacoli di fumo che avevano visto da lontano non era in realtà la città di Remi, ma i campi militari dislocati intorno ad essa. Né Giuliano né i suoi avevano mai visto un simile spiegamento di forze. Era uno spettacolo da mozzare il poco fiato loro rimasto.
«Contegno, soldati!» ordinò burbero Nevitta. «Mettete gli elmi e lancia in resta. Draco, intona la canzone.»
Dopo un altro centinaio di passi Giuliano diede l’ordine di fermarsi alzando la mano destra, e la colonna si arrestò. Quando la polvere intorno alla schiera di uomini e animali si dissipò nell’aria afosa rimasero il silenzio e il sudore ad avvolgere l’esercito delle Gallie. Nevitta, Draco, Filopatròs e poi Dagalaifo, tutti guardavano il Cesare, in attesa. Gli uomini cuocevano nelle armature roventi, al sole del primo pomeriggio.
I cavalieri, con il vessillo degli scutari al vento e il cristogramma sugli scudi, che Giuliano aveva visto arrivare si fermarono a poca distanza dalla colonna.
Un ufficiale dagli occhi scuri con un elmo di foggia orientale balzò giù da cavallo e si prostrò davanti al Cesare, per rendergli omaggio.
«Nobilissimo Flavio Claudio Giuliano, Cesare d’Occidente, sono qui per porgerti il più caloroso benvenuto e per scortarti dal generale Marcello, che ti attende nell’alloggio imperiale a te destinato.»
Il Cesare non rispose. Dopo qualche attimo d’imbarazzo, l’ufficiale alzò lo sguardo spiazzato dall’immobilità di Giuliano.
«Come ti chiami?»
«Sono Flavio Vittore, nobilissimo, comandante della guardia del generale Marcello.»
«Bene, Flavio Vittore, vola dal tuo comandante e digli di venire di persona a presentarmi gli omaggi che spettano a un Cesare.»
L’attesa si prolungò, facendo pagare direttamente agli uomini la violazione del protocollo di corte. Ci vollero ore chiusi dentro le corazze prima che il generale Marcello si degnasse di presentarsi, seguito dalla propria scorta. Montava un cavallo grigio e sopra la tunica indossava un corpetto di cuoio, senza corazza. A capo scoperto, il cranio lucido era madido di sudore.
Il generale tirò bruscamente le redini appena prima di finire addosso a Giuliano. Sul volto incorniciato da una barba rada si leggeva l’insofferenza per dover sottostare a quell’ossequio rituale. Il suo sguardo si posò su Giuliano. «I miei omaggi al nobilissimo Cesare d’Occidente Flavio Claudio Giuliano.» Dal tono era assente ogni traccia di calore.
«I tuoi omaggi mi sono già pervenuti per bocca del tuo ufficiale, Flavio Vittore. Ora vorrei le tue scuse, Marcello.»
Il generale fece caracollare il suo ombroso destriero e rivolse uno sguardo astioso al Cesare. «Stavo tenendo un importante consiglio di guerra, nobilissimo. È solo per questo che non ti sono venuto incontro.»
Il principe lo fissò, immobile come una statua di bronzo. «La consuetudine vuole che sia il più alto in grado a rendere omaggio. Mi aspetto delle scuse per questa inosservanza.»
Un breve attimo di silenzio, carico di tensione. «Perdona questa mia inadempienza, Cesare. Come ben sai, gli Alemanni sono vicini e ci sono decisioni da prendere.»
«Sono qui per questo, Marcello. Come vedi ho portato rinforzi, cui si aggiungeranno fra un paio di giorni gli uomini guidati da Arinteo, che hanno preso una strada più lunga, ma più sicura. Si possono prendere decisioni più ponderate, con qualche migliaio di lance in più.»
Il generale sembrava spiazzato. «Sarai stanco, Cesare. Lascia che mi occupi io di…»
«Non sono affatto stanco e desidero partecipare al consiglio.»
