XII

ARGENTORATUM
Agosto del 357 d.C.

Giuliano mostrò il torques d’oro all’esercito delle Gallie, schierato sotto al podio.

«Per il coraggio dimostrato, la costante dedizione e la fedeltà alla mia persona, io ti conferisco questo segno di riconoscenza.»

Victor accolse l’onorificenza e le truppe acclamarono il draconarius che con quel simbolo diventava un prediletto del Cesare.

«Dopo l’incursione dei nostri valorosi sulle isole del Reno,» disse il principe «i Leti hanno compreso che il fiume non li avrebbe difesi e le tribù della regione sono fuggite nelle foreste. Quattrocento anni dopo Giulio Cesare, noi, suoi fieri discendenti, siamo rientrati in queste terre e ci siamo ripresi ciò che ci apparteneva. Abbiamo ricostruito e rifornito questa fortezza, che i Germani avevano distrutto. Oggi abbiamo il controllo di tutta la valle del Reno e delle vie verso l’interno della Gallia.»

Dagli uomini si levò un nuovo coro di entusiasmo, e il Cesare chiese il silenzio. «Ma la lotta è solo all’inizio. Quando si combatte, tutti, fino all’ultimo uomo, devono fare il proprio dovere. Perché è quando qualcuno manca ai suoi doveri che il nemico ne approfitta.»

Dopo una pausa, mostrò il messaggio che aveva in mano.

«Mentre noi consolidavamo la nostra avanzata, il generale Barbazione, sotto di noi, si è lasciato cogliere di sorpresa da un attacco degli Alemanni. E la seconda sorpresa, piacevole per i nemici e dolorosa per noi, è che le truppe del prode Barbazione hanno voltato le spalle a Cnodomario e sono fuggite.»

Un brusio crescente cominciò a montare tra le file di soldati.

«Sono andati persi i carriaggi. Parte della retroguardia di fanteria e i servi sono stati travolti, ma gran parte della cavalleria si è messa in salvo nei quartieri invernali. Quanto a Barbazione, non ho dubbi che a quest’ora sia già giunto a Mediolanum, per godersi un meritato riposo. Un grande esercito bene armato è scappato davanti a un’orda di cenciosi Alemanni che hanno di nuovo riattraversato il Reno e sono dilagati in Gallia, pieni di baldanza, nelle terre che noi abbiamo così faticosamente riconquistato.»

Vide gli sguardi delle prime file. Si sentivano smarriti, come se l’entusiasmo iniziale fosse solo un sogno svanito nel sole.

«Altre tribù sono scese in guerra, e le nostre linee di comunicazione sono interrotte. Credo di capire cosa state pensando. Avete lavorato duramente, vi siete battuti, non avete sprecato neanche un pugno di farina… Per cosa? Per ritrovarvi di nuovo circondati, per una beffa del destino, da questi barbari che vi vogliono morti.»

I veterani delle prime file annuirono, a labbra serrate.

«Che ci vogliono morti. Perché io resto qui. Non fuggo a Mediolanum, con il pretesto di conferire con l’imperatore. Resterò qui fino alla fine, fino alla vittoria. Io per primo non dormirò, e non mangerò, se necessario. Io per primo combatterò e morirò, se necessario!»

Un grido di approvazione si levò dai soldati.

«Noi siamo gli uomini dell’esercito delle Gallie, non abbiamo mai indietreggiato, e non cominceremo di certo oggi. Perché noi siamo i migliori!»

Di fronte al gigante, nessuno più ricordava il ragazzo.

«Disprezzate il dolore! Disprezzate il destino! Disprezzate la morte! Non è che un passaggio, dal quale voi, miei prodi, non avete nulla da temere!»

Tra le grida delle truppe, Giuliano udì molte voci chiamarlo “imperatore”. Erano pronti a dare anche la vita, per lui.

«Marcerò alla vostra testa, e insieme schiacceremo Cnodomario!»

Nell’ascoltare migliaia di uomini urlare convinti “Giuliano Augusto”, Victor ebbe un brivido. Se il referendario fosse stato ancora fedele a Eusebio e ai suoi accoliti, quella notte stessa avrebbe dovuto uccidere il ragazzo. Ma il draconarius era con lui, come e più di tutti quei soldati.

Il mattino dopo, si riunirono di buon’ora.

«Ho riflettuto» disse Giuliano, avvicinandosi al tavolo delle carte. «La scelta meno rischiosa è mantenere la nostra posizione in questa fortezza, e operare da qui in attesa dei rinforzi. Naturalmente, ciò comporta alcune conseguenze. Primo, abbandoniamo la Gallia nelle mani degli Alemanni proprio nel momento del raccolto. Ciò significa che l’anno prossimo il paese andrà incontro alla carestia.»

Cercò di capire le loro reazioni, e fu Sallustio a esprimersi per primo. «Visto il deplorevole comportamento di Barbazione, e non vorrei ricordare cos’è successo a Senones, mi chiedo se mai arriveranno, questi rinforzi.»

«Non possono abbandonarci» disse Arinteo.

«Lo hanno già fatto. In questo momento, l’unica barriera contro i Germani siamo noi» disse freddamente Giuliano.

«E allora attacchiamo!» Flavio Nevitta non era uomo da lunghi discorsi.

