IV
DRACO, L’OMBRA DEL CESARE
Fine novembre del 355 d.C.
Victor gettò il denaro sul bancone e guardò l’oste bene in faccia. «La prendo per tutto il giorno.»
Poi si voltò verso Murrula. «Metti un mantello. Fa freddo, fuori.»
Di lì a poco il cavallo del franco galoppava lungo la via del meridione, lasciandosi alle spalle i torrioni di Mediolanum. Victor sferzava l’animale, mentre Murrula si stringeva con forza a lui. Quando furono fuori città il germano abbandonò la strada lastricata e tagliò per un campo incolto lungo un fiume. Di colpo lasciò andare le redini e allargò le braccia, le sue urla si intrecciavano agli strilli divertiti della ragazza, come i loro capelli si intrecciavano nel vento. Dopo un po’ smise di spronare e il cavallo rallentò.
«Dove mi stai portando, soldato?»
«Non lo so, è il mio cavallo che ci sta portando. Non sono mai stato qui.»
Raggiunsero il limitare di un bosco e Victor tirò le redini. Scese da cavallo e aiutò Murrula a fare lo stesso, poi prese un’accetta dalla bisaccia, tagliò un po’ di rami e li sfrondò. Depose una coperta sopra le foglie e con i rami nudi accese il fuoco. Poi, sotto lo sguardo stupito di lei, dispose sulla coperta la carne, le focacce, il pane speziato, le uova, i fichi secchi e l’uva passa.
«Dove hai preso tutte queste meraviglie?»
«Nelle cucine del palazzo imperiale.»
«Le hai rubate?»
«No» disse Victor. «Lavoro per il padrone di casa.»
Murrula rise, sentendo chiamare così il Divino Augusto, poi diede un morso a un fico secco. Chiuse gli occhi e assaporò quel gusto sconosciuto. «Non ho mai mangiato nulla di simile.»
Lui le fece cenno di sedersi e le offrì un pezzo di formaggio intinto nel miele.
«Perché tutto questo, Victor?»
«E perché no?»
Lei parve riflettere, poi addentò con grazia il boccone e si passò la lingua sulle labbra, fissandolo. «Così mi vuoi tutto il giorno, eh soldato?» Gli si avvicinò a quattro zampe, come un felino. «Devi avere molta fame» gli sussurrò, mordendogli piano il lobo di un orecchio. L’uomo le sorrise e la tirò a sé. Murrula si mise a cavalcioni su di lui, poggiando le mani sugli avambracci duri come legno.
«Avanti, soldato» lo incitò «mangiami.»
Gli cercò le labbra tra la barba bionda, le lambì con la lingua. Victor le passò la mano tra i capelli corvini e la baciò con forza. Murrula ebbe un fremito e il suo corpo tremò, qualcosa di sconosciuto, come il gusto di quel frutto. Costretta a vendersi per il profitto di qualcun altro, era stata posseduta da molti uomini, ma sempre come un oggetto, mai come una donna. Ricordava solo rari baci, e tutti con un vago senso di disgusto. Perché con quell’uomo le sembrava diverso? Non era solo attrazione fisica per quel corpo così virile. Nessuno le aveva dato quella sensazione che le scaldava il cuore, quel desiderio di lasciarsi andare alla passione.
Si strinsero avvolti nei mantelli, accanto al calore del fuoco. Victor l’accarezzò, le baciò la fronte, i capelli, gli occhi, assaporando ogni prezioso istante. Murrula sorrise, invasa da un piacere nuovo. Tra le sue braccia si sentiva diversa da quello che era costretta a essere ogni giorno. Lo baciò ancora, e poi ancora, desiderando che quel momento non finisse mai.
Victor condusse il cavallo fuori dalle scuderie, nella fredda caligine dell’alba del primo giorno di dicembre. Controllò i finimenti e le bisacce, allacciò il sottogola dell’elmo, montò in sella e si avvolse nel mantello. Per un attimo chiuse gli occhi e sentì il calore di Murrula. Il giorno prima erano rimasti insieme fino a quando il buio e il freddo l’avevano avuta vinta. Si erano amati, avevano riso, mangiato e bevuto. Attimi di pura felicità. Poi era giunto il momento di ricondurla alla taverna. Sulla via del ritorno il viso di Murrula la bruna era tornato a essere malinconico, come il primo giorno in cui si erano incontrati.
Un servitore gli passò lo stendardo del drago, Victor agganciò il fermo dell’asta alla sella e andò a schierarsi con gli altri cavalieri nel piazzale. Una voce gli diceva di andarsene, di tornare da lei e portarla via da quella bettola schifosa, e perché no di affrancarla, per averla solo per sé. Tranne il fatto che non aveva più un soldo, e anche per questo aveva accettato una nuova missione.
Incrociò lo sguardo di Dagalaifo, alla testa del drappello di cavalleria. Il germano portava un elmo e un’armatura nuovi di zecca, e gli occhi chiari luccicavano di impazienza.
«Di nuovo pronti per la guerra, amico franco!»
«Così pare, germano. Mi chiedo se i nemici siano solo di fronte.»
Dagalaifo si mise a ridere, poi tracannò un lungo sorso di idromele dalla borraccia.
Victor guardò gli uomini schierati nel cortile, una sessantina di cavalieri e circa trecento fanti. Doveva essere l’avanguardia dell’esercito, pensò.