Il principe raggiunse il palazzo di Remi e volutamente risalì la scalinata a cavallo, seguito dai suoi protectores e dagli ufficiali germani. Le guardie accorsero con le lance in pugno, ma alla vista del drago imperiale e del mantello di porpora si inginocchiarono subito, con gran clangore di armature.
Il Cesare e il suo seguito smontarono nell’atrio del palazzo, a pochi passi dalla porta della sala consigliare. Senza indugi, il Cesare entrò, scortato da Victor, Filopatròs, Sallustio, Nevitta e Dagalaifo. Dietro di loro, furibondo per l’umiliazione, veniva Marcello.
Colti di sorpresa dall’ingresso di Giuliano, gli ufficiali accennarono un imbarazzato saluto.
Il Cesare si sfilò l’elmo e lo depose sull’ampio tavolo delle mappe. Notò come lo guardavano. Si aspettavano un filosofo effeminato ed ecco invece un uomo alto dalle spalle robuste, con il collo taurino e la testa massiccia dei Costantinidi. Capelli lunghi e barba folta, sudore e polvere incrostati sul viso. E lo sguardo di un Cesare, che li passò in rassegna severo e implacabile.
Giuliano prese posto nella sedia riservata a Marcello. «Si dia inizio al consiglio.»
Marcello prese la parola, cercando di non mostrare il suo disappunto. Poi i generali aprirono le mappe e fecero rapporto, indicando le posizioni delle unità romane e di quelle nemiche e illustrando la situazione degli approvvigionamenti e delle salmerie, per proseguire con la capacità di resistenza a un eventuale attacco.
«Quando è prevista l’offensiva?»
La domanda di Giuliano pose fine al resoconto.
I generali si guardarono, poi rivolsero un muto appello al loro comandante.
«Non siamo ancora pronti per un’offensiva su larga scala» rispose brusco Marcello. «Il consiglio è del parere di rafforzare le nostre posizioni a ridosso del Reno, per contenere una probabile avanzata dei Germani. Forse tra qualche mese si potrà…»
Giuliano fu in piedi di scatto, afferrò l’elmo e lo scagliò via. «A questo serve il consiglio? Ore di chiacchiere per dirmi che siete del parere di non fare nulla?» Il principe pestò i pugni sul tavolo. «La minaccia cresce ogni giorno, ma voi avete già stabilito che non ci muoveremo. Perché aspettate il momento in cui non ci saranno più pericoli. Bene, sappiate che quel momento non arriverà mai.»
Per qualche istante, si udì solo il respiro dei presenti, e il lieve suono metallico dell’elmo che oscillava sul pavimento.
«Ti assicuro che la situazione è sotto controllo, Cesare.»
«A me non sembra, Marcello. Ho visto campi incolti e villaggi saccheggiati. Ho visto un popolo guerriero ridotto a vivere nella paura. Basta dire “arrivano i Germani” per mettere in fuga la gente. Vengo da Vienne, una città fortificata come se sorgesse sul confine. Eppure, si trova in territorio romano… L’amministrazione è allo sbando, e i pubblici ufficiali sono a chiedersi come mai non arrivino soldi nelle casse dell’erario, senza rendersi conto che mungono vacche ormai alla fame. I mercanti non hanno nulla da vendere e i contadini producono appena quanto basta per sfamare le loro famiglie. Corruzione e violenza sono all’ordine del giorno, e cosa fanno i governatori? Aumentano le tasse.» Passò in rassegna gli ufficiali, che non osavano replicare. «E voi, che dovreste difendere queste terre, cosa fate, oltre a portare splendide corazze? Avete addosso così tanto oro che ci potremmo comprare gli Alemanni e i Frisi dal primo all’ultimo, e arruolarli come mercenari.»
«I miei comandanti si sono conquistati il loro grado sul campo, nobilissimo.»
«Bene, generale, perché ho bisogno di uomini pronti a tornarci, sul campo, pronti a mettersi alla testa dei legionari, a battersi e a morire. Di cortigiani con le spade adorne di pietre preziose non so che farmene!»
Marcello appariva profondamente indignato. «Cesare, abbiamo ereditato questa situazione dai comandanti precedenti, degli inetti che non valevano nulla.»