«Facile a dirsi,» replicò Valentiniano «ma sono almeno il triplo di noi.»

«È vero,» disse Sallustio «ma in uno scontro campale, possiamo batterli.»

«E dalla nostra abbiamo l’equipaggiamento» disse il Cesare «e l’addestramento. Le nostre unità palatine sono tra le migliori dell’impero.»

«Questa non è una scaramuccia notturna contro una manciata di contadini male armati» insistette Valentiniano.

«No, sarà una battaglia campale contro un’accozzaglia di contadini male armati» gridò Giuliano «e peggio addestrati. So bene che Cnodomario avrà con sé anche buoni guerrieri, ma il resto è gente buona per saccheggiare fattorie e massacrare donne e bambini, non per battersi contro le legioni.»

Giuliano li guardò negli occhi. «Colpire, razziare e fuggire. È la loro tattica. Noi dobbiamo costringerli a una battaglia in campo aperto, facendo loro credere che basti la superiorità del numero a sopraffarci. Poi, la nostra superiore organizzazione li schiaccerà, come chicchi di grano sotto la pietra del mugnaio.»

«Perdonami, nobilissimo.» Valentiniano puntò il dito sulla mappa. «Secondo gli esploratori, sono tre giorni che le foreste a meridione rigurgitano l’orda di Cnodomario. Un numero impressionante di uomini, cui si stanno unendo i clan di altri capi, a cominciare da Vestralpo, e poi Urio, Usicino, Serapione, e altri ancora, dai nomi impronunciabili.»

«E noi, cosa vogliamo fare? Imitare Barbazione?»

«Non si tratta di fuggire, ma di ragionare.»

«No, Valentiniano, si tratta di agire. Subito, prima che ne arrivino altri ancora. Scegliendo un terreno di battaglia adeguato e disponendo il nostro esercito su due linee parallele distanziate. In tal modo, le unità della seconda linea possono sostenere gli uomini della prima, se questa dovesse cedere. Gli ausiliari a sinistra, tre legioni al centro e i cornuti e i brachiati a destra. In seconda linea, di nuovo gli ausiliari sulla sinistra, la legione dei primani al centro e i Batavi a destra. Terremo una legione nelle retrovie, come riserva.»

Silenzio.

«Siete con me?»

Victor si passò la lingua sulle labbra aride, nel polverone alzato dalla lunga colonna in marcia. Dovevano essere circa le undici del mattino, quando vide gruppi di cavalieri che risalivano la colonna in senso contrario.

«Devo dire che ti dona, Corax» disse guardando compiaciuto l’elmo dell’amico, sul quale, la sera prima, aveva disegnato due occhi minacciosi. «Un piccolo trucco per sembrare un po’ più alto e intimorire il nemico… almeno a distanza.»

Filopatros non ribatté.

L’esercito delle Gallie aveva lasciato la fortezza di Saverne prima dell’alba e si era diretto a oriente, verso il Reno, per poi puntare verso il meridione, dove gli esploratori avevano localizzato il grosso delle orde nemiche. Quando l’avanguardia guidata dai cornuti di Bainobaude, aveva aumentato l’andatura, facendo allungare pericolosamente la colonna, il Cesare aveva inviato una vessillazione di cavalieri dalmati a rallentare gli uomini di testa.

Quelli che stavano arrivando di gran carriera, però, non erano i dalmati. Victor vide che puntavano su di lui, o meglio sul dragone, sapendo che il Cesare delle Gallie era vicino alla sua insegna.

«Ci aspettano, nobilissimo. Sono schierati fuori dalle mura di Argentoratum.»

Il Cesare si fece portare una mappa e la stese a terra. L’esploratore indicò la posizione dei Germani, sulla sommità di un colle, poi il Cesare e Sallustio tracciarono linee di movimento sulla pergamena, seguendo i commenti dei comandanti riuniti intorno a loro.

«Osservate» disse il principe, indicando la mappa. «Cnodomario ha ammassato tutta la sua fanteria su questo colle. È in una posizione di vantaggio, certo, ma è segno che non ha molti guerrieri validi. Se avessi più uomini del mio avversario, allargherei il fronte per cercare di aggirarlo sulle ali… a patto di avere una prima linea forte.»

«Potrebbero esserci altre bande tra i boschi, qui sulla sinistra,» disse Valentiniano, che aveva scelto il partito della prudenza «pronte a colpirci sul fianco.»

«Per questo terremo una legione di riserva» disse Giuliano «in caso di sorprese. Tutta la cavalleria sarà invece sull’ala destra, dove non c’è vegetazione, per avere ampi spazi di manovra.»

Dopo aver concordato sui punti principali, fu di nuovo Valentiniano a parlare. «Dove collocheremo il campo?»

Stava intanto sfilando la legione dei primani. Gli uomini erano carichi e accaldati, avvolti da nuvole di polvere, ma andavano avanti.

«Ci sono diversi punti adatti» disse il Cesare «ma per me l’ideale è questo.» E indicò la città di Argentoratum, alle spalle dei Germani.

I suoi comandanti restarono un attimo muti, prima di rendersi conto delle sue intenzioni. «Attaccandoli ora, coglieremmo Cnodomario di sorpresa.»

