III
IL CESARE DELLE GALLIE
Fine ottobre del 355 d.C.
Sotto lo sguardo austero del busto di Costantino il Grande, Victor percorse i corridoi del palazzo imperiale, fino alla porta della sala in cui dava udienza il praepositus sacri cubiculi. Il servo all’ingresso lo salutò con un inchino e lo fece accomodare nella stanza riccamente decorata, davanti a una scrivania in legno intarsiato. Dovette attendere, come prevedeva il cerimoniale, e impiegò l’attesa guardando le Alpi dalle finestre, nella splendida luce autunnale.
Preceduta da un fruscio di sete, apparve l’enorme sagoma del gran ciambellano, seguita da un olezzo di profumo alle rose. Eusebio si fece avanti, un sorriso compiaciuto annegato nella pappagorgia, le mani ingioiellate protese in un gesto di simulato affetto. Subito alle sue spalle, c’era il volto cupo di Paolo, detto Catena, eminenza grigia dell’impero e capo della sua rete di spie e agenti segreti.
«Emerito Victor, siamo lieti di rivederti.» La vocetta infantile vibrava nel gozzo del gran ciambellano.
«Il piacere è tutto mio, illustris» rispose il franco, chinando il capo. Poi rivolse un cenno di saluto a Catena.
«Siedi, Victor.»
I servitori uscirono, chiudendo le porte. Ne rimase solo uno, in piedi in un angolo con un vassoio d’argento. Sul vassoio, calici, una brocca e un piccolo scrigno.
Qualcuno meno freddo di Victor avrebbe tremato, nel ritrovarsi a tu per tu con le due menti più perfide dell’impero. Lui era solo uno dei tanti esecutori, un orecchio che spiava, una mano che colpiva.
Eusebio era un eunuco obeso, l’intermediario tra l’imperatore e il mondo. Le pietre preziose che adornavano le sue grasse dita e gli orecchini ai lati dell’opulenta faccia bovina creavano un alone di luce intorno alla seconda figura più potente dell’impero. Eusebio sovrintendeva alle udienze dell’imperatore, decideva chi poteva parlare e chi no, e spesso anche ciò che si doveva dire. Chi voleva entrare nelle grazie dell’imperatore doveva prima conquistarsi quelle del gran ciambellano, e non era facile. E se l’eunuco era irritato da qualcuno, o peggio ancora lo riteneva pericoloso per l’impero – o per la sua personale posizione – non aveva scrupoli. Molti erano gli innocenti messi a morte dietro suo ordine. Aveva buon gioco nello screditarli, di fronte al diffidente imperatore, e ad arricchirsi senza freni confiscando le loro proprietà. Quando colpiva qualcuno, la condanna si estendeva ai famigliari, agli amici e a chiunque intrattenesse rapporti con l’accusato. Era ciò che stava accadendo in quel momento a Colonia Agrippina a tutti coloro che, per un motivo o per l’altro, erano entrati nella cerchia del defunto usurpatore Claudio Silvano.
Quanto all’ometto dal viso tondo e dal cranio sguarnito al suo fianco, era un criminale dei più efferati. Solo il fatto che fosse al servizio dell’imperatore spiegava come mai non pendesse già da tempo dalla forca. La sua abilità nel far apparire colpevoli di crimini di stato personaggi anche importanti per poterli eliminare, gli aveva procurato il soprannome di “Catena”. I suoi metodi di coercizione per far confessare i nemici dell’impero, veri o presunti, erano spietati. Tra le sue grinfie erano scomparse senza lasciare tracce intere casate.
Eusebio non avrebbe mai assistito a un interrogatorio in cui Paolo straziava con ferri roventi i genitali delle vittime per far dire loro ciò che voleva sentirsi dire. All’eunuco interessavano i risultati, al suo boia invece i metodi.
Riuniti, capitanavano un pericoloso sistema del terrore che aveva giurisdizione dalle sorgenti del Nilo al Vallo di Adriano. Tra il popolino si sussurrava che, se Costanzo era imperatore, lo doveva al fatto che a quei due stava bene così.
Indifferente alle questioni politiche così come a quelle religiose, Victor evitava di porsi domande sugli incarichi che i due alti funzionari gli affidavano. Era un pesce troppo piccolo rispetto agli intrighi orditi a corte ed eseguiva le missioni a lui assegnate senza chiedersi se Claudio Silvano fosse davvero un usurpatore, o se le sue lettere intercettate non fossero un falso fabbricato ad arte. A Victor piaceva poter sostare di tanto in tanto in una grande città, con il denaro sufficiente per darsi al gioco, al vino e alle donne. Poi ripartiva, libero di agire, lontano da tutto e da tutti. Lo pagavano bene, ben più di quei poveracci di Castra Herculia, sul Reno, e viveva sicuramente meglio di loro.