«E tu intendi seguire il loro esempio?»
«Ti ripeto che la situazione è sotto controllo.» Il generale puntò il dito sulla mappa. «L’avanzata dei Germani è contenuta.»
Giuliano afferrò la mappa con entrambe le mani e l’alzò per mostrarla a tutti. «Questa avanzata è ormai un’invasione! Tutta la riva sinistra del Reno – città, fortificazioni, torri, linee di comunicazione – è in mano ai nemici. L’ideale muraglia eretta ai tempi di Giulio Cesare a difesa del confine della nostra civiltà è stata spazzata via dall’orda barbarica. E insieme ad essa, è caduta anche la convinzione che la frontiera del Reno fosse invalicabile. Gli Alemanni non sono venuti qui solo per assalire qualche preda facile per poi fuggire, sperando di non essere inseguiti. I barbari hanno spostato un confine, e ora stanno mirando al cuore stesso della nostra forza.» Giuliano gettò la mappa sul tavolo. «Guardate quante città ci sono, al di là della linea che avete tracciato. I loro abitanti si chiedono perché li abbiamo abbandonati, e assistiamo impotenti e spaventati mentre gli Alemanni distruggono secoli di romanità. Ebbene, è il momento di rialzare la testa. Sono venuto da Augusta Taurinorum per liberare la Gallia e lo farò, a cominciare da Colonia Agrippina.»
«Capisco il tuo nobile intento, Cesare, ma il momento non è ancora propizio.»
«Il momento propizio arriva quando noi vogliamo che arrivi, generale Marcello. Mentre tu aspetti il momento propizio, i sudditi dell’impero tremano e muoiono, e si chiedono se l’impero esiste ancora.»
«Non voglio commettere imprudenze e far perdere altri territori al nostro amatissimo Augusto» replicò il generale. «La fretta è cattiva consigliera.»
«Affidami i tuoi uomini, allora, e lascia che sia io a commettere un’imprudenza. Dobbiamo fermarli, o presto si spingeranno fino a Lutezia. Perché Cnodomario dovrebbe fermarsi? Io non lo farei, se tutti scappassero al mio arrivo. Presto arriverà Arinteo, con gli uomini arruolati a Vienne. Sono male armati e hanno bisogno di addestramento.» Giuliano guardò ancora gli ufficiali di Marcello, e pose la mano sull’elsa della spada. «Però hanno voglia di usarle, le loro spade. E voi?»
Marcello tenne a freno la rabbia, poi si calmò e per la prima volta sostenne lo sguardo di Giuliano. Il rampollo della grande casata aveva smania di combattere. Non aveva nessuna esperienza militare e già si atteggiava a grande stratega. Marcello avrebbe perso molti uomini, e l’Augusto Costanzo un altro pezzo di Gallia. Ma il consiglio di guerra era testimone del sopruso, e dell’offesa al comandante militare della Gallia scelto dallo stesso imperatore. Se quel ragazzo arrogante voleva distruggersi con le sue mani, che facesse pure.
«Avrai gli uomini che chiedi. Spero che Dio vorrà perdonarmi.»
«Se fallirò, andrò di persona a intercedere per te. Sono certo che Dio sarà magnanimo.»
Nevitta e Sallustio si limitarono a un sorriso diplomatico. Dagalaifo scoppiò a ridere apertamente, mentre Victor si sforzava di non imitarlo.
Giuliano dichiarò sciolto il consiglio, e rimase nella sala insieme a Marcello e ai rispettivi seguiti.
«Corax, raggiungi Arinteo e digli di accamparsi. I protectores alloggeranno qui a palazzo, insieme a noi.»
Marcello sussultò. «Nobilissimo, a palazzo risiedo già io. Ho fatto predisporre una residenza migliore, per te e il tuo seguito.»
Il Cesare gli mandò un’occhiata ironica, poi si tolse il balteo e lo depose sul tavolo con la spada. «Ti sono grato, generale, e come ringraziamento la lascio volentieri a te, la “residenza migliore”.»