Le reazioni si incrociarono e si scontrarono, tra i favorevoli, come Sallustio, Bainobaude e Nevitta, e i contrari, come Arinteo e Valentiniano, che avrebbero preferito avere il tempo di predisporre un campo.

«Se diamo loro il tempo di misurarci, possono prepararsi meglio. Se li inchiodiamo adesso su quel colle, saremo noi a dettare le condizioni» disse Giuliano.

Arinteo alzò una mano. «Perdonami, Cesare, ma come puoi chiedere ai soldati di andare in battaglia dopo che hanno marciato senza sosta per più di venti miglia, sotto il sole di agosto?»

«Non sarò io a chiederlo a loro, Flavio» rispose Giuliano. «Lo chiederanno loro a me.»

«Sono fiero di voi, uomini.» L’esercito era schierato davanti al Cesare nella gialla distesa di un campo di grano. «Avete marciato sotto il sole per ore, per arrivare di fronte al nemico. E il nemico è qui. Oltre questa collina, ci sono gli Alemanni. Sono molto più numerosi di noi e riposati.» Il Cesare parve riflettere, poi parlò come avesse davanti, singolarmente, ogni legionario. «So che il coraggio e la determinazione vi spingono con impeto verso il nemico, ma devo chiedervi di fermarvi.»

Un brusio di disapprovazione si alzò tra le file degli ufficiali.

«Non vi ho risparmiato negli ultimi giorni. Avete ancora forze per combattere? Con quest’aria rovente, la sete, la fame e la stanchezza dopo tanto cammino?»

Bainobaude prese a imprecare, imitato dai suoi uomini. I primani iniziarono a battere le aste delle lance sugli scudi, in segno di disapprovazione. I soldati volevano entrare in azione.

«Accampiamoci per la notte e domani, freschi e riposati, li staneremo da quel colle!»

Gli ufficiali protestarono, secondo il copione concordato con il Cesare, che cercava di calmarli. Poi dalle prime file venne il nitrito di un cavallo. Victor uscì dai ranghi in sella al suo stallone, davanti a tutti. Il draconarius levò l’asta del drago e urlò. «Mio Cesare, tu ci hai guidati fin qui, oggi. Ti abbiamo seguito, perché siamo il tuo esercito. E siamo pronti, perché siamo il tuo esercito. Altri al nostro posto hanno indietreggiato al primo segnale di battaglia, noi no. Tu ci hai insegnato, con l’esempio, cos’è il valore.»

Urla di approvazione si levarono dalle legioni.

«E noi vogliamo mostrarti che abbiamo compreso. Guidaci sulla via della gloria, e noi ti seguiremo! Ora

Giuliano lasciò che l’entusiasmo dilagasse come l’alta marea per tutto lo schieramento, prima di intervenire. «È questo che volete, dunque?»

Il boato dei “sì” parve alzarsi al cielo, fino a raggiungere l’Olimpo.

«E sia, questo sarà il giorno da tempo atteso, il giorno che laverà antiche macchie e restituirà gloria alla maestà di Roma. Schiaccerete i barbari per me?»

Da quel momento, non fu più il tempo delle parole.

Gli ufficiali fecero schierare i reparti. Sete, caldo e fatica erano scomparsi.

Il Cesare chiamò alla sua destra Victor, che fu pronto a raggiungerlo.

«Ti sei dimenticato la parte che diceva che eravamo protetti dagli dei.»

«Detto da me non lo avrebbero mai creduto, nobilissimo. Lo faremo aggiungere da quello che si occuperà di redigere il resoconto della battaglia.»

Giuliano serrò il sottogola dell’elmo e guardò il sole, in una muta preghiera. «Se oggi falliremo, saremo responsabili delle sorti dell’impero.»

Il protector annuì gravemente. «Se così fosse, saremo morti tentando una grande impresa. Per me è un onore essere qui al tuo fianco, nobilissimo.»

«Grazie, amico mio.»

Il Cesare diede di sproni e partì al galoppo, seguito da Victor e dai duecento cavalieri che dovevano proteggere il Cesare e il suo prezioso vessillo. Risalendo la collina, trovarono Sallustio.

«Si stanno muovendo?»

«Stanno facendo un gran baccano sulla collina, e ho visto muoversi dei gruppi» disse lo stratega.

Mentre il Cesare osservava i nemici, velati da fitta polvere, arrivò a spron battuto Nevitta.

«Guarda laggiù, mio Cesare» disse l’ufficiale, puntando il dito tra la massa dei Germani. «Vedi quell’elmo scintillante d’oro sotto a un gran pennacchio rosso? Pare che sia il loro capo, Cnodomario.»

«Possibile? Ma è a piedi, in mezzo ai fanti.»

«Poco fa c’è stato molto clamore, tra i fanti, che hanno smesso solo quando quel cavaliere, insieme a diversi altri, è smontato di sella per unirsi ai fanti. Lo hanno chiamato tra loro perché li guidi alla vittoria.»

«È tutta qui la tua sapienza bellica, Cnodomario?» gridò Giuliano. «Un rozzo sfondamento frontale? Vedremo.» Si rivolse ai suoi, lo sguardo deciso. «Nevitta, tu con i clibanari a destra, e spazzami via quei cavalieri. Dagalaifo, prendi la cavalleria leggera e portati sull’estrema destra, per impedire un accerchiamento. E tieni compatto il gregge!»