«Ancora una volta sei stato all’altezza del compito, Victor. Dovevi far sì che Ursicino riportasse Silvano a Mediolanum, invece hai risparmiato la fatica al carnefice.» L’eunuco sorrise. «L’imperatore aveva già emesso la condanna a morte del generale.»
«Ricordo che me ne avevi parlato» disse il franco. Lo sguardo dell’eunuco, così innaturale, lo metteva a disagio.
«Sei stato abile,» proseguì Eusebio «specie nel far versare il suo sangue dai suoi stessi uomini. In molte città si sta ancora festeggiando la morte dell’usurpatore e la guerra civile è scongiurata. I nostri sudditi non lo sanno, ma hai reso loro un gran servigio.»
Quel “nostri” suonò strano alle orecchie di Victor, che accennò un sorriso di ringraziamento. Eusebio chiamò con un cenno il servitore. Lo sguardo del franco cadde sul cofanetto chiuso, mentre l’uomo riempiva le coppe che nessuno toccò.
«La tua devozione verso il nostro amatissimo Augusto, che ben conosciamo, non potrà ancora concedersi il meritato riposo, caro Victor» continuò Eusebio, mellifluo. «Questa incresciosa vicenda dell’usurpatore Silvano ci ha procurato qualche grattacapo nelle Gallie. Ci sono state incursioni degli Alemanni e abbiamo perso diverse città. Il confine naturale del Reno sembra non reggere più alle pressioni da oriente e il nostro Divino Augusto deve fronteggiare un crescente numero di nemici su un territorio molto vasto. Per scongiurare l’eventualità di altri casi come quello di Silvano, il nostro amatissimo Augusto ha deciso di dare un segnale inviando in quelle povere contrade un discendente della stirpe dei Costantinidi, il nobilissimo Claudio Giuliano.»
Victor capì che l’imperatore, non volendo altri usurpatori, voleva affidare le Gallie a un parente, più facile da controllare. «Purtroppo, il nobilissimo Giuliano è lungi dall’essere un gran condottiero.»
Catena ghignò, con una smorfia di disprezzo.
«È cresciuto nel dorato isolamento della tenuta imperiale di Macellum, nella lontana Cappadocia, e ha proseguito i suoi studi a Costantinopoli, Antiochia, Pergamo e in un’altra mezza dozzina di atenei dell’impero. Il suo avvenire sembrava quello di un devoto servo della Chiesa, ma il Signore deve aver deciso altrimenti.»
Catena ghignò di nuovo.
«Si vede che non lo vuole. E lo capisco, neanch’io lo vorrei…»
Victor accennò al cameriere alle spalle del gran ciambellano.
«È un sasanide» disse Eusebio «non capisce la nostra lingua, e per giunta, è sordomuto.»
Gli occhi dell’eunuco erano pozze liquide nel volto di cera.
«Il nobilissimo Giuliano è il fratellastro di Costanzo Gallo, decapitato per tradimento lo scorso anno. Comprendi bene che il nostro amatissimo Augusto ha bisogno di un custode fidato che vegli sul suo caro cugino, per impedirgli di commettere gli stessi errori del fratello.»
Catena prese lo scrigno e lo aprì davanti a Eusebio.
«Il nobilissimo Giuliano vestirà la porpora di Cesare tra pochi giorni e guiderà l’esercito che dovrà ristabilire l’ordine nelle province settentrionali. Sa poco del latino delle legioni e nulla della guerra, ma pare che apprenda velocemente.»
L’eunuco prese dal cofanetto un anello e lo porse a Victor. Il gioiello aveva una pietra incastonata, con incisa una “V”.
«Forse troppo velocemente» disse Eusebio, con un sospiro pieno di sottintesi. «Quello è per sigillare i messaggi con cui riferirai a noi ogni mossa del Cesare delle Gallie. Il sigillo delle nostre istruzioni già lo conosci.»
Victor annuì.
«Da oggi sei al servizio del nobilissimo Giuliano come protector e armidoctor, guardia del corpo personale e maestro di scherma. Sa di lettere ma non di armi e tu dovrai sanare questa sua ignoranza. Così potrai sorvegliare il resto delle sue guardie. Sarete in dodici a darvi il cambio, tutti uomini esperti e di fiducia… ma se qualcuno dovesse mancare al giuramento di fedeltà al nostro amatissimo Augusto, potresti ricevere l’ordine di rimediare. Se ti diremo “Iugula”» concluse l’eunuco «tu fallo, senza esitare.»
Catena richiuse lo scrigno e lo spinse verso il franco.
«L’ordine vale anche per il nobilissimo Giuliano, prossimo nuovo Cesare d’Occidente.»