«Ma ci vorrà tempo per… per trasferire tutto, e…»
Giuliano allargò le braccia e Victor prese a slacciargli la corazza. «Hai ragione, forse è meglio che resti qui con me. Sarò lieto della tua presenza, e potremo lavorare fianco a fianco per studiare l’imminente offensiva.»
Marcello serrò le labbra, spiazzato.
«In altre parole, generale, se rivuoi il tuo bel palazzo tutto per te, sbrigati a darmi gli uomini che mi servono.»
Il generale masticò amaro. L’ira che lo scuoteva dentro traboccava dai suoi occhi. Abbozzò un rigido inchino e uscì con tutto il seguito, incrociando uno dei protectores del Cesare.
«Nobilissimo, è arrivato un corriere con un messaggio urgente.»
«Fallo entrare.»
Un cavaliere del servizio postale entrò in sala a grandi passi. Dopo gli omaggi di rito, porse un messaggio a Giuliano. «Da parte del prefetto delle Gallie, nobilissimo.»
Il principe aprì la lettera sigillata e la lesse impassibile, poi la richiuse e guardò i suoi.
«Devo aspettare un messaggio di risposta, nobilissimo?» chiese il cavaliere.
Giuliano scosse il capo e lo congedò, portato altrove dai suoi pensieri.
«Ci sono buone nuove, mio Cesare?» chiese Sallustio.
Il principe chiuse gli occhi e annuì. «Mia moglie Elena ha dato alla luce il mio primogenito. Un maschio.»
Nevitta e Dagalaifo si lasciarono sfuggire un urlo di esultanza. Ma Giuliano riaprì gli occhi, e in quello sguardo c’era solo tristezza.
«Il bambino è morto subito dopo il parto.»
Gelo. Dopo qualche momento, il vecchio Sallustio si fece coraggio. «E… la nobilissima Elena?»
«Elena sta bene. Ora vorrei restare solo per un po’, e voi tutti avete bisogno di riposo.»
Uno alla volta i suoi fedeli lo salutarono e uscirono. Victor si chinò a raccogliere l’elmo del principe e lo depose sulla mappa, dove fu colpito da un raggio di sole. Le gemme brillarono, ma Giuliano, seduto a un capo del tavolo, pareva perso altrove.
«Se hai bisogno di me sarò qui fuori, nobilissimo» disse il franco.
«Grazie, Draco. Vai pure.»
L’esercito di Giuliano lasciò Remi in una giornata afosa e grigia. Marcello gli aveva concesso tre legioni di veterani, ma il principe faceva affidamento soprattutto sui “suoi” Galli. Marcello avrebbe voluto mettere al comando delle tre legioni un suo uomo di fiducia, un arrogante ufficiale di nome Barbazione, con cui il principe si era subito scontrato. Al suo posto, il Cesare aveva chiesto Flavio Vittore, il sarmata che lo aveva accolto sulla via per Remi. Era un fervente cristiano, ma l’istinto di Giuliano gli diceva che era leale e trasparente. Sentiva che Vittore non lo avrebbe pugnalato alle spalle. Lo stesso non si poteva dire del resto dei comandanti rimasti a Remi, che non speravano altro che di vederlo tornare umiliato e sconfitto da quella campagna.
Il comando del folto esercito che avanzava verso Colonia era stato suddiviso tra Nevitta, Dagalaifo, Arinteo e il nuovo arrivato, Vittore. Con l’aumento del numero dei carriaggi, la marcia della colonna si era rallentata, costringendo la cavalleria a tenere il passo dei fanti.
I contadini accorrevano dalle campagne per vedere i soldati del Cesare in marcia verso il confine orientale al suono delle danze pirriche. Musiche che, insieme al canto di migliaia di uomini, avevano spinto via via i Germani a indietreggiare. Il giovane Cesare aveva tenuto ovunque trascinanti arringhe, chiamando a raccolta tutti coloro che volevano liberare la propria terra dall’invasore. La notizia era corsa fin oltre il Reno e nel cuore del popolo e dei soldati Giuliano era già diventato, senza aver combattuto una sola battaglia, il liberatore della Gallia.