Giuliano chiamò poi Bainobaude. «Ho bisogno di te al centro, al comando dei cornuti. Ti affianco i brachiati e dietro di te i primani della Italica, pronti a intervenire. Non vacillare, la Gallia è nelle tue mani.»

Il tribuno annuì. «Li fermeremo, nobilissimo.» Bainobaude salutò con la spada. «Puoi dire ai milites della Italica che si riposino. Gli Alemanni non passeranno, e questa sera l’elmo di Gigas sarà tuo.»

«Ne sono certo.» Giuliano rispose al saluto, poi partì al galoppo verso la sinistra dello schieramento, per posizionare le coorti ausiliarie al limitare del bosco.

Draco aveva sete, ma dalla fiasca scesero solo poche gocce. Con un gesto di stizza, il franco la scagliò via. Filopatròs lo guardò e Victor ricambiò l’occhiata. «Questa notte berremo nel Reno, greco.»

«In mancanza di meglio…»

«Oppure ben più, nelle paludose acque dello Stige.»

«Lì precedimi pure tu, franco.»

Il protector rise, teso ed eccitato.

A uno squillo di trombe prolungato, gli uomini di Bainobaude si misero in movimento. I cornuti e i brachiati avanzarono al passo lungo la collina. Victor guardò a destra e in lontananza scorse, oltre la fanteria, la cavalleria pesante muovere verso il fronte nemico. Si volse a sinistra, ma la visione era offuscata dalla selva di lance della scorta del principe.

Sul fronte opposto, i Germani attendevano sotto il sole cocente. Volevano lasciare ai Romani la fatica della salita.

Le legioni della prima linea arrivarono ai piedi del colle e iniziarono a scalarlo, mentre Bainobaude urlava per mantenere compatto lo schieramento. Le prime file puntarono le lance e si coprirono con gli scudi, formando una lunga testuggine su tutta la linea. Il nome del Cesare delle Gallie salì come un ruggito dalle loro gole. Si muovevano bene allineati, seguiti dagli ausiliari e dagli arcieri, pronti a tempestare i Germani di frecce e giavellotti.

Il lamento dei corni da guerra diede il segnale agli Alemanni. Accompagnandosi con selvagge grida di guerra, si lanciarono in avanti, verso il centro della legione palatina dei cornuti.

Victor osservò di nuovo il polverone alzato dai catafratti, sulla destra dello schieramento. Erano più avanti rispetto al resto della linea del fronte, e stavano perdendo il contatto con la fanteria ausiliaria. Il Cesare se ne accorse e urlò a uno dei messaggeri di far muovere più velocemente gli uomini sulla destra.

Non appena i Germani si mossero, Bainobaude diede l’ordine di scagliare le plumbate. Il cielo si riempì di dardi luccicanti, che tracciarono una precisa parabola. I Germani alzarono gli scudi, ma vennero spinti disordinatamente avanti dalle file dietro. I proiettili furono inghiottiti dalla torma, e molti si conficcarono nelle schiene dei Germani, ferendoli mortalmente. La letale pioggia si esaurì quando i legionari finirono i cinque dardi in dotazione a ognuno, fissati all’interno dello scudo. Ma l’avanzata, nonostante le perdite, non si arrestò.

Dalle linee germaniche si alzò in risposta una pioggia di lance e di frecce. I cornuti si chiusero sotto gli scudi, mentre la gragnola di colpi si schiantava con un fragore sordo su di loro. Bainobaude ordinò di avanzare, di non fermarsi a nessun costo. Poi gli Alemanni si misero a correre, favoriti dal pendio, per rovesciarsi contro lo schieramento romano. La carica era sostenuta dai loro arcieri, che scagliavano migliaia di frecce.

I palatini si prepararono all’urto con il loro grido di battaglia. Subito dopo, le grida umane furono sovrastate dal violento cozzo di migliaia di lance e di scudi, e un frastuono assordante si levò dall’intera linea di combattimento.

Il fronte romano si fermò, mentre l’orda barbarica lo investiva come una tempesta. I cornuti accusarono il colpo e indietreggiarono di qualche passo, subito sostenuti dai rincalzi.

Un mare di polvere inghiottì tutta la prima linea. Comandi urlati, squilli di trombe, clangore di lame, nitrire di cavalli. Il caldo soffocante sembrava rallentare l’ondeggiare del gigantesco serpente del fronte. Anche gli arcieri della retroguardia dovettero proteggersi con gli scudi dall’improvvisa, violenta grandinata di proiettili.

Quando la pressione sulle prime file si fece insostenibile, gli arcieri ebbero ordine di operare in coppia, per tirare e proteggersi con gli scudi l’un l’altro. E con questa tattica, le retrovie dei Germani, in cui la maggior parte degli uomini non era protetta da elmi e corazze e si muoveva solo seguendo la massa, furono di nuovo investite da nugoli di frecce e giavellotti.

Attraverso un continuo via vai di messaggeri, il Cesare coordinava i movimenti delle sue forze, indicando dove spingere e dove fare spazio. Sallustio, dalla collina, segnalava qualsiasi spostamento nemico in lontananza.

