VI
IL SAPORE DELLA BATTAGLIA
Aprile del 356 d.C.
I cavalieri catafratti avanzavano sotto il peso delle armature in un silenzio freddo, come l’aria di quel pomeriggio di primavera. Pioveva senza sosta da tre giorni e tutto ciò che gli uomini indossavano sotto le corazze era fradicio. Gli acquitrini sparsi nel paesaggio desolato sembravano frammenti di cielo caduti dall’alto. La pioggia era cessata e le prime lame di luce squarciavano le nubi, dispensando un po’ di calore.
Giuliano cavalcava febbricitante, come buona parte dei soldati, il volto incorniciato dalla barba incolta e i lunghi capelli che sfuggivano dall’elmo. Gli schizzi di fango sul viso e la stanchezza erano gli stessi dei suoi uomini. La figura ricoperta di ferro che cavalcava verso Augustodunum non ricordava più il giovane incapace partito mesi prima da Mediolanum, ma un uomo, un provetto generale alla testa dei suoi veterani. Intonò con voce roca Il canto degli eroi, composto da poche strofe scritte da lui stesso, che gli uomini ripetevano all’infinito durante le marce.
Da sette colli vicini a un fiume che porta ricchezza…
Alla destra del principe cavalcava Victor, che ormai tutti chiamavano Draco. Il franco issò ben alto il dragone imperiale, facendo ondeggiare la coda in seta rossa e si unì al canto a voce spiegata.
Da primavere lontane, che ci han reso tutti figli del sacro…
Durante l’inverno Victor aveva ripensato più volte alla vecchia sacerdotessa di Cibele, ed era tornato alle rovine del tempio più volte, da solo, ma non l’aveva più rivista. Così si era convinto che portando il simbolo di Giuliano sarebbe sopravvissuto sino all’arrivo in Frigia, che tutti dicevano essere così lontana.
Filopatròs, che dalla notte della rissa si era beccato il nomignolo di Corax, “il corvo”, cavalcava alla sinistra di Giuliano. Anch’egli si mise a cantare in coro con il resto della colonna.
…e dalla lotta con mille genti che ogni volta ci han reso migliori, alla fine siam giunti a domare un mondo che ora splende sotto il nome di Roma.
Il greco aveva un aspetto inquietante. Il suo nuovo elmo con il paranaso era dotato di una protezione ad anelli in ferro che copriva tutto il volto, togliendogli ogni parvenza umana. Reggeva una lunga picca, pronto a tenere a distanza dal Cesare eventuali aggressori.
L’inverno a Vienne era stato freddo e lungo, per il principe. Sua moglie Elena lo aveva raggiunto e la coppia aveva svolto tutte le funzioni stabilite dall’etichetta di corte, compresa quella di assicurare un seguito alla famiglia imperiale. Elena era incinta e voci esperte erano pronte a giurare che si trattasse del maschio tanto atteso dai Costantinidi.
Gli uomini del piccolo esercito del principe avevano passato il tempo ad addestrarsi e a ritemprarsi in comode caserme, al riparo dalle intemperie. Il generale Marcello non si era visto e Florenzio, prefetto delle Gallie, si era tenuto a glaciale distanza dal Cesare. Questi era rimasto privo di contatti con i vertici del governo romano in Gallia, scelti da Costanzo, fino all’arrivo di Flavio Sallustio, un consigliere già avanti con gli anni inviato a Giuliano dall’imperatore in persona.
Come guardia del principe, Victor aveva assistito al loro primo incontro e aveva subito colto l’istintiva simpatia che i due provavano l’uno per l’altro. Per quello che ne sapeva Victor, Sallustio poteva essere una spia di Costanzo e avere quindi tutto l’interesse a mantenere buoni rapporti con il ragazzo. Tuttavia gli sembrava sincero, e poi emanava un’indubbia autorità morale, nel portamento come nel modo di parlare. Sembrava provenire da un’altra epoca, simile d’aspetto a quei togati funzionari imperiali raffigurati nei busti delle terme Erculee, che Victor aveva ammirato a Mediolanum.
In virtù della buona intesa che si era creata, il giovane Giuliano aveva potuto dividere i mesi invernali tra l’addestramento sul campo con Victor e lo studio della strategia militare con il suo nuovo consigliere. Il principe e il consigliere, sempre tallonati da vicino dall’attento protector, avevano visitato la città da cima a fondo.