Victor si immobilizzò per un istante. Poi infilò l’anello al dito. «Sarò solo?»
«Come sempre, referendarius Victor.»
Il franco annuì. Dai loro sguardi capì che il colloquio era finito.
«Non scordare il tuo compenso.»
Victor prese il cofanetto, chinò il capo in segno di saluto e si avviò alla porta che il sordomuto fu lesto ad aprire. Percorse a passo veloce i corridoi del palazzo, il luogo più pericoloso di tutto l’impero e, raggiunte le scuderie, ripose lo scrigno nella bisaccia e montò in sella.
Notò sulla sinistra uno splendido cavallo berbero e si fermò a osservarlo meglio. Se lo ricordava bene, perché lo aveva visto un paio di mesi prima al seguito di Ursicino, a Colonia Agrippina. In sella allora c’era Filopatròs.
Lasciò le scuderie imperiali di Mediolanum con la testa affollata di pensieri. Quanti come lui sarebbero entrati a palazzo, quel giorno? Sapeva che alcuni agenti erano ufficialmente aggregati ai reparti militari e agivano alla luce del sole. Ma i referendari no, erano ombre solitarie, piccoli tasselli di un immenso e intricato mosaico di cui non conoscevano il disegno. Recitavano la loro parte e poi venivano spostati altrove.
Inutile fantasticare sulla presenza del cavallo di Filopatròs nelle stalle di palazzo. Meglio sfruttare quelle poche ore che gli restavano prima di diventare il tirapiedi del Cesare delle Gallie per spassarsela un po’ al porto.
Mise al trotto il suo magnifico stallone nel vento fresco che arrivava dalla pianura, prese il Decumano Massimo e uscì dalle mura in mezzo al traffico di viandanti e di carri. Dopo la rissa dell’ultima volta preferì lasciar perdere, a malincuore, la taberna del sabino e per prudenza, visto il malloppo nella bisaccia, evitò i vicoli interni. Vide due soldati uscire con aria soddisfatta da una locanda e si fermò. Scese da cavallo ed entrò con la bisaccia in spalla. Fu investito da un miscuglio di odori, alcuni gradevoli altri meno. Prese posto vicino al bancone di pietra e ordinò cibo e vino, osservando gli altri avventori. C’era poco movimento e Victor stava pensando che forse aveva sbagliato posto… Poi, rannicchiata in un angolo in penombra, scorse una figura femminile seduta, il mento appoggiato sui pugni, a guardare fissa nel vuoto. Bevve un sorso di vino, si lisciò la barba e la raggiunse.
«Sei sola?»
La ragazza si volse e lo guardò. Sotto il trucco pesante brillavano due occhi verdi, lucidi di tristezza. Il viso incorniciato dai capelli corvini sembrava una scultura di Venere in marmo bianco, il naso sottile e le labbra carnose piegate in una smorfia, che trasformò in un sorriso forzato. La ragazza annuì.
«Vuoi mangiare qualcosa con me?»
Lei scosse il capo. Anche i capelli erano una meraviglia.
«Il padrone non vuole che perda tempo a mangiare con i clienti.»
Victor si voltò verso il locandiere, occupato a servire al banco, poi tornò a guardarla e si chinò su di lei. «Vuoi che lo ammazzi?» Le strizzò l’occhio. «Basta che me lo chiedi, e zac!»
Il secondo sorriso fu più sincero, ma ancora velato di malinconia.
«Come ti chiami?»
«Murrula.»
«Vieni a sederti.»
«No. Quando te ne vai, lui mi picchia.»
Victor tornò a sedersi al tavolo e chiamò l’oste.
«Voglio pranzare con Murrula, oste, e poi passare il pomeriggio con lei.»
L’uomo ridacchiò.
«Non sei il primo… Murrula è la miglior puttana della mia taverna, soldato. Ti costerà parecchio.»
Victor si alzò e gli andò vicino.
«Attento» sibilò. «Io sono un uomo dell’ombra, uno di quelli che combattono per l’impero, ma nel buio. Quando mi chiamano, qualcuno sparisce.»
Lo sguardo del taverniere si fece inquieto.
«Lavoro per uomini potenti, quindi ho di che pagarti. Ma se facessi arrivare alle loro orecchie che qui si cospira contro il Divino Augusto…»
L’altro era pallido come un morto.
«Allora, vuoi dire a Murrula di sedersi con me? Ah, e porta del vino migliore. Questo sembra piscio.»
Le ultime luci del tramonto autunnale avevano abbandonato la miserabile stanzetta. Murrula era scivolata dal letto scomparendo oltre la porta, per tornare poi con una piccola lucerna a olio. Victor esaminò il corpo di lei, rischiarato dalla luce giallastra. Il volto si stagliava nella penombra, mentre la fiamma della lampada le danzava negli occhi. I contorni del seno perfetto erano accentuati dal tremolio della fiamma. Poi il suo sguardo scese e si perse, là dove aveva goduto per ore.