Dopo un primo tentativo fallito di infrangere il muro di scudi, gli Alemanni ritornarono alla carica. La prima linea romana arretrò, sia pure di poco, e gli arcieri ripresero il loro tiro cadenzato. Urlando nella bolgia, Bainobaude incitò i palatini a tenere le distanze, e dopo il primo impatto la situazione cominciò a volgere a suo favore. Il caldo, la tensione e l’azione degli arcieri di entrambi gli schieramenti, insieme all’abilità dei cornuti e dei brachiati avevano portato i due schieramenti a fronteggiarsi a meno di dieci passi di distanza. I barbari sembravano aver perso coesione e contrastavano i Romani con le lance, colpendo e indietreggiando. Bainobaude doveva solo assorbire l’urto, in attesa che la cavalleria sulla destra caricasse i nemici sul fianco sinistro.

Il Cesare si muoveva di continuo tra i due schieramenti, sempre con il drago al seguito. Saliva sulla collina, da cui riusciva ad avere un quadro più chiaro del campo di battaglia, e scendeva poi a dare ordini di conseguenza.

Il ben più numeroso schieramento nemico, al contrario, era caotico e disorganizzato. Stando in mezzo ai suoi guerrieri per guidarli all’assalto, Cnodomario aveva lasciato la conduzione della battaglia all’iniziativa individuale dei vari capiclan. Non esisteva nessuna catena di comando e gli uomini nelle ultime file, ansiosi di combattere, premevano ciecamente contro chi stava davanti, spingendo le prime file a impalarsi contro le lance dei cornuti.

La legione di riserva si era fermata nei pressi del bosco, senza rispondere alle provocazioni dei gruppi di Germani che vi si erano acquattati. Sulla sinistra, la situazione era più o meno in equilibrio. Solo il centro dello schieramento aveva dovuto arretrare leggermente sotto l’enorme pressione dei Germani, che avevano però subito molte perdite.

I primani in seconda linea erano freschi e pronti a entrare in battaglia, non appena i catafratti di Nevitta avessero sfondato sul fianco destro.

Ma dov’era Nevitta?

Una nube di polvere inghiottì gli ausiliari della seconda linea. Giuliano si drizzò sulla sella per vedere meglio e spronò il cavallo in quella direzione, dopo aver inviato messaggeri a Bainobaude per esortarlo a resistere.

Perché stava accadendo qualcosa, sull’estrema destra dello schieramento, qualcosa forse di irreparabile.

Il principe e la sua guardia si spinsero in quella direzione, nell’aria ispessita dalla calura e dalla polvere, e subito scorsero dei cavalieri catafratti in fuga dalla linea del fronte, in preda al panico.

I brachiati della prima fila avevano arretrato per non lasciare il fianco scoperto al nemico, secondo gli ordini, e avevano mantenuto la formazione. Ma alla loro destra si apriva adesso un varco in cui si sarebbero potuti incuneare i cavalieri germani. Una carica decisa, e l’intera prima linea rischiava di crollare come una parete di sabbia.

Giuliano ordinò di far avanzare i reparti della seconda linea. Sotto la guida dei loro centenari i Batavi e i Regi superarono prontamente la distanza tra i due schieramenti, e nel frattempo il Cesare con la sua guardia si spostò sull’estrema destra. Tolse l’elmo per farsi riconoscere, costringendo i cavalieri in rotta a fermarsi.

«Cosa succede, soldato?» il Cesare prese per un braccio un cavaliere ferito «perché vi state ritirando?»

«Abbiamo visto sbandare la cavalleria leggera» disse concitato il cavaliere «così abbiamo affrontato il nemico, ma tra i cavalieri ci sono parecchi germani appiedati che vanno sotto ai cavalli per sgarrettarli, o aprirgli la pancia a colpi di spada. E non appena il cavaliere cade, lo massacrano.»

«Dov’è Nevitta?»

«È stato ferito, poi non lo abbiamo più visto.»

Intorno a loro si era raccolto un gruppo di cavalieri. Giuliano fece caracollare il cavallo, rivolgendosi a tutti. «Dove pensate di fuggire, soldati?»

Un tribuno si fermò a sentirlo, mentre il suo squadrone si radunava disordinatamente intorno a lui. I cavalieri riconoscevano il Cesare e si bloccavano.

«Siete sicuri di aver salva la vita, fuggendo?»

Arrivarono altri catafratti, che si raccolsero sotto l’insegna del drago. E poi sopraggiunse Dagalaifo, che aveva radunato buona parte dei suoi.

Fu allora che Giuliano sguainò la spada e indicò i brachiati. «Guardateli! Continuano a combattere, contro nemici ben più numerosi di loro. Guardateli, prima di abbandonarli!»

«Il Cesare ha ragione» gridò Dagalaifo. «Cavalieri, a me. Riordiniamo le fila, e pronti a caricare. Dobbiamo respingere gli Alemanni, a ogni costo!»

Sotto lo sguardo del Cesare gli uomini parvero riprendere coraggio e lo schieramento dei catafratti si ricostituì. Dagalaifo indicò la mischia e lanciò i suoi all’assalto con un grido di guerra.

«Nobilissimo, la prima fila ha ceduto!» Urlò un messaggero di Sallustio, stravolto in viso. «Un gran numero di nemici si è riversato nella breccia.»

«I primani dell’Italica!» gridò Giuliano.

«Sallustio ha già ordinato all’Italica di avanzare» rispose il messaggero, ma il principe stava già correndo sul posto.