Un giorno, mentre percorrevano le segrete del palazzo del governatore, un tempo sede del principato dell’antica guarnigione, avevano trovato un arsenale di vecchie armi. Il Cesare aveva approfittato dell’occasione per distribuire le armi e reclutare quanti più uomini possibile. La città non era sotto assedio, e il nemico era a innumerevoli miglia di distanza. Volevano davvero difendere le loro famiglie e la loro città, gli uomini di Vienne? Anziché aspettare l’arrivo dei Germani, dovevano seguire lui, Giuliano, e aiutarlo a combatterli, a tenerli lontani da ciò che avevano di più prezioso. Il suo discorso fu accolto favorevolmente e la notizia si propagò anche nei dintorni, tanto che, in breve tempo tutte le armi furono distribuite a volontari giunti dall’intera provincia.
Giuliano e Sallustio erano sempre molto impegnati a preparare l’offensiva di primavera, ma di tanto in tanto facevano escursioni fuori dalle mura cittadine senza scorta. Con loro c’era soltanto Draco, che aveva l’ordine categorico di tenersi a debita distanza. Il protector aveva il sospetto che Sallustio venerasse gli stessi dei di Giuliano, ma si era ben guardato dal riferirlo nei brevi, rassicuranti messaggi consegnati dal corriere a Eusebio. Non gli importava davanti a quale dio Giuliano si mettesse in ginocchio, e aveva visto con i suoi occhi con quanto rammarico avesse controfirmato alcuni atti emanati dall’imperatore, che con una mano concedeva privilegi ai cristiani e con l’altra perseguitava gli adoratori degli antichi culti. Il Cesare si era visto costretto ad avallare la condanna a morte di due sacerdoti e a mandare in esilio alcune personalità di spicco di quella parte di Gallia che, formalmente, ricadeva sotto la sua giurisdizione. Dopo aver firmato quei documenti si era rinchiuso per giorni nei suoi appartamenti, dando ordine di non disturbarlo. L’unico per cui faceva un’eccezione era Sallustio.
A primavera Giuliano aveva ricevuto da Costanzo i “piani strategici” per la campagna estiva e li aveva studiati con il suo consigliere. Erano solo banali istruzioni di racimolare uomini da guarnigioni e città vicine per poi raggiungere a settentrione il generale Marcello, che teoricamente era sotto i suoi ordini. I veri piani di guerra erano già stati decisi in separata sede tra l’imperatore e i suoi generali, in modo da togliere al Cesare delle Gallie qualunque possibilità di iniziativa. Durante i preparativi Giuliano aveva avuto notizia che la città di Augustodunum era sotto assedio da parte degli Alemanni e aveva deciso, contro il parere di tutti, di portarle subito soccorso.
Il giorno successivo, mentre tra gli uomini si diffondeva la voce dell’imminente partenza dal tranquillo paradiso di Vienne, era giunto in visita il prefetto Florenzio.
Scopo della visita era “suggerire” a Giuliano di non fare mosse affrettate. Il generale Marcello aveva la situazione sotto controllo e il Cesare non doveva mettere in pericolo la sua nobile vita solo per risolvere una questione di poco conto. Giuliano aveva sorriso e ringraziato, per poi riportare al prefetto l’esortazione che suo cugino, l’augusto imperatore Flavio Giulio Costanzo, gli aveva rivolto nel giorno della sua investitura: «Va dunque e affrettati, seguito dall’augurio di noi tutti, a difendere il posto di combattimento che lo stato ti ha assegnato».
«Capisco, ma devo insistere» aveva risposto il prefetto, stizzito «e ti suggerisco, per il tuo bene, di non commettere imprudenze. Il generale Marcello sa bene come affrontare la situazione, e non ha bisogno di avere altre preoccupazioni.»
«So bene come “affronta” la situazione Marcello. Stando fermo e tenendo fermi i suoi, mentre gli Alemanni vanno e vengono liberamente, razziando i raccolti e assalendo ville e fattorie isolate. Le strade non sono più sicure, tanto meno i collegamenti dei corrieri e le stazioni di posta sono spesso le prime a essere saccheggiate e date alle fiamme. Ho sentito di contadini passati dalla parte dei razziatori, prefetto, e questo perché credono di avere maggiori speranze di farcela, con loro. Lo sai cosa significa? Che stiamo perdendo la fiducia di queste genti. Non hai visto con che entusiasmo sono corsi ad arruolarsi, quando gli abbiamo dato qualche vecchia spada e un po’ di speranza? Il morale degli abitanti di queste terre è crollato. Non possiamo tradire ancora la loro fiducia stando fermi, mentre Augustodunum viene espugnata.»