Giuliano scese la scalinata del palazzo poco dopo. Coperto da un’armatura, era seguito da presso da Filopatròs e da un altro protector. Accanto al giovane Cesare c’erano il biondo Flavio Arinteo e Nevitta, l’ufficiale di cavalleria sfregiato, entrambi con la mano sul pomo della spada. Dietro, il codazzo del seguito, con il medico Oribasio e una sfilza di ciambellani, maggiordomi e servitori, gli uni più affannati degli altri.
Giuliano era furioso, una furia che trasudava dagli occhi arrossati. Aveva da poco scoperto che gli uomini schierati nel cortile non erano l’avanguardia, ma l’intero esercito destinato a liberare la Gallia. Le legioni che gli erano state assegnate al momento erano dislocate in altri punti dello scacchiere imperiale, e avrebbe dovuto aspettare per averle. O forse non le avrebbe mai avute.
Nelle ultime tre settimane Flavio Claudio Giuliano aveva perso la maggior parte dei poteri acquisiti nel salire al rango di Cesare, e più d’uno dei componenti del suo folto “seguito” aveva provato un certo piacere maligno, nel vederlo subito scivolare verso il basso.
Pochi giorni dopo la nomina, l’imperatore Costanzo aveva dato in moglie a Giuliano sua sorella Elena. Victor aveva assistito alla cerimonia nella Basilica vetus, constatando che le voci sull’aspetto di Elena erano veritiere. La sorella prediletta dell’imperatore aveva le stesse fattezze dell’illustre padre Costantino il Grande: occhi grandi, labbra sottili e collo taurino. Dentro di sé, Victor si era rallegrato della sua situazione e della libertà di cui godeva. Poteva andare ovunque e magari incontrare una donna come Murrula. Non avrebbe mai sopportato di aver vicino, o ancor peggio nel letto, una matrona con la faccia di Costantino il Grande.
La cerimonia era stata sfarzosa, lunga ed estenuante. Dopo il matrimonio, i contatti tra Giuliano e l’imperatrice Eusebia si erano fatti più frequenti. Spesso la sovrana andava a fargli visita nei suoi appartamenti, dato che a lui era in pratica negato l’accesso a tutto il resto del palazzo. Subito dopo la nomina, infatti, l’ala riservata al giovane Cesare era stata circoscritta, avvolta in una sorta di recinto invisibile. Ma il divieto non valeva per l’imperatrice, che poteva andare ovunque desiderasse.
Victor continuava a segnalare ogni movimento a Eusebio, che sembrava sempre già al corrente di ogni cosa. E il referendario era sempre più convinto che la maggior parte della scorta di Giuliano fosse composta da spie e potenziali sicari ognuno dei quali, all’insaputa dell’altro, passava costantemente informazioni ai due veri sovrani incontrastati: Eusebio e Paolo Catena. Anche lui avrebbe agito così, se fosse stato il capo dello spionaggio imperiale.
Dopo il matrimonio, erano iniziati i preparativi per la partenza del Cesare per le Gallie. Giuliano aveva affidato ufficialmente a Victor il drago, simbolo dell’autorità imperiale, e aveva continuato ad addestrarsi al combattimento con più determinazione, ma nel frattempo il suo ruolo veniva via via ridimensionato. Non venne mai invitato alle quotidiane riunioni del consiglio di stato che si tennero in quei giorni. Chiese più volte un rapporto sulla situazione generale delle Gallie, ma la richiesta cadde nel vuoto. Poi furono nominati un questore e un prefetto per la Gallia sui quali Giuliano non aveva alcuna autorità, perché rispondevano solo a Costanzo. Per finire, Ursicino fu rimpiazzato al comando dell’armata settentrionale da Marcello, generale notoriamente fedele all’imperatore.
E per evitare che il Cesare potesse concedere elargizioni per attirare i favori dei soldati, gli venne proibito di accedere ai fondi del tesoro e gli furono imposti limiti di spesa rigidi, che toccavano anche le forniture per i pasti giornalieri. Flavio Claudio Giuliano era solo un vessillo da sbandierare in Gallia, alla testa di un seguito di armati, per mostrare a quelle genti che l’imperatore aveva a cuore la loro sorte. Fu dunque con le più nere aspettative che Victor e gli altri si misero al passo dietro al Cesare, per uscire dal cortile del palazzo.
L’imperatore Costanzo e la sua scorta a cavallo, tre volte più numerosa dell’intero “esercito delle Gallie”, attesero gli uomini di Giuliano al Foro e dopo un breve cerimoniale li scortarono per un lungo tratto, lungo la via che li avrebbe poi condotti a occidente in direzione di Augusta Taurinorum.
L’imperatore e il Cesare percorsero fianco a fianco la via che traversava la monotona pianura. A mezzogiorno fecero una sosta nei pressi di una piccola cappella votiva sorta intorno a una vecchia ara compitale, un’ara all’incrocio di vie, dove i viandanti potevano sostare e dedicare un pensiero alle divinità dei Lari. Costanzo e Giuliano vi entrarono da soli, seguiti poco dopo dagli uomini del seguito. Facendo buon viso a cattivo gioco, anche Victor li seguì.