La terra che tremava sotto i cavalli della guardia annunciò ad Arinteo l’arrivo di Giuliano. A capo scoperto, ansante, il principe si fermò per qualche istante a valutare la situazione. Era un momento cruciale.

«I cornuti hanno ripreso terreno, nobilissimo» gridò Arinteo, sovrastando il frastuono. «L’ala sinistra avanza, premendo sull’ala destra degli Alemanni. Bainobaude è ovunque, a guidare i suoi.»

Giuliano era rapito dalla visione dei primani che respingevano con impeto i Germani. Quanto agli ormai esausti brachiati, dalle loro fila si levò un furibondo ruggito e presero ad avanzare, schiacciando i Germani contro il fianco del colle.

Gli Alemanni si battevano con ardimento. Frecce nel cielo, lame contro scudi, lance nei corpi… atti di coraggio, orgia di follia omicida. Ma al di là del coraggio, l’addestramento e la tattica stavano per avere la meglio sulla forza e sull’impeto disordinato degli Alemanni.

Giuliano si spinse nella mischia per sostenere l’offensiva. Vederlo lì, senza elmo, accanto al suo vessillo a pochi passi dalla linea del fronte diede vigore agli uomini, e li incoraggiò nell’ultimo e decisivo sforzo.

I Germani, che avevano sfondato le linee romane con tanto impeto, persero energia e vacillarono. Tentarono di indietreggiare, ma a impedirlo fu la calca che avevano alle spalle. Erano sempre più ammassati, con sempre meno spazio per muoversi e combattere.

Il Cesare stesso piombò con la sua guardia su un gruppo di guerrieri, che alla sola vista dei protectores si diedero alla fuga. I primani li assalirono con ferocia e, non appena i nemici voltarono le spalle, la battaglia si trasformò in massacro.

Come i cerchi nell’acqua dopo un sasso nello stagno, il panico si allargò da un uomo all’altro. L’orda dei combattenti divenne una folla in fuga, incalzata dai legionari rabbiosi.

«Buttiamoli nel Reno!»

Draco rimase attonito a guardare quello scenario, terribile e grandioso. I palatini non avrebbero chiesto di meglio, dopo quella giornata infernale.

«Tenete l’allineamento! Tenete l’allineamento!»

Il Cesare gridava con gli ultimi sprazzi di voce. Era necessario evitare che gli uomini si spingessero troppo in avanti, con il rischio di disperdersi. Ogni comandante che riusciva a farsi udire ripeteva gli ordini del Cesare, ma l’incapacità di reagire degli Alemanni in preda al panico era un invito troppo allettante a inseguirli.

Esausto e assetato, il giovane condottiero controllò la situazione. Sulla destra, la legione di riserva tenuta ferma per tutto il tempo avanzava lentamente nella boscaglia. Gli Alemanni avevano abbandonato la posizione anche su quel fronte, cercando una via di fuga nella macchia.

Sulla collina occupata fino a poco prima dai Germani, vari gruppi di legionari si staccavano dalle loro unità, correndo anche dei rischi, per inseguire i fuggiaschi. Né lui né nessun altro comandante li avrebbe potuti trattenere. Molti di quei soldati erano Galli e quello era il giorno della loro vendetta. Volevano sangue, e l’avrebbero avuto. Per un attimo, il Cesare si chiese cosa sarebbe accaduto, se non fosse riuscito a fermare la fuga dei catafratti. Aveva deciso fin dal mattino che se la battaglia si fosse risolta in una disfatta, e il suo esercito si fosse dissolto nella furia di un giorno sventurato, non aveva alcun senso sopravvivere. Ricordò le parole di un generale romano ai suoi soldati, riportate in una lettera di Seneca: “È necessario andare laggiù, ma non è necessario tornare”.

«Grazie, potente Helios» bisbigliò il giovane, alzando gli occhi verso il sole al tramonto. Poi spronò il cavallo, alla ricerca del generale Nevitta.

Mentre lo seguiva, Draco cavalcava tra le vestigia della carneficina ormai conclusa. La morte e la distruzione, conseguenza di tutte le battaglie. La scia di corpi straziati arrivava fino al corso del Reno, lento e immutabile a mezzo miglio di distanza. La cavalleria doveva aver inseguito i nemici fino al fiume, per poi risalirne il corso fino a chiudere in una morsa gli Alemanni già incalzati dalle legioni. Un massacro.

Il furore della mischia era un’eco lontana, il fragore della battaglia risuonava nell’anima e il silenzio era ormai lamento.

Draco si addentrò nel fiume, si chinò a sciacquarsi il volto e bevve, bevve fino a sazietà, poi si lasciò cadere in ginocchio. Alzò lo sguardo, la superficie del Reno era una distesa di pietre preziose nella luce del tramonto, infestata da cadaveri inerti e da vivi che ancora cercavano la salvezza verso l’altra sponda. Il corpo senza vita di un guerriero, con il volto immerso nell’acqua, gli passò accanto. Poco più avanti, uno dei protectores del Cesare lo tirò a riva con la lancia, per vedere se avesse addosso qualcosa di valore. Non trovando nulla imprecò e lo spinse via con una pedata.