Gli unici scontri lungo la strada furono un’imboscata notturna alla retroguardia della colonna, che si risolse grazie al pronto intervento della cavalleria, e quella che dai preliminari poteva essere una vera e propria battaglia, ma si rivelò solo una dimostrazione di forza tra i due schieramenti. Giuliano posizionò gli uomini ad arte e la battaglia finì ancor prima di cominciare, dopo un breve contatto tra le avanguardie, con la disordinata ritirata dei Germani fino al Reno. Il principe preferì non dare ordine di inseguire gli Alemanni, accontentandosi di una vittoria più che altro formale. Solo lui e pochi altri avevano capito che i Germani volevano saggiare la forza dell’esercito del Cesare in vista di uno scontro effettivo. Non era importante, in quel momento, che si fosse arrecato ben poco danno ai nemici. Era più importante che gli uomini si sentissero sicuri di poter sostenere un confronto armato con i Germani, e che fossero pronti a fidarsi di lui. Il resto sarebbe venuto da sé.
Nevitta additò una macchia grigia in lontananza: «Colonia Agrippina!».
Giuliano partì al galoppo, seguito dai protectores. Victor innalzò lo stendardo e i catafratti batavi li seguirono, massa di ferro scintillante nel dorato pomeriggio di settembre. L’aria era tiepida, e il Reno maestoso era di un blu profondo.
Tutto il resto era nero.
I cavalli calpestarono su campi ridotti in cenere, tra fattorie e casolari ancora fumanti. Torri militari rase al suolo, carcasse di animali, uomini lasciati senza sepoltura ai bordi della strada.
Mentre avanzavano in quello scenario desolato, non videro altro che morte e distruzione. Victor osservò la fortezza di Divitia, oltre il fiume, che proteggeva l’accesso alla città da oriente. Là, un anno prima, aveva incontrato Dagalaifo e organizzato l’assassinio di Claudio Silvano. Adesso erano solo edifici anneriti dal fumo, oltre tutto impossibili da raggiungere, perché il ponte sul Reno costruito da Costantino il Grande era stato abbattuto in più punti.
L’esercito si fermò in città per qualche tempo, e per un mese si dedicò unicamente a rimettere in piedi mura e case, e a riattare ponti e strade. Nel frattempo, come spettri, riapparivano un po’ alla volta gli abitanti superstiti, che avevano cercato scampo nei dintorni e ora avevano appreso dell’arrivo del liberatore.
I loro racconti erano raccapriccianti. I Germani avevano assediato Colonia Agrippina fino a irrompere oltre le mura. Avevano massacrato i soldati e i maschi adulti, deportando come schiavi chiunque non fosse riuscito a fuggire, e saccheggiando tutto. Erano rimasti per un po’ accampati nei sobborghi, ma appena saputo che l’esercito romano stava avanzando avevano tolto le tende, non prima di aver completato la loro opera di devastazione a spese del ponte sul fiume, gioiello della romanitas il cui valore andava ben oltre l’utilità pratica.
Un mattino, verso la fine del mese, Dagalaifo si presentò a Giuliano, che stava studiando una mappa insieme a Sallustio.
«Un gruppo di franchi chiede di te, Cesare. Hanno un’ambasciata da parte del loro sovrano, re Vestralpo.»
Giuliano si rivolse al suo consigliere. «Questo nome ti dice qualcosa?»
«È uno dei re che hanno combattuto sotto Cnodomario. Le sue terre si estendono oltre il fiume, verso settentrione, per circa una cinquantina di miglia.»
«Bene, sentiamo cos’hanno da dire» disse il principe, infilando l’elmo. «Ascolta bene, Dagalaifo. Fagli fare un giro della città, fino al cantiere del ponte. Voglio che vedano con che rapidità lo stiamo rimettendo in sesto. Che capiscano che le loro distruzioni presto saranno solo un brutto ricordo per Colonia Agrippina. Io vi aspetterò al cantiere.»
«Sarà fatto, nobilissimo.»
Mentre si dirigevano al ponte, scortati da Draco e da Corax, Giuliano chiese consiglio a Sallustio. «Posso fare la voce grossa, a tuo parere?»