Il viaggio proseguì fino a una stazione di posta dopo Ticinum, dove i due condottieri si separarono senza neppure una stretta di mano. Costanzo dichiarò che i governatori avrebbero fornito alla colonna tutto il necessario e che l’esercito per la controffensiva di primavera si sarebbe radunato a Vienne, eletta a base per la grande rivincita di Roma sugli invasori germanici. Concluse dicendo che lo stato era grato a Giuliano per l’impegno che si era assunto e a cui doveva ora tenere fede, liberando le Gallie. Poi l’imperatore tirò le redini per volgere il cavallo e riprese la via per Mediolanum con il suo seguito. Giuliano rimase qualche istante a guardarlo mentre si allontanava, sforzandosi di rimanere impassibile.
Non si sarebbero mai più rivisti.
Il giovane Cesare guardò in faccia i suoi sessanta cavalieri e diede il segnale della partenza. Intorno a lui, a formare uno scudo di protezione, gli ufficiali Dagalaifo e Flavio Nevitta, seguiti da Victor e Filopatròs, che stavano diventando inseparabili.
Quando un raggio del freddo sole autunnale, che cominciava a calare, strappò un bagliore all’elmo di Nevitta il Cesare finalmente parlò. «Forse non lo sapete, amici miei, ma potremmo avere noie con le autorità. Da come stiamo in silenzio a osservare il sole già da un paio d’ore, un estraneo potrebbe scambiarci per seguaci di Helios.» Nevitta si lasciò scappare una risatina scettica. «Aristotele» continuò il Cesare, rivolgendosi a Victor «afferma che ogni uomo nasce da un uomo e dal Sole. Ma il Sole è solo il dio visibile, una sorta di essere che fa da mediatore tra l’immensità del dio invisibile e noi. Capite cosa intendo?»
Victor sorrise e scosse il capo. Non aveva capito una parola.
Giuliano continuò a fissarlo fino a che il franco non lo guardò a sua volta. «Draconarius, tu che parli dell’immensità del Creato per insegnarmi la scherma, conosci questa teoria?»
«No, Cesare.»
Giuliano sorrise. «Sei forse un seguace di Mitra, Victor? Questa mattina pareva non ti importasse di entrare in quella cappella.»
Il protector negò, imbarazzato, ma il Cesare insistette. «Non ci sarebbe nulla di male, sei un soldato e i seguaci di Mitra praticano virtù tipiche del soldato come il coraggio e la forza. Incoraggiano le buone azioni, più che la contemplazione.» Giuliano tornò a guardare il sole. «La purificazione dei peccati, per loro, richiede ben più di qualche preghiera in adorazione dei morti.»
Che il giovane Cesare ammettesse la possibilità di praticare altri culti religiosi suonava strano e inquietante. Nevitta non reagì, come se non avesse sentito, mentre Filopatròs, Dagalaifo e lo stesso Victor guardavano Giuliano come se fosse impazzito. Simili discorsi gli sarebbero costati la testa, in presenza di Costanzo. L’imperatore era profondamente cristiano e seguace dell’arianesimo, tanto da averlo proclamato religione ufficiale dell’impero. Aveva emanato leggi che proibivano i sacrifici agli antichi dei e ordinavano la chiusura dei templi. In realtà erano ancora molti coloro che continuavano a professare di nascosto gli antichi culti. I templi fuori dalle mura delle città erano stati risparmiati, anche se, abbandonati a se stessi, erano destinati al declino.
L’imperatore chiudeva un occhio sull’intolleranza nei confronti di chi non era cristiano, ma al tempo stesso rinviava provvedimenti più drastici come le persecuzioni, di cui spesso si vociferava, contro i fedeli degli antichi culti. Tutti comunque davano per scontato che almeno alla corte di Costanzo fosse necessario essere non solo cristiani, ma anche seguaci di Ario, per sopravvivere. Nevitta approfittò di un momento di silenzio. «Nobilissimo, a proposito del sole, è ora di preparare il campo per la notte.»
«Giusto» disse il giovane Cesare «dai pure le disposizioni.» Poi si rivolse a Victor. «Non dimentichiamo la lezione di scherma, draconarius. Andiamo.» E subito spronò il cavallo, cogliendo di sorpresa gli uomini del seguito. Victor fu il primo a mettersi sulle sue tracce, seguito un attimo dopo da Filopatròs, mentre gli altri si guardavano incerti.
Giuliano aveva aumentato l’andatura, lanciando il cavallo al galoppo e aveva lasciato la strada principale per addentrarsi in un boschetto di pioppi. Victor lo seguiva a vista, e Filopatròs seguiva Victor. Raggiunsero i ruderi di un cascinale abbandonato e poco oltre videro Giuliano, che li stava aspettando in mezzo a un campo di sterpaglie. Victor rallentò la corsa del cavallo e si fermò a pochi passi dal Cesare.
«Tu puoi andare, Filopatròs.»
Il greco, che li aveva appena raggiunti, ebbe un momento di esitazione. «Mi è stato ordinato di rimanere sempre al tuo…»
«Davvero?» lo interruppe Giuliano. «E da chi?»
«Come membro della tua guardia, nobilissimo Cesare, ho ricevuto la consegna di non lasciarti mai solo.»
«Questo l’ho capito, greco, quello che voglio sapere è chi ti ha dato la consegna.»
«Flavio Arinteo, nobilissimo.»