«Il pomeriggio è finito, Victor.»
Negli occhi della ragazza, dietro la luce, ardeva una fiamma oscura. Il franco scese dal letto, possente e solido, un tronco di quercia accanto alla delicata Murrula. Un tronco dalla scorza segnata, solcata dalle cicatrici di molte guerre. Con la mano libera, la ragazza accarezzò la pelle tesa sulle ampie spalle.
«La vita ha lasciato parecchi segni anche a te.»
Victor la strinse a sé, sentendo i suoi seni contro il torace. Si riempì le narici del profumo dolciastro dei suoi capelli e le cercò la bocca, l’unica cosa che lei gli aveva finora negato. Murrula si lasciò baciare senza schiudere le labbra, nonostante la lingua calda e umida del maschio cercasse di forzarle. Rimase immobile, chiusa e gelida come un sepolcro.
Victor si ritrasse e si rivestì in fretta, infastidito da quel rifiuto. Nell’uscire la guardò e gettò una moneta d’oro sul letto. Valeva molto più di un pomeriggio.
La pungente brezza del mattino spinse Victor a raggiungere il cortile al centro del chiostro, dove batteva il sole. Inspirò a pieni polmoni e si guardò intorno, poi sguainò la spada e vibrò un paio di fendenti, colpendo l’aria con vigore.
Dal porticato in ombra venne un pesante suono di passi. Il franco guardò in quella direzione e vide apparire un gruppo di ufficiali, seguiti da un manipolo di guardie. Il tribuno al comando, alto e biondo, indossava un’armatura a scaglie di bronzo che brillò ai primi raggi di sole. Il suo nome era Flavio Arinteo. Il giovane ufficiale prestava servizio a palazzo e al momento era a capo della scorta del futuro Cesare delle Gallie.
«Victor, ti presento il nobilissimo Flavio Claudio Giuliano, cugino del nostro amatissimo imperatore Flavio Giulio Costanzo.»
Victor si inchinò e i militari si fecero da parte, lasciando spazio a un ragazzo goffo dalle spalle strette. Il giovane fece un passo avanti e rispose al saluto. Poi abbassò lo sguardo, a disagio.
«Nobilissimo Giuliano,» disse Arinteo «permettimi di affidarti a uno dei nostri più esperti uomini d’arme.»
Il ragazzo annuì. Uno dei servitori gli porse una spada da addestramento spuntata, poi gli uomini della guardia si disposero intorno al cortile, mentre il corteo dei servitori con cibi e bevande rimaneva in attesa sotto il porticato.
Arinteo fece cenno a Victor che poteva iniziare. Il franco annuì, poi guardò finalmente il ragazzo. Alto e un po’ curvo, dal volto acerbo e pallido, non dimostrava più di vent’anni. Due occhi grandi, affamati di mondo ma sfuggenti. Da come reggeva la spada, si intuiva che era la prima che impugnava. Se quello era il comandante dell’esercito delle Gallie, c’era poco da stare allegri.
«Per cominciare, nobilissimo Cesare…»
«Non sono Cesare» lo interruppe il giovane. «Non ancora…»
«Perdonami, nobilissimo Giuliano.»
«Non importa» disse il suo nuovo allievo, deglutendo imbarazzato. «Non importa.»
«Per cominciare» riprese Victor, pacato «devi imparare la postura, nobilissimo Giuliano. Gambe, braccia e spalle.» Il maestro si mise al fianco dell’allievo e gli mostrò la guardia da tenere, ma per quanto si impegnasse, i movimenti goffi di Giuliano non si avvicinavano minimamente a quelli marziali di Victor. Dopo una serie di tentativi Victor si spostò dietro al giovane e lo prese per le spalle, facendogli assumere la posizione giusta. Poi ripeté la manovra con le gambe, tra gli sguardi imbarazzati degli ufficiali.
«Mai stare con le gambe rigide. Il ginocchio leggermente piegato, per riequilibrare il peso, e il collo ben dritto, a testa alta.» Victor tornò davanti al ragazzo e lo fissò. «E poi lo sguardo, nobilissimo Giuliano. Mai fissare un punto preciso. Mai fermarsi su un particolare: la spada, gli occhi, l’avversario… Vedere tutto e non fermarsi su niente.»
«Tutto e niente…» ripeté Giuliano, pensoso. «Come è possibile?»