L’anziano stratega riflettè a voce alta. «Siamo arrivati fin qui alla velocità del lampo, ma i Germani sono ancora un pericolo. È vero che hanno dovuto retrocedere di fronte alla nostra avanzata, ma non li abbiamo ancora sconfitti in battaglia. Sono come un leone ferito a una zampa, furibondo e pronto al contrattacco. E non dimenticare che portare l’offensiva oltre questo fiume potrebbe rivelarsi superiore alle nostre forze, almeno per ora. Pesa le parole, Giuliano, concedigli qualcosa.»
«Secondo quanto riportano i corrieri, verso il Meridione anche Costanzo li sta contrastando con forza.»
«Così pare, ma è troppo lontano per esserci utile qui, nell’immediato. Vicino abbiamo un altro leone ferito come Marcello, su cui non possiamo contare. Ti prego, concedi qualcosa. L’anno prossimo li schiacceremo in una morsa, ma adesso non siamo pronti.
«E se è un tranello?»
«Chiedi ostaggi, e fatti consegnare i prigionieri. Vedremo come reagiranno.»
Giuliano guardò il fiume e sospirò. «Cinquanta miglia. Con un attacco deciso della cavalleria, potremmo farli a pezzi.»
«È vero, ma che messaggio manderesti alle altre tribù? Noi non trattiamo, non avete altra scelta che unirvi sotto Cnodomario. Vestralpo è il primo, che si stacca da lui per passare dalla nostra parte. Mostriamoci disponibili e generosi, e non sarà l’ultimo. Altri saranno tentati di seguire il suo esempio. È l’occasione di incrinare le loro alleanze, già di per sé effimere. Promettiamo pure, oggi. Potremo sempre cambiare idea, appena se ne presenta la necessità.»
Giuliano annuì. «Parole sagge, Sallustio. Farò come dici.»
La pace con Vestralpo fu stipulata la settimana seguente. Furono richiesti ostaggi e la liberazione di tutti i prigionieri romani nelle mani dei Franchi. Victor e Dagalaifo fecero da interpreti con il re.
Dieci giorni dopo arrivarono altre due delegazioni da tribù fedeli a Cnodomario, che volevano prendere le parti di Roma. Giuliano era euforico, e non perse il buon umore per l’ordine di far rientrare le legioni di Marcello a Remi, al comando di Vittore, in base alle disposizioni di Costanzo per gli acquartieramenti invernali.
Nonostante l’avanzata di Giuliano, il paese subiva ancora le incursioni degli Alemanni. Una provvisoria linea di confine era stata ristabilita solo a settentrione e nei dintorni di Colonia Agrippina. La popolazione doveva essere protetta e c’era da proseguire la ricostruzione della città, quindi era necessario un presidio di legionari gallici, che fu posto agli ordini di Arinteo. Gli squadroni dei catafratti vennero dislocati in vari presidi, sotto il comando di Marcello, per poter intervenire in caso di nuove scorrerie anche durante l’inverno, e Nevitta andò con loro. Dagalaifo e la guardia personale del Cesare furono inviati a rinforzare presidi di importanza strategica. E Giuliano rimase senza esercito, a parte una piccola scorta composta per lo più da Galli arruolati da poco sotto la guida di Sallustio, con gli inseparabili Victor e Filopatròs.
L’imperatore Costanzo ordinò infine al cugino di tornare alla lontana Vienne, la cittadina che lo aveva ospitato l’anno precedente. Questo era troppo, per Giuliano. Voleva dire allontanarsi da tutto ciò che aveva conquistato e che gli dava forza: città, territori, uomini… allontanarsi dal gusto della vittoria.
No, se questa era davvero la disposizione dell’Augusto, il Cesare poteva benissimo fingere di non averla mai ricevuta. Stabilì dunque il suo quartiere invernale a Senones, città di notevole importanza strategica posta tra Lutazia, Autosudorum, Tricasae e Remi. Un luogo non troppo lontano dal confine, a debita distanza da Marcello e soprattutto dal prefetto Florenzio, e dalla sua corte dei veleni.