«I dispiaceri di questi villici non fanno parte delle mie preoccupazioni.»
«Questo è evidente. La tua amministrazione infatti ti ha arricchito, ma al contempo ha impoverito il paese.»
Il prefetto balzò in piedi, paonazzo di rabbia. «Non ti permetto di…»
Giuliano balzò in piedi a sua volta, e la sua voce risuonò nella sala con un’aggressività che lasciò tutti di sasso. «Forse hai dimenticato come ci si comporta, di fronte a un Cesare!»
«No, certo, nobilissimo, io intendevo…»
«Ho capito perfettamente, cosa intendevi! Ora puoi andartene. Sono sicuro che il nostro amatissimo Augusto ti sarà riconoscente per il tuo zelo.»
Il volto di Florenzio era deformato dal furore. Almeno ufficialmente, non poteva agire contro colui che era pur sempre un inviato dell’imperatore Costanzo. Indietreggiò, accennando un brusco inchino a mo’ di commiato.
La voce del Cesare lo richiamò. «Osservo, prefetto, che le tue tante incombenze ti rendono distratto. Devo ricordarti che oltre ai diritti acquisiti hai anche dei doveri verso il tuo imperatore.»
Florenzio si irrigidì e fissò il principe, cercando di nascondere la sua collera dietro un velo di riverenza quando Giuliano gli porse la mano con l’anello della famiglia imperiale. «Non vuoi porgere gli omaggi alla porpora, prima di ripartire?»
Il prefetto si inginocchiò e baciò l’anello, livido in volto, sotto gli sguardi maliziosi dei presenti.
Coloriti resoconti della scena iniziarono ben presto a correre per tutta Vienne, poi in Gallia e infine in ogni angolo dell’impero. Dopo un inverno passato a inghiottire bocconi amari Giuliano aveva alzato la testa ed esercitato l’autorità che spettava alla sua carica. Bisognava ora vedere quale sarebbe stata la risposta di Costanzo.
L’intera Vienne salutò la partenza del Cesare e del suo esercito. Elena si mostrò per la prima volta in pubblico in dolce attesa, salutando il marito con l’austera dignità di una nobildonna d’altri tempi. Veder uscire diecimila uomini dalla porta principale della città tra l’omaggio della folla fu uno spettacolo grandioso.
Dopo aver percorso senza incontrare ostacoli le campagne desolate della Gallia, il principe arrivò in vista delle antiche mura di Augustodunum il 24 giugno e fu accolto con grande esultanza. Gli Alemanni, sapendo dell’avvicinarsi del Cesare, avevano tolto l’assedio per ricongiungersi con il grosso delle loro forze più a oriente, senza prendere in considerazione la possibilità di affrontare l’esercito di Giuliano.
Il loro in realtà non era stato un assedio vero e proprio, perché non era usanza dei Germani attaccare una roccaforte, né tanto meno chiudersi tra le mura dopo averla occupata. Preferivano di gran lunga devastare i dintorni per ridurre alla fame l’abitato e costringerlo alla resa. Poi davano inizio a saccheggi e distruzioni.
Durante il viaggio da Vienne alcuni gruppi di sbandati alla macchia avevano raggiunto le truppe del principe, andando a ingrossarne le file. Si trattava di pochi individui armati alla meno peggio, ma fortemente motivati. Molti di loro avevano perso famiglia e averi durante le incursioni dei Germani, ed erano decisi a vendicarsi di tutto ciò che avevano subito.
In città, i reduci e i veterani che avevano organizzato la difesa contro gli Alemanni prestarono solenne giuramento di fedeltà a Giuliano. Il principe era accorso in loro aiuto, salvando donne e bambini da un orrido destino di schiavitù, e gli uomini, in segno di gratitudine, si dissero pronti a seguirlo nella sua campagna di liberazione della Gallia.
«Sono rimasto molto scosso» disse il giovane condottiero, dal palco eretto per rendergli omaggio «da ciò che ho visto arrivando qui. Una terra senza vita, villaggi e fattorie devastati, morti abbandonati senza sepoltura. Ho visto madri piangere i loro figli, e mogli versare lacrime per i mariti. E ho deciso che non mi fermerò qui. Questa non è una vittoria. Come posso cantare vittoria e poi guardare negli occhi qualcuno i cui famigliari sono schiavi dei Germani? Non posso. Non mi basta che siano fuggiti, devo inseguire quei vili fin nelle loro tane per liberare i vostri e nostri cari e riportarli a casa, ed estirpare una buona volta questo flagello!»