«E bravo franco» gli disse Filopatròs, apparso sulla riva, l’arco in pugno. «Avevi ragione a dire che avremmo bevuto nel Reno, oggi.»

Lo schiocco e il sibilo, ormai famigliari. Draco seguì la traiettoria della freccia. In mezzo al fiume, un germano aggrappato a un tronco urlò e allargò le braccia. Il tronco proseguì da solo. «Uno di meno.»

Il franco fece una smorfia. «Passato dal Reno allo Stige, direttamente.»

Filopatròs incoccò una seconda freccia. «Mi piacerebbe avere Gigas, davanti al mio arco.»

Passarono veloci due messaggeri, inzaccherati non meno dei loro cavalli. Filopatròs, infastidito, mancò il bersaglio e prese un secondo dardo. «Mi secca sprecare due frecce, per un solo bersaglio.» Schiocco, sibilo, morte.

Draco osservò il Cesare ascoltare i messaggeri mentre parlava con Nevitta. Un medico si stava occupando dell’ufficiale, coperto di ferite. Gli avevano ucciso il cavallo e i suoi lo avevano creduto morto, invece aveva continuato a battersi da solo. Per Flavio Nevitta la battaglia di Argentoratum era solo una serie di cicatrici in più, e nient’altro.

Giuliano scorse Draco e gli fece un cenno. «Prendi metà della scorta e segui questi due messaggeri. Ci sono un po’ di Alemanni che tentavano di fuggire con delle barche, in un tratto paludoso a mezzo miglio da qui. Servono dei cavalieri per stanarli.»

«Bene, mio Cesare.»

«Ma che nessuno insegua gli Alemanni sul fiume. Non voglio perdere uomini di valore a battaglia già vinta.»

Il centenarius dei cornuti aveva una faccia nera di polvere e sudore incrostati, dopo una giornata passata a marciare e combattere. Indicò a Victor una collinetta ricoperta di vegetazione. «Li abbiamo spinti tra quegli alberi. Sono in parecchi, ma la maggior parte sono feriti e male armati. Noi aggireremo il colle da occidente e cercheremo di spingerli verso il fiume. Voi tenetevi nascosti dietro a quegli alberi e, non appena li vedrete, dategli addosso.»

«Va bene, centenarius

«Credo che in mezzo a loro ci sia anche Cnodomario» disse l’ufficiale. «Attenti, perché non si farà prendere facilmente.»

Victor guardò Filopatròs, e sorrise.

«Di’ un po’, draconarius, io ti ho già visto. Qual è il tuo nome?»

«Il mio nome è Victor, centenarius

«E lo hai visto e sentito oggi» ghignò Filopatròs.

Il centenario lo guardò di traverso. «È vero, sei quello che ha fatto quel bel discorso, oggi. Sei uno di quelli che parlano e poi mandano a morire gli altri?»

«No, ma non intendo discuterne con te.»

«Siamo in due.» La voce dell’ufficiale era arrochita da una giornata passata a urlare. «Il punto, amico Victor, è che voglio quel bastardo di Gigas, e lo voglio vivo. L’ho visto combattere tra i suoi come un demone, e mietere i miei compagni come spighe di grano. Quindi lo voglio io. Chiaro?»

Victor annuì, chinando il capo. «Se eri al centro dello schieramento con Bainobaude, oggi, te lo sei meritato. Vi siete battuti bene.»

«Quel pazzo… a momenti ci fa ammazzare tutti.»

«Però non avete ceduto.»

«No… mi dispiace solo che lui non possa festeggiare.»

«Che vuoi dire?»

«Non lo sapete? Quando i Germani hanno attaccato, Bainobaude si è preso una lancia in una spalla. Se l’è levata e ha guidato il contrattacco, per chiudere il varco. Solo che non riusciva più a tenere lo scudo, e un gran pezzo di merda di germano gli ha aperto in due la faccia con un colpo di spada, così» disse, mimando il colpo che era stato fatale al coraggioso comandante.

Victor chinò il capo. Era un vero soldato, Bainobaude, e ne avrebbero sentito la mancanza.

«Ci siamo massacrati anche per quelli come voi, che non hanno fatto altro tutto il giorno che correre avanti e indietro a cavallo, quindi Gigas spetta a noi.»

«Come posso riconoscerlo, in mezzo agli altri?»

«Vedrai che lo riconosci, è il più alto di tutti, un colosso, biondo e con il collo di un toro. Portava un elmo dorato con un enorme cimiero rosso ed era armato di giavellotto.»

«Bene, speriamo di trovarlo, allora.»

Victor voltò il cavallo, ma il centenarius gli prese le briglie. «Non cercare di fottermi, draconarius… Altrimenti t’ammazzo, capito?»

Victor lo fissò, poi partì al trotto, seguito dai protectores che il Cesare gli aveva affidato. Raggiunsero un filare di pioppi da cui vedevano i canneti vicino al fiume.

«Avete sentito il centenarius? Gigas è suo!»

«Hai in mente di fotterlo, eh?» chiese Filopatròs.

«No, greco, è solo che la preda, sul campo di battaglia, è di chi per primo la trova.»

Gli uomini approvarono, e qualcuno ghignò.

«E se è così, Gigas lo prenderemo noi protectores, e sarà il nostro omaggio al Cesare delle Gallie per questa grande giornata.»

«Tu sei matto.»