«E chi comanda questo ridicolo esercito? Lui o io?»
«Tu, certo, ma…»
Giuliano lo guardò dritto negli occhi. «Puoi andare, Filopatròs.» Poi diede di sprone e partì, seguendo un filare di alberi che saliva dolcemente lungo una collina.
«Fa’ come ti ha detto, greco» disse Victor. «Resto io con lui.»
Pur a malincuore, Filopatròs riprese la via del ritorno, mentre il protector seguiva Giuliano.
Giunto sull’altura, il giovane snudò la spada e si voltò verso Victor. «In guardia!»
Senza lasciare lo stendardo con il drago, il franco sguainò a sua volta e salutò con la spada.
«Devo imparare a combattere, perciò non voglio essere avvantaggiato. Pianta quell’asta nella terra.»
«Io devo imparare a combattere reggendo il tuo drago, Cesare. E non voglio essere svantaggiato, quando mi troverò in battaglia.»
Giuliano fece impennare il cavallo e Victor intravide il suo sorriso sotto l’elmo. Poi il giovane caricò deciso il suo istruttore e menò un primo fendente. Ferro contro ferro, le lunghe spade che vibravano. Victor voltò il cavallo e dovette parare un altro attacco fulmineo, e poi un altro ancora. Per la prima volta vide accendersi negli occhi di colui che fino a poco prima era solo uno studente di teologia una rabbia nuova, che si riversava nella forza con cui colpiva. Victor si disimpegnò e tirò un paio di fendenti subito parati, ma i suoi colpi non andavano a fondo quanto quelli di Giuliano. Ancora il rumore del ferro, ancora un fendente e una parata. Continuarono fino a sentir scorrere il sudore sotto le corazze, nonostante il freddo pungente.
Giuliano si fermò a riprendere fiato ed esaminò la lama della sua spada, dal filo intaccato in più punti. «Almeno questa me l’hanno data vera» disse in tono risentito, poi la scagliò a terra, dove rimase conficcata a oscillare.
Il franco rinfoderò la sua arma e si tolse l’elmo, per asciugare il sudore nell’aria fredda. Giuliano lo imitò, poi smontò da cavallo e appoggiò l’elmo sul manico della spada. Squadrò Victor dal basso. «Visto che proteggi il sacro emblema del Cesare» disse sorridendo «d’ora in poi sarà questo il tuo nome: Draco.»
«Per me è un grande onore, nobilissimo.»
«Aspetta a dirlo. Sono cresciuto sapendo che tutti, intorno a me, volevano vedermi morto.» Giuliano passò a Victor le redini del cavallo, per poi incamminarsi lungo la cresta della collina. «E devo ancora scoprire se tu sei davvero diverso dagli altri.»
«Non è prudente che ti allontani da solo, Cesare.» Victor balzò a terra.
«Vai a farti fottere, Draco. I germani più pericolosi da qui al Reno siete tu, Dagalaifo e Nevitta. E dovreste essere dalla mia parte, se non m’inganno, giusto?»
Il franco rise, confuso e imbarazzato.
«E se non siete con me, ma contro di me, che aspettate? Eseguite la missione, seppellitemi e finiamola con questa farsa del Cesare delle Gallie!»
Il sorriso morì sulle labbra di Victor. Rimase dov’era, guardando l’uomo che doveva proteggere scomparire appena oltre la cresta. Legò i cavalli a un tronco abbattuto e prese dalla bisaccia un pezzo di pane nero. Mentre masticava, girò intorno alla spada conficcata nel terreno che reggeva l’elmo di un discendente degli imperatori di Roma. Guardò l’elmo tempestato di gemme senza osare toccarlo.
Di tanto in tanto il franco tendeva l’orecchio, senza udire nulla. Un alito di vento frusciò tra i rami ormai spogli dei pioppi che si stagliavano neri nel cielo violetto. Si stava facendo buio e il Cesare non si vedeva. Lasciò passare ancora qualche istante poi, sentendo aumentare l’inquietudine mentre le ombre del tramonto inghiottivano la campagna sottostante, decise di andare a cercare il suo allievo. Il sudore congelato dentro l’armatura gli diede un brivido.
Il saluto abbagliante del sole morente si perdeva nell’orizzonte acceso di fiamme rossastre dietro le colline. Il Cesare era poco più sotto, in ginocchio. Pregava, lo sguardo fisso davanti a sé, come ad assorbire gli ultimi raggi di luce. Dunque il ragazzo era un seguace del Sol Invictus, l’antica religione degli adoratori del sole. E l’imperatore Costanzo, che tanto si era impegnato per unificare la chiesa, aveva un cugino pagano e lo aveva appena elevato al rango di Cesare. Un pensiero crudele si fece strada nella mente di Victor. Se fosse tornato di corsa a Mediolanum, a svelare quel segreto a Eusebio, o direttamente all’imperatore, si sarebbe sicuramente riempito le tasche, forse avrebbe potuto cambiare vita. Perché passare l’inverno a rischiare la pelle e gelarsi le chiappe in giro per la Gallia? Di certo Giuliano sarebbe stato destituito, e con buone probabilità messo a morte. Ma non era quello che voleva?
Deglutendo, tremante e non solo per il freddo, il protector tornò sui suoi passi. Si sedette accanto ai cavalli e attese.