«Bisogna imparare a cogliere tutto ciò che ci accade intorno, notare ogni dettaglio senza mai perdere la giusta concentrazione.» Victor abbassò la voce. «Come si osserva un cielo stellato? Bisogna lasciare lo sguardo aperto e non fissarsi su una stella. Se si fissa una sola stella, si perde la bellezza dell’immensità del Creato. In battaglia, se si fissa un solo punto non si vede il fendente mortale che arriva da un’altra parte.»
Il ragazzo parve colpito da quelle parole e per qualche istante si fermò a scrutare Victor negli occhi. Poi si rimise in guardia. Victor simulò un attacco dall’alto e il ragazzo alzò la spada, chiudendo gli occhi d’istinto all’impatto delle lame.
«Occhi aperti! Guardia alta!»
Fendente. Fragore di metallo. Parata, a fatica.
«Ginocchia piegate!»
Il terzo fendente fu più violento e Giuliano perse la spada.
«È importante impugnare saldamente la spada, nobilissimo, ma non bisogna irrigidire le braccia al momento della parata.»
Il ragazzo si massaggiò il polso e raccolse l’arma. Quando fu di nuovo in guardia, Victor ripartì all’attacco di nuovo, rapido ma senza forzare. Andarono avanti per parecchio tempo, poi il franco chiese all’altro se voleva riposarsi. Giuliano scosse il capo e si mise in guardia. Aveva carattere, ma era carente di forza e soprattutto della qualità innata necessaria a un combattente: l’aggressività.
Quando l’addestramento ebbe termine, Flavio Giuliano era stremato. Uno stuolo di servitori si affrettò a prendersi cura di lui. Un sorridente Arinteo si avvicinò a Victor mentre riconsegnava la spada da esercitazione.
«Bravo, ti sei conquistato il primo turno di guardia nei silentiarii, le guardie che vigilano sul sonno del futuro Cesare. Pare che l’Augusto ti voglia proprio accanto al suo nobilissimo cugino.»
Victor non disse nulla. Si diresse al corpo di guardia, dove trovò ad attenderlo Filopatròs.
«Graeculo,» chiese sorpreso «cosa ci fai qui?»
«E tu, franco? Non ho più avuto tue notizie, dopo gli eventi di Colonia Agrippina.»
«Sono stato richiamato a Mediolanum dopo la morte di Silvano e ho cercato di restarci il più possibile.»
Filopatròs strizzò l’occhio. «Le ragazze del porto, eh? Comunque, se lo vuoi sapere, mi hanno assegnato alla guardia del futuro Cesare delle Gallie.»
Victor ghignò. «E Ammiano ce la farà, senza di te?»
«Senza di noi, vorrai dire.»
Si strinsero la mano, ridendo. Victor era certo che Filopatròs fosse un agente segreto. E chissà quanti altri ce n’erano, dissimulati nella scorta di Giuliano.
Scesa l’oscurità, il franco e il greco attraversarono un edificio attiguo al palazzo imperiale e raggiunsero l’anticamera di Giuliano, per dare il cambio alle guardie che smontavano. Un ufficiale trasmise loro le consegne. Più che un futuro Cesare, sembravano riguardare un prigioniero.
Il giovane Giuliano non poteva uscire dai suoi appartamenti e nessuno vi poteva entrare. Soltanto due servitori di provata fedeltà potevano passare da quella porta, ma tutto ciò che portavano doveva essere controllato. Qualunque lettera, in partenza o in arrivo, doveva essere immediatamente requisita. Se le guardie avessero violato le consegne, ne andava delle loro teste.
Victor e Filopatròs rimasero soli nell’anticamera illuminata dalle lampade a olio, ad ascoltare il suono dei passi stanchi della guardia smontante svanire lungo i corridoi.
«Cosa ne pensi?»
Victor rifletté. Se il greco era agli ordini di Catena, una risposta sincera poteva rivelarsi compromettente. «Penso sia meglio non farsi troppe domande, amico mio.»
Il greco si guardò intorno e andò verso un tavolino di bronzo con il piano in marmo verde, dove faceva bella mostra un bacile d’argento colmo di frutta. «Hai già visto il Cesare?»
«Sì» disse Victor. «Gli ho tenuto una lezione di scherma militare, stamattina.»
«E com’è?»
«Un ragazzo che non ha mai preso in mano una spada.»
Il greco ghignò e scelse un enorme grappolo d’uva.
«Sei sicuro?»
Il greco si voltò, pronto ad addentare l’uva. «Non penserai che sia avvelenato, eh?»
«Te l’ho detto, meglio non farsi domande. Io non lo mangerei.»
Filopatròs staccò un acino polposo, se lo rigirò tra le dita e lo mise in bocca. «L’ho già assaggiata nel turno di ieri.» Strizzò l’occhio. «Perché avvelenare del cibo per lasciarlo qui? Per fare una strage di guardie e servitori? No, se vogliono togliere di mezzo il caprone basta mettergli qualcosa nella colazione.»