«Zitto, graeculo, e prepara quella moneta d’oro. Stai per perdere la scommessa.»

Passi di corsa nella vegetazione, respiri ansanti. Qualcuno che cercava di raggiungere il fiume attraverso la palude, dove correre era tutt’altro che facile.

«Eccoli. Aspettate… Ora!»

Usciti allo scoperto, i Germani scorsero la fila di cavalieri comparire all’improvviso tra gli alberi. Si misero a correre verso l’unica via di salvezza: il fiume.

Il tonfo degli zoccoli nel fango era un sordo tambureggiare. Filopatròs incoccò una freccia e tese l’arco, Draco prese uno dei giavellotti dalla faretra alla sella e puntò sugli Alemanni che scendevano di corsa dalla collina.

I cavalli solcarono gli acquitrini tra alti schizzi d’acqua. Filopatròs spedì una freccia nella gola di un guerriero ferito, che cercava di infilarsi tra i canneti della riva.

Victor ne trafisse un altro mentre chiedeva pietà, le braccia alzate. Inseguì un ragazzo che avanzava a fatica, fango e acqua fino alle ginocchia, e scagliò il giavellotto. Il ragazzo sprofondò nell’acquitrino, il manico del giavellotto che spuntava dalla schiena come un albero senza rami.

Victor passò oltre e tirò un secondo giavellotto, ma mancò il bersaglio. L’alemanno recuperò la lancia, e caricò. Victor fece impennare il cavallo, ma fu sbilanciato e cadde all’indietro. Finì nell’impasto di acqua, erbe e fango, e un attimo dopo si trovò accanto il barbaro, con una freccia del greco nella spalla.

Si tirò su, sputando e soffiando. Il barbaro era ancora vivo. Draco gli spinse la testa nella viscida poltiglia, fino a quando non smise di muoversi.

Gli altri protectores, intanto, stavano falciando il resto dei fuggiaschi, sordi a qualunque dichiarazione di resa. Di Cnodomario, tuttavia, non c’era traccia. Forse aveva visto i cavalieri da lontano, e si era nascosto.

Victor rimontò in sella ed estrasse la spada, cercando altri fuggiaschi tra i canneti.

Di colpo udì un fruscio, e si trovò circondato da tre o quattro germani. Si aggrapparono alle briglie del cavallo, cercando di disarcionare il cavaliere. Disperati, che volevano il cavallo per fuggire.

L’animale si impennò di nuovo, ma il franco riuscì a restare in sella. Tirò un calcio in faccia al più vicino. Un germano dai lunghi baffi cercò di colpirlo con uno scramasax, e Victor gli spaccò il cranio con un violento fendente. Ebbe un attimo di panico quando uno di loro, con un agile balzo, si issò sulla groppa del cavallo, alle sue spalle. L’alemanno ebbe il tempo di agguantarlo alla gola, poi sussultò, ed emise un rantolo. Il cavallo scartò nervoso, e Victor sentì l’uomo scivolare giù.

Si volse. L’alemanno era a terra, gli occhi sbarrati, la punta di una freccia che fuoriusciva dalla gola. Il debito di riconoscenza con il greco stava aumentando…

Filopatròs e gli altri protectores apparvero nello stesso istante di un altro gruppo di sbandati in fuga. Victor alzò la spada, pronto a ordinare la carica…

«Fermi!» gridò una voce possente, gonfia di autorità.

Un gigante si fece largo tra i guerrieri di fronte a Draco. Venne avanti senza alcun timore, fino ad avvicinarsi al protector. Era davvero enorme, con quel collo taurino. I lunghi capelli biondi, pieni di fango, circondavano un volto costellato di lividi e graffi, ma non per questo meno nobile.

Cnodomario. Gigas.

Di fronte a Victor c’era il re degli Alemanni, il torace chiuso in una corazza ammaccata in più punti. Teneva le mani alzate in segno di resa.

«Ho sentito che stai cercando me.» Aveva parlato nella sua lingua.

Victor rispose, nello stesso idioma. «Sì, se sei Cnodomario.»

«Sono io. Tu chi sei?»

«Sono Victor, figlio di Klothar di Merseen, draconarius di Flavio Claudio Giuliano, il Cesare delle Gallie.»

«Un franco.»

«Sì.»

«Conosco Merseen.»

«Lo so, fosti tu a darla alle fiamme, una ventina d’anni fa. Mio padre riuscì a portarmi da questa parte del fiume, mia madre invece non ci arrivò mai.»

«Solo i più forti sopravvivono, Victor figlio di Klothar di Merseen.»

Victor tirò su con il naso e annuì guardando il cadavere del germano che aveva tra i piedi. «Pare proprio di si. Ora cammina, ti porto dal Cesare delle Gallie.»

Montò in sella e sentì una fitta alla coscia. Si accorse che la gamba sanguinava. Lo scramasax del germano lo aveva colpito, ma nella concitazione del combattimento non se ne era accorto.

Il borioso centenarius avrebbe avuto il fatto suo. Victor scelse una decina di cavalieri e ordinò agli altri di continuare la caccia all’uomo. Lui aveva la sua preda, e intendeva portarla in gabbia.

Al riparo del canneto, il gruppo si mise in cammino.

In lontananza i Romani esultavano, acclamando “Giuliano imperatore”.