Poco dopo, vide riapparire la sagoma di Giuliano. Il giovane superò la cresta e raggiunse Victor, che evitò il suo sguardo. Il Cesare si rimise l’elmo e allacciò il sottogola. Estrasse la spada dal terreno e ripulì la lama sul muschio che ricopriva un tronco abbattuto. Poi osservò la pianta, le sue radici strappate dalla terra. «Guarda, Draco!» indicò le radici. «Tra le radici morte è nata una giovane pianta, che sta mettendo radici nuove. Vive.»
Victor guardò. Era vero, c’era una pianticella stentata. E con questo?
«Non credi nei segni premonitori?»
«Credo solo in ciò che vedo, Cesare.»
Giuliano osservò il tronco abbandonato al suolo. Lo vedeva come un segno del destino inviato da Helios, che mostrava di aver ascoltato la sua fervida preghiera. «Un albero grande e possente può morire, cade e dalla sue stesse radici nasce un germoglio, che crescerà sano e forte.» Il giovane montò in sella. «Attento, mio povero amico senza fede. Vedrai la tua vita svanire nel nulla come nebbia al sole, se non riuscirai a cogliere l’essenza degli dei. L’ente astratto, la sostanza somma, la chiave del cardine primo dell’universo, la matrice, il principio primigenio, Dio. Tutti noi siamo parte del disegno di Dio, persino tu.»
Il protector recuperò il drago che aveva piantato a terra, pensoso.
«Lo vedi? Sei qui, oggi, con me e con questo drago» proseguì Giuliano «e questo dovrà pure significare qualcosa, no? Perché tutto nella vita fa parte di un disegno, e il nostro corpo, la nostra mente sono il mezzo che gli dei ci offrono per portare a compimento il loro disegno.»
Victor lo guardò smarrito. Stava pensando che forse i pensieri delle persone di alto lignaggio erano troppo complicati da capire.
Il cavallo di Giuliano fremette, come impaziente di partire al galoppo.
«Dimmi la verità, Draco.»
«Parla, Cesare.»
«Sei una spia di Eusebio, vero?»
Il franco sentì un nodo allo stomaco. Si sforzò di guardare l’altro negli occhi. «Io sono qui per proteggere il Cesare e il suo simbolo. E sono pronto a battermi, per questo.»
«Già. Del resto non me lo diresti mai, se lavorassi per Eusebio e per la gentaglia come lui che infesta la corte. Attento però, potrei estorcerti la verità, se i miei sospetti trovassero qualche conferma. I crudeli metodi che hanno reso celebre Paolo Catena possono benissimo essere emulati da altri.»
Giuliano fissò per qualche istante Victor, serio in volto. Poi si mise a ridere. «Per tua fortuna, anche se ho il forte sospetto che tu lavori per quell’accolita di assassini, la mia natura non è sanguinaria e perversa come la loro.» Il Cesare scoppiò a ridere. «E poi, ormai è troppo buio per vedere dalla tua faccia se stai mentendo come un eunuco di corte!»
I due si avviarono, tenendo i cavalli al passo. Giuliano alzò lo sguardo sul drago che aveva ripreso a ondeggiare nell’aria. «Quella bestiaccia finirà per uccidermi, un giorno. Ma non posso abbandonarla, e non solo perché lo prevede il protocollo, o qualche altra stupida regola militare.» Tacque, per dare modo a Victor di intervenire, ma il franco non disse nulla. «Per caso, per uno scherzo del destino, un cerimoniere ha affidato proprio a te questo vessillo, il giorno in cui sono stato proclamato Cesare. Un segno che per molti forse è insignificante, ma non per me. Nulla accade per caso, tutto rientra nel quadro di un sistema cosmico a noi ignoto. Il destino ha stabilito che noi due faremo un percorso comune, Victor. Non so se il cammino sarà breve o lungo, facile o difficile, ma sento che tu sarai al mio fianco.»
«Sarà un onore per me stare al tuo fianco, Cesare.»
«In tanti, nelle ultime tre settimane, mi hanno detto che è un onore stare accanto a me. È strana, la vita. Quelli che ti mettono una corona in testa e ti sorridono, sono gli stessi che prima ti volevano morto.»
«Finché io sarò al tuo fianco nessuno ti farà del male, nobilissimo.»
Il giovane fermò il cavallo. «Giuramelo!»
«Non ho niente da darti, come pegno del mio giuramento. Solo la mia parola.»
«A me basta, la tua parola.»
Il protector sguainò lentamente la spada, fissando Giuliano, poi portò la mano che la impugnava all’altezza del cuore. «Giuro che finché sarai al mio fianco nessuno ti farà del male.»
«Qualcosa, dentro di me, mi dice che uno di noi vedrà morire l’altro. Ma questa sensazione, e il tuo giuramento, dovranno rimanere un segreto tra noi, Draco» disse solenne Giuliano.
«Puoi contare su di me, Cesare» replicò il franco, rinfoderando la spada.
Giuliano lo guardò. «Anche per ciò che hai visto al di là della collina?»
Victor restò senza parole.
«Sì, mi sono accorto che eri lì e mi hai visto» proseguì Giuliano. «Ho sviluppato una grande attenzione per i pericoli, li sento addensarsi sopra di me prima che si presentino. Non poteva essere che così, se pensi alla mia vita.»