«Il caprone?»
«Certo. Non lo sai che lo chiamano così? Ora pare che l’imperatore l’abbia fatto radere, ma al suo arrivo a Mediolanum aveva la barba di una capra. Dicono anche che abbia il labbro inferiore che casca.»
Victor rise. «Che idiozia. Non somiglia affatto a una capra.»
«Non ho detto una capra, ho detto un caprone e lui ci somiglia, eccome. Ieri, quando è passato di qui, mi hanno detto che è inciampato e…»
Passi nel corridoio. I due smisero di parlare, Filopatròs sputò i semini dell’uva e si ricomposero appena in tempo per veder giungere, preceduto dall’alone delle lampade, un folto gruppo di eunuchi e di servitori carichi di cose, scortati da un drappello di guardie. I silentiarii fermarono il gruppo all’ingresso dell’anticamera. Uno degli eunuchi, con voce stridula, prese la parola.
«L’imperatrice Eusebia ci ha incaricato di consegnare dei libri al nobilissimo Giuliano.»
Victor valutò che erano almeno qualche decina. «Abbiamo ordine di perquisire tutti coloro che intendono accedere a…»
«Non ti dare pensiero, soldato,» lo interruppe l’eunuco «l’imperatrice in persona si fa garante di questo incarico.»
Il franco scosse il capo deciso. «Il comandante delle guardie è stato chiaro: non dobbiamo far entrare nessuno, da chiunque sia stato mandato.»
«Credo di avere una certa autorità, sul comandante delle guardie.»
Una voce femminile. Victor aguzzò lo sguardo per vedere chi aveva parlato, e si sentì avvampare le guance quando riconobbe l’imperatrice Eusebia. La sovrana si fece avanti con incedere elegante, mentre le teste intorno a lei si chinavano ossequiose. Anche Victor e Filopatròs furono pronti a inchinarsi di fronte alla nobile figura.
«Sono solo dei libri, guardia.» La sovrana gli porse un volume del De bello gallico. «Posso entrare ora?»
«Sì, mia signora.» Victor le riconsegnò ossequioso il libro.
L’eunuco bussò alla porta. Un servitore venne ad aprire e l’intero gruppo si riversò oltre l’ingresso. Victor e Filopatròs si guardarono e nessuno dei due accennò alle gocce di sudore sulla fronte dell’altro.
«Consegne da rispettare e questo è il risultato» borbottò il franco.
«Speriamo di non finire decapitati.»
«Sai, graeculo, forse è meno pericoloso scortare qualche generale nelle terre degli Alemanni.»
«Credo anch’io.» Filopatròs annuì convinto. «Ma cosa se ne farà mai, di tutti quei libri?»
Victor finse di riflettere. «Forse vuole usarli come arma.»
«I libri? Ma che ti salta in mente?»
«Sì, invece!» insistette Victor. «Pensa che geniale diversivo: arriva l’alemanno inferocito, tu gli porgi un libro e mentre il selvaggio cerca di capire cos’è, gli infili la spada nella pancia!»
I due scoppiarono a ridere proprio mentre dal corridoio arrivavano altri servi, carichi di libri.
Il 6 novembre del 355 era una giornata fredda e nuvolosa, ma Mediolanum era vestita a festa e le strade gremite dalla folla delle grandi occasioni. Un cordone di soldati dagli elmi a specchio si snodava lungo la via che dal palazzo imperiale portava al foro, per fare spazio al passaggio del corteo. La gente che attendeva ormai da ore accolse con acclamazioni i cavalieri catafratti, i primi a uscire dal palazzo. Era insolito vedere una colonna di cavalieri corazzati che sfilava per la città, ci voleva un evento importante, qual era appunto la nomina di un Cesare.
Dall’alto delle cavalcature rivestite di scaglie di ferro, i cavalieri scrutavano la folla festante. Gli elmi dagli alti cimieri coprivano quasi interamente i volti. Alcuni portavano maschere di ferro, altri maglie ad anelli che dall’elmo scendevano sul volto, con due piccoli fori per gli occhi. Dalle lunghe lance sventolavano festanti i nastri colorati dei vari reparti.
Dietro di loro marciavano i fanti delle scholae palatinae, l’esercito mobile dell’imperatore, poi i musici e i portainsegne imperiali, seguiti dalla guardia dei cornuti con i caratteristici elmi adorni di corna stilizzate.