Nella voce di Giuliano affiorò un tremito.
«Per anni ho continuato a chiedermi in che modo mio cugino Costanzo mi avrebbe fatto uccidere. Per anni ho continuato a chiedermi che volto avrebbe avuto, l’uomo inviato a togliermi la vita. E ancora adesso fatico a liberarmi dall’idea che la morte potrebbe anche essere una liberazione, per me.»
«Perdonami, nobilissimo, ma non capisco. Perché dici che il Divino Augusto ti vuole morto?»
Al giovane sfuggì una breve risata, priva della minima allegria. «Tu sai davvero chi sono io?» chiese Giuliano.
«Sei un discendente del nobilissimo Costantino il Grande, e cugino dell’imperatore Costanzo.»
«Sai che sono l’ultimo di quella dinastia?»
«No.»
«Te lo dico io, allora.» Accennò ai pioppi che stavano costeggiando. «Li vedi questi alberi? Hanno molti rami, vero? Ecco, l’albero dei Costantinidi ha due soli rami. Io e mio cugino Costanzo. E sai perché ha due soli rami?»
Victor scosse il capo.
«Perché il Divino Augusto Flavio Giulio Costanzo, nostro imperatore, li ha recisi tutti. Manco solo io.»
«Non capisco, Cesare.»
«Il fatto di poter aspirare al trono è per noi Costantinidi una vera condanna. Tutto ha avuto inizio con mio nonno Flavio Valerio Costanzo, detto “il pallido” o Costanzo Cloro, che ebbe figli da due diverse donne. La prima era una locandiera sua concubina di nome Elena, che diede alla luce la progenie di mio zio Costantino, poi divenuto celebre come “il Grande”. La seconda era la nobile Flavia Teodora, sposata per ragioni politiche, da cui ebbe sei figli, tra i quali mio padre Giulio Costanzo. Quando Costanzo Cloro morì, durante una campagna militare in Britannia, Costantino che era con lui fu proclamato imperatore dall’esercito. Mio zio Costantino il Grande fu imperatore per trent’anni. Spostò la capitale dell’impero a Bisanzio, ribattezzandola Costantinopoli, la sua città.» Giuliano si strinse nel mantello, lasciando che il cavallo scegliesse l’andatura. «Pose fine alle persecuzioni dei Galilei e proclamò la libertà di culto, ma credo che per lui, così ambizioso, la religione fosse solo un instrumentum regni. Favorì quindi la religione che disponeva di un gran numero di fedeli, ma non condannò le altre, e disse che era il “prediletto dal cielo” senza mai precisare a quale dio appartenesse quel cielo. I nemici religiosi sono i più tenaci e fanatici, e mio zio lo aveva capito: perché crearsi dei nemici inutilmente? Per questo ha unificato le festività religiose, spostando la nascita del Nazareno al 25 dicembre per farla coincidere con il giorno del natale del Sole e del dio Mitra, e ha introdotto la settimana di sette giorni, dedicando al dio Sole il giorno del riposo. Ha fatto costruire chiese ovunque, ma nella “sua” Costantinopoli ha dedicato due templi a Cibele e alla Fortuna.» Giuliano ridacchiò. «Lo sapevi che si è fatto battezzare da un vescovo ariano solo in punto di morte?»
«No, Cesare, ma chi sono io per giudicare gli atti di un grande imperatore come lui?»
«E bravo franco, anche diplomatico, oltre che uomo di spada. E tu, visto che ci siamo, sei battezzato?»
«Non che io sappia, nobilissimo.»
«Dannato franco. E ora torniamo alla mia storia, che richiede ancora un po’ di attenzione da parte tua, perché è complicata. Costantino sposa in prime nozze Minervina, dalla quale ha un figlio di nome Crispo, che eleva al rango di Cesare. Poi Minervina muore e lo zio sposa in seconde nozze Fausta Massima Flavia, che gli dà cinque tra figli e figlie: Costantino II, Costanzo II, Costante, Costantina ed Elena, mia moglie. A questo punto, pare che la zia Fausta abbia accusato il primogenito Crispo di avere abusato di lei. Non si sa nulla di preciso sulla fine di Crispo, di sua moglie e dei suoi figli: vista la turpe natura della colpa, sull’intera famiglia è ricaduta la damnatio memoriae. Il nome di Crispo è sparito da qualsiasi iscrizione, come se non fosse mai nato. Sembra, però, che l’accusa fosse una macchinazione della zia Fausta, per favorire l’ascesa al trono dei suoi figli a scapito del primogenito dell’imperatore.»
Giuliano sospirò, mentre Victor non osava aprire bocca.
«Quando lo zio Costantino si rese conto di aver mandato a morte suo figlio, innocente, per un inganno ordito da Fausta… la fece rinchiudere in un bagno, dove fu uccisa dai vapori bollenti. E condannò anche la zia alla damnatio memoriae.»
Victor indicò alcuni bagliori al di là del bosco. «Il campo, Cesare. Siamo vicini.»
Giuliano proseguì come se non avesse sentito. «Quando lo zio morì, dieci anni dopo, a contendersi la corona rimasero i suoi tre figli maschi e un loro cugino eletto Cesare, Flavio Dalmazio, fratello di mio padre. Sono nipote di tre imperatori e cugino di quattro Cesari, sembra bello a dirlo, vero? Il dramma fu il testamento dello zio Costantino, in cui si faceva cenno, pare, a un tentativo di avvelenamento da parte dei figli di Costanzo Cloro e di Teodora. Un ottimo pretesto per spazzare via l’altro ramo della famiglia e lasciare spazio unicamente alla progenie del defunto imperatore. Sai cos’ha significato, questo?»