Veniva poi il cocchio imperiale, simile a un enorme trono dorato su ruote, trainato da quattro cavalli bianchi ricoperti di gualdrappe purpuree e nastri azzurri, da cui pendevano campanelle tintinnanti. Il tiro era condotto per mano da due ufficiali che avanzavano a passo lento e solenne. Sulla sommità del carro, adagiato su cuscini di seta blu, sedeva l’augusto imperatore di Roma Flavio Giulio Costanzo. Ieratico come una statua, guardava dritto davanti a sé. Reggeva con la sinistra il globo e con la destra la sacra lancia, simboli del potere imperiale.
Al suo passaggio la folla osannava la personificazione del più vasto e potente impero mai esistito. Dall’alto del suo trono in lento movimento, Costanzo fissava il nulla con gli intensi occhi scuri, cercando di controllare anche il battito delle palpebre. Il popolo aveva bisogno di una guida più prossima al cielo che ai comuni mortali, un ruolo in cui il sovrano sembrava perfettamente a suo agio.
Dietro al cocchio cavalcavano due imponenti draconarii in armature dorate ed elmi da parata in argento. Portavano scudi da cerimonia color porpora, con il monogramma di Cristo in oro, e picche sulla cui sommità svettavano due draghi dorati con code in seta purpurea ondeggianti al vento.
Il corteo giunse al Foro davanti a una tribuna adorna di insegne militari. Il giovane Flavio Claudio Giuliano attendeva l’imperatore affiancato da Victor e Filopatròs e attorniato dal resto della sua scorta personale. Il franco e il greco esibivano elmi e corazze lucidi come specchi, e Victor reggeva un’asta con la testa di drago consegnatagli di tutta fretta prima della cerimonia da un ciambellano isterico, per identificare il Cesare.
A differenza dell’augusto cugino sul cocchio, il futuro comandante degli eserciti delle Gallie non riusciva a rimanere fermo. Un’incontrollabile irrequietezza lo spingeva a spostare di continuo il peso del corpo da una gamba all’altra. Di tanto in tanto sospirava e scrutava i reparti in armi schierati davanti a lui, e la folla che riempiva lo spiazzo sin sopra le scalinate del tempio di Giove, Giunone e Minerva.
La colonna dei cavalieri catafratti, con il suo solenne incedere, accese l’entusiasmo del popolo assiepato nella piazza e presto l’imperatore fu sommerso da acclamazioni e petali di fiori.
Victor osservava di sottecchi Giuliano, il cui nervosismo era sempre più evidente. Appena poteva, il giovane abbassava lo sguardo per sfuggire alle migliaia di occhi puntati su di lui come frecce incoccate. Negli ultimi dieci giorni il franco aveva trascorso tutto il suo tempo con il futuro Cesare, cercando di insegnargli al meglio la scherma militare e il tiro con il giavellotto, il combattimento a cavallo e a piedi. Per Giuliano erano i primi passi nella scoperta dell’arte della guerra. C’era stato qualche miglioramento, ma il giovane rimaneva lento e impacciato nei movimenti. Il suo sguardo era ancora quello del timido discepolo di un ateneo, incapace di affrontare il furore negli occhi di un alemanno del Reno.
I militari del suo seguito lo disprezzavano e non gioivano all’idea di partire per la Gallia agli ordini di un ragazzetto che non aveva mai visto una battaglia. Victor aveva subito riferito al gran ciambellano Eusebio del malumore che serpeggiava tra i soldati e la notizia aveva molto divertito l’eunuco. Eusebio si era complimentato con il franco per l’addestramento impartito a Giuliano, gli aveva rammentato i suoi doveri di informatore e non aveva preso per il momento alcun provvedimento diretto. Presto anche il nuovo Cesare avrebbe trovato il suo mentore.
Dopo aver fatto rapporto a Eusebio nel cuore della notte, infatti, Victor vide arrivare qualcuno. Al seguito di Giuliano si erano aggiunti proprio in quei giorni l’erculeo Flavio Nevitta, l’ufficiale di cavalleria che dal Reno li aveva scortati fino a Colonia Agrippina, e Dagalaifo, il comandante delle guardie di Claudio Silvano che aveva eseguito, senza saperlo, la sentenza dell’imperatore. Ursicino era riuscito a fargli ottenere il grado cui il franco aspirava, anche se non esattamente alla corte di Costanzo. Quello stesso Costanzo che era appena salito sul podio e aveva preso per mano l’uomo che stava per divenire Cesare.
L’imperatore percorse con lo sguardo le truppe schierate, sovrastate da una selva ondeggiante di lance e insegne. Sentì un vuoto salire dallo stomaco e una vampa di calore nel petto. Il fascino indicibile e inebriante del potere assoluto.
Accanto a lui, il giovane Giuliano, che per la prima volta aveva modo di percepire quel fascino, ne era però terrorizzato.
Gli ordini secchi dei generali volarono sulla folla rumoreggiante e le insegne dei reparti si abbassarono, l’una dopo l’altra, in segno di saluto. Lentamente, sull’enorme piazza scese il silenzio. Il Divino Augusto esordì in tono stentoreo nel latino dell’esercito, così da accostarsi ai suoi sudditi come un essere umano.
«Ci presentiamo di fronte a voi, valorosi difensori dell’impero, per chiedervi un giudizio su una causa di interesse comune. I barbari calati dalle terre fredde hanno violato la pace delle frontiere e conducono scorrerie nelle Gallie, credendo che il nostro impero sia oppresso dalle difficoltà e troppo vasto da difendere. Se a questo male verrà opposta la forza della mia e della vostra volontà, la superbia di queste genti si smorzerà in fretta e i nostri confini torneranno a essere stabili. Se assentirete a questa speranza che ho nell’animo, desidero, se me lo consentite, elevare Giuliano, mio cugino paterno, alla carica di Cesare. È un giovane stimato per la sua modestia e per questo a noi caro, oltre che per i vincoli di parentela…»
«È Dio che lo vuole Cesare,» urlò una voce tra la folla «non la mente umana!» Dalle truppe schierate si levarono acclamazioni eccitate che invocavano la volontà divina. Senza lasciare la mano di Giuliano e senza tradire alcuna emozione, Costanzo attese che gli animi si placassero e ritornasse il silenzio.
«Dato che ho la vostra approvazione, si innalzi questo giovane forte e sereno ad assumere la carica che gli viene felicemente offerta. In virtù del mio potere e del favore della divinità celeste, io lo rivesto del manto imperiale.»
Due ufficiali salirono sul podio con il mantello purpureo e la corona d’alloro. Deposero la porpora sulle spalle di Giuliano, e l’imperatore si voltò ad allacciarla nel tripudio generale. Il ragazzo scrutò con timore reverenziale l’uomo che, dopo avergli aveva ucciso il padre e il fratello, ora lo faceva entrare nella stirpe dei Cesari, accanto ai grandi della storia. L’incontro dei due sguardi non durò che un attimo fugace: troppo difficile per entrambi reggere le vere, reciproche emozioni che ne scaturivano. Tra le ininterrotte acclamazioni della folla, Costanzo cinse il capo del giovane con la corona d’alloro, per poi rivolgersi di nuovo alla piazza.
«In giovane età, carissimo cugino, hai ricevuto lo splendido fiore delle tue origini. Riconosco che la mia gloria si è accresciuta, perché concedendo un potere quasi uguale al mio a un nobile parente dimostro la mia grandezza nell’esercizio del mio stesso potere. Sii dunque partecipe delle mie fatiche e dei miei pericoli e assumi l’incarico di difendere le Gallie per sollevare dalla rovina quelle regioni duramente provate. Se sarà necessario venire a battaglia con i nemici, poniti a piè fermo tra i signiferi e guida tu stesso con audacia, da valoroso, questi valorosi.»
I soldati lanciarono urla di approvazione.
«Saremo vicini l’uno all’altro con saldo e costante affetto,» continuò Costanzo «insieme combatteremo per reggere uniti, con pari equilibrio e amore, il mondo riportato alla pace. Va dunque e affrettati, seguito dall’augurio di noi tutti, a difendere il posto di combattimento che lo stato ti ha assegnato.»
I soldati cominciarono a battere gli scudi sulle ginocchia in segno di entusiasmo. L’esercito salutava il nuovo Cesare, e il Cesare rispose levando la mano in un gesto non previsto dall’etichetta imperiale, che scatenò il delirio della piazza. Inutile proseguire con altri discorsi, nel clamore nessuno li avrebbe più sentiti. L’imperatore abbandonò il podio, lasciando che Giuliano ricevesse l’abbraccio della città. Con tutto il peso della corona d’alloro sul capo, il giovane levò ancora la mano verso i legionari che presero a urlare il suo nome a gola spiegata.
Dopo qualche istante, l’espressione preoccupata del gran cerimoniere che lo supplicava a grandi gesti di scendere dal palco convinse il Cesare d’Occidente che era ora di tornare tra i mortali. Sceso dal podio, fu inghiottito dalla schiera di servi, soldati e scenografi accalcati dietro il palco. Il cerimoniere gli accomodò il mantello e prendendolo sotto braccio lo condusse subito da Costanzo, che attendeva circondato dai suoi cavalieri. Nella calca Giuliano urtò contro Victor, che ancora reggeva il drago, e il giovane sorrise al suo protector, per poi lasciarsi trascinare dal sempre più agitato cerimoniere fino al carro dell’imperatore.
Victor non riuscì più a vederlo, ma poté sentire le urla dei soldati seguire il carro, che tornava al palazzo imperiale, con il fragore di un’onda dell’Oceanus.