Victor scosse il capo, atterrito.
«Avevo sei anni» disse Giuliano, la voce sottile e fragile come vetro. «Ho visto uccidere sotto i miei occhi mio padre, uno dei miei zii, il mio fratellastro maggiore, e i miei sei cugini.»
Era pianto, quello che gli incrinava la voce?
«Ricordo il tonfo degli zoccoli dei cavalli come fosse ieri. I soldati, tanti, che smontavano con le spade in pugno, il tribuno dall’elmo argentato con una pergamena in mano… I nostri servi, povere pecore braccate dai lupi, le donne che stringevano al petto i bambini. Mio padre, pallido in volto, che tentava di placare i soldati… “Qual è il tuo nome?” gli chiese l’ufficiale, mio padre glielo disse e il tribuno lo fece portare fuori. Poi scelsero uno schiavo e lo sgozzarono davanti a tutti. Quel sangue scuro, sul marmo candido dell’atrio… Il tribuno scelse un altro schiavo e gli mostrò il morto, “Ora ti dirò dei nomi, e se non mi farai vedere chi sono, farai la stessa fine” lo minacciò. Poi srotolò la sua pergamena, e cominciò a leggere i nomi, e lo schiavo piangeva e indicava, con il dito che tremava… Uno a uno, i miei famigliari furono portati fuori. Io uscii piangendo, e subito il mio precettore Mardonio mi prese per un braccio, cercando di portarmi via. Il tribuno ci vide. “Come si chiama quel bambino?” e Mardonio balbettò il mio nome, terrorizzato. “Flavio Claudio Giuliano.” Il tribuno rilesse la lista almeno due volte, poi mi fissò indeciso. Quella era una lista di condannati a morte, e il mio nome non c’era.»
Il giovane riprese fiato. Victor immaginò le guance bagnate di lacrime e ringraziò la semioscurità del tramonto.
«Elencati i nomi, il tribuno lesse l’accusa. Tradimento. A volte la sento ancora, in sogno. Tradimento. La condanna era ovvia. Misero tutti in fila e li sgozzarono come agnelli, uno a uno. Mardonio mi impedì di vedere, ma sentii tutto. Grida, invocazioni, gemiti… Tutti i beni della mia famiglia passarono sotto il controllo dell’Augusto Costanzo, che aveva messo un’ipoteca sul regno perché era l’unico ad aver partecipato ai funerali di suo padre Costantino. Io fui risparmiato perché avevo sei anni, mio fratello Gallo perché debole e malaticcio, pensavano che non sarebbe vissuto a lungo. Gli altri furono uccisi perché erano discendenti di Costanzo Cloro, quindi possibili pretendenti al trono.»
Victor aveva un domanda in testa, e Giuliano rispose senza bisogno di udirla. «Le condanne portavano la firma dell’uomo che mi ha eletto Cesare.»
Di nuovo il silenzio.
«Costantino il Grande! Grande è solo la dissolutezza, l’arroganza e la sete di potere dei suoi discendenti! Tutti loro volevano essere “Grandi”, ma non c’era posto per tutti. Costantino II, Costanzo e Costante si sono combattuti tra loro, fino a che ne è rimasto uno solo, l’uomo che ora guida l’impero da “pio cristiano” dopo aver sterminato la sua stessa famiglia. Un sovrano così amato e illuminato da dover assoldare un esercito di spie per controllare tutto e tutti. Ogni anno che passa qualcuno dei suoi generali si autoproclama imperatore, e a furia di epurazioni si è ritrovato solo. Il destino non gli ha concesso discendenti, e forse questo è un bene. La dinastia costantinide si è uccisa con le proprie mani, e alla morte di Costanzo II la corona passerà a un’altra dinastia. Per paura di dover affrontare altri usurpatori, e per dimostrare alla Gallia e all’impero che il suo trono è ben saldo, il mio adorato cugino ha pensato bene di riabilitare il bambino che tanti anni fa ha trascurato di far sgozzare. Un bambino impaurito, che ha vissuto rinchiuso e isolato in residenze lontane e lussuose, circondato da guardie e servi che lo controllavano e lo spiavano.»
Il giovane Cesare prese il franco per un braccio.
«Ogni mattina, al risveglio, mi chiedevo se quello era il mio ultimo giorno. A ogni pasto mi chiedevo se nel cibo c’era del veleno. E all’arrivo di una nuova guardia, mi chiedevo se era il sicario mandato a uccidermi.»
I due cavalieri si fissarono, mentre i fuochi del campo brillavano nell’oscurità che era ormai calata sulla pianura.
«Me lo sono chiesto anche di te, Victor. Se sei qui per uccidermi, ti chiedo solo che la tua mano sia rapida e precisa.»
Gli uomini avevano preparato le tende e acceso i fuochi. Victor si era unito agli altri della guardia, che stavano per godersi un po’ di cibo caldo dopo una giornata in sella, al freddo. A chi gli chiedeva cos’era successo con il giovane Cesare, il franco rispondeva che si erano addestrati con la spada fino all’esaurimento. Fioccò una serie di commenti sarcastici sul ragazzo, fino a quando la sua sagoma non apparve accanto ai fuochi.
I soldati si alzarono. «State seduti, e mangiate» disse Giuliano inserendosi nel cerchio di uomini accovacciati intorno al falò principale. Con il suo piatto ancora pieno si sedette tra Victor e Filopatròs. I due gli fecero spazio, guardandolo come se fosse uno spettro, con Nevitta che osservava la scena sbalordito. Non era mai accaduto che un Cesare si sedesse fra i soldati a mangiare. Non lo facevano nemmeno i tribuni, era impensabile che lo facesse un membro della famiglia imperiale.
«I miei servi,» esordì Giuliano «mi hanno preparato del fagiano con delle salse.» Gli uomini lo fissavano in silenzio, disorientati. «Qualcuno di voi ne vuole?»
Nessuno rispose, e il Cesare rimase con il piatto d’argento a mezz’aria. Si rivolse allora a Nevitta. «Ricordami di licenziare i servi appena arriviamo ad Augusta Taurinorum. Questa roba non piace neanche ai soldati.»
Gli uomini scoppiarono in una fragorosa risata.
«Oppure» aggiunse Giuliano «forse è perché temete che il cibo sia avvelenato?»
Le risate si spensero, lasciando il posto a sguardi imbarazzati.
«Lo assaggio volentieri, nobilissimo» disse Victor.
«Se vuoi, faccio cambio con il tuo piatto. Però voglio anche assaggiare quello che state bevendo.»
I servi accorsero con una coppa e una bottiglia. Giuliano prese la coppa e ordinò loro di distribuire il vino alla truppa. «Via, via, diamo fondo alle scorte, così viaggeremo più leggeri. Prima arriviamo, e prima vi licenzio.» Di nuovo gli uomini risero, tracannando il vino pregiato senza gustarlo.
«Secondo te, Filopatròs, vendendo questi tre sciagurati così ben vestiti che sembrano ambasciatori, quanti soldati ci compro?»
«Non saprei, nobilissimo. Forse quattro o cinque fanti gallici, bene armati.»
Dall’altra parte del falò un soldato della Belgica fece una smorfia. «Attento a quel che dici, graeculo. I Galli non sono in vendita come il bestiame, e se anche fosse, con quei tre effeminati non ne compreresti uno.»
«Forse converrebbe armare direttamente i tre effeminati, allora, anche se non hanno più le palle» ribatté Filopatròs, tagliente. «Non credo che farebbero peggio degli attuali difensori, vista la facilità con cui i Germani vanno e vengono dalla Gallia a loro piacimento.»
«Hai la lingua troppo lunga, per essere l’unico greco in mezzo a noi» disse il soldato della Belgica. «Un greco che disprezza i Galli, mi ricorda la storia del cieco che se la prende con l’orbo.»
Giuliano depose il suo piatto. «La situazione della Gallia non è colpa dei Galli, ma di una cattiva amministrazione. Siamo chiamati ad aiutare queste terre a risollevarsi, e a liberarsi dal flagello degli Alemanni. Ogni uomo è importante, quindi vi prego di essere uniti in uno spirito di fratellanza, come fu per i legionari di Giulio Cesare in questi stessi luoghi, quattrocento anni fa. Ci sarà tempo e modo per dimostrare il proprio valore sul campo di battaglia, ma prima c’è una cosa che voglio sia ben chiara a tutti voi.»
Il Cesare si alzò perché tutti potessero vederlo bene, alla luce del falò. Altri soldati lasciarono i bivacchi intorno per ascoltare le sue parole.
«Noi tutti parliamo latino e abbiamo all’incirca gli stessi principi e ideali. Sono sicuro che il nostro Filopatròs sente la mancanza della sua terra, proprio come io la sento di Costantinopoli e voi dei vostri luoghi natali. Eppure, lo stesso spirito di Costantinopoli è presente a Mediolanum, a Roma, a Colonia Agrippina. Il nostro modo di vivere è pressoché simile dal Vallo di Adriano fino all’Eufrate, un territorio immenso che comprende genti diverse eppure uguali, che si riconoscono all’interno di un grande disegno. Che siamo nati ad Antiochia oppure a Vienne, siamo comunque Romani. I costruttori dei palazzi di Lutezia non vengono da Roma, sono Parisi, eppure sfido chiunque a distinguere uno di quegli edifici da quelli di Augusta Taurinorum. Perché siamo tutti Romani. Abbiamo ereditato un vasto impero nato dalla forza, reso grande dalle leggi e da una morale comune, abitato da una cosmopolita fratellanza di genti accomunate da un nome: Roma. È un’idea, un sogno, così reale che può far sentire a chi ne è partecipe la consapevolezza di questa unicità e unità. Noi siamo la parte migliore dell’umanità. Voi, io, noi tutti.
«La nostra ratio non potrà mai soccombere di fronte alla brutalità di chi preme ai nostri confini. Forse abbiamo perso una battaglia, ma vinceremo la guerra. Riconquisteremo con la forza ciò che con la forza ci è stato tolto. E usciremo vittoriosi da questo scontro perché siamo uniti, consapevoli di essere figli di una civiltà straordinaria, destinata a durare in eterno.»