Un boato si levò dalla folla. Le donne alzarono al cielo i loro piccoli, per mostrarli all’uomo che li avrebbe resi liberi.
«Tornerò con i vostri cari, o non tornerò,» gridò il Cesare. «Non posso giurarvi che ci riuscirò, ma vi giuro che non mi arrenderò. Se è destino che io non riesca, almeno potrete dire di me che sono morto per la Gallia.»
Le ovazioni di migliaia di persone fecero un fragore assordante. I soldati giurarono fedeltà con le spade in pugno e i funzionari si prostrarono davanti alla porpora imperiale. I protectores dovettero farsi largo per portare via Giuliano dal palco, perché la folla voleva toccarlo, abbracciarlo, baciare l’anello imperiale. Augustodunum era libera, ma altre città erano nelle mani dei Germani e il giovane principe, che aveva studiato nel dettaglio la tattica e le strategie dei grandi condottieri del passato, sapeva bene che velocità e sorpresa erano le armi migliori.
Draco e Corax arrivarono al galoppo davanti al palazzo e consegnarono i cavalli agli scudieri. Poi salirono le scale di corsa mentre tutti coloro che incontravano si facevano da parte per farli passare. Al pari di Nevitta, Dagalaifo e Arinteo, tutti erano a conoscenza della fiducia che il Cesare riponeva in loro e del rispetto che si erano guadagnati tra gli uomini del seguito.
Il volto di Giuliano si illuminò quando li vide entrare nella sala dei ricevimenti. Lasciò perdere alcune faccende burocratiche che stava risolvendo con i funzionari locali e andò loro incontro, seguito dall’inseparabile Sallustio. «Allora?»
Victor srotolò una pergamena sgualcita sul tavolo da lavoro del principe. Nevitta, Dagalaifo e Arinteo si avvicinarono e seguirono con attenzione il dito del draconarius che scorreva sulla mappa.
«Vi sono tre strade possibili per arrivare ad Autosodorum e proseguire per Tricasae. Una a settentrione, costeggiando le foreste e proseguendo sulla strada per Sedelaucum e Cora. Oppure una via più battuta, ma molto più lunga, che poi incrocia la via che da Divio* porta a Autosodorum e prosegue a occidente.»
«E la terza?» chiese Giuliano.
Victor esitò. «Muoversi tra settentrione e occidente» disse, puntando il dito su una macchia scura «attraverso la foresta.».
«Perdonami, nobilissimo» disse uno dei funzionari locali. «La via della foresta è sicuramente più breve, ma anche la più pericolosa.»
Il principe guardò Sallustio. «Che cosa ne pensi?»
Il consigliere si lisciò la barba. «Se arriveremo vivi, piomberemo sulla città a sorpresa, prima che ci vedano. Se decidiamo di seguire la strada più battuta, il rischio di essere avvistati è molto più alto.»
«Nobilissimo, è pericoloso» insistette il funzionario. «Solo il generale Silvano si è arrischiato a passare di lì, ma aveva con sé ottomila soldati.»
«Silvano? Claudio Silvano?»
Il funzionario assentì. Victor diede un’occhiata a Filopatròs, che distolse lo sguardo. Gli tornarono alla mente le immagini di Silvano, massacrato da Dagalaifo e dai suoi uomini nella basilica di Colonia Agrippina.
«Silvano è stato un buon generale,» affermò Giuliano «forse la situazione non sarebbe così disperata, oggi, se fosse rimasto al suo posto. Chissà cosa lo ha spinto a usurpare il trono.»
Anche Dagalaifo aveva abbassato gli occhi, per evitare gli sguardi degli altri.
«Tu eri ai suoi ordini, Flavio, non è così?»
Nevitta si schiarì la voce prima di rispondere, sforzandosi di restare impassibile. «Ero ufficiale nella sua cavalleria, certo, ma non ero a Colonia Agrippina quando… quando è accaduto il…»
Giuliano gli pose un mano sulla spalla. «Non devi giustificarti di nulla. Quello che voglio sapere, è se conosci la strada.»
«È passato del tempo,» rispose impacciato il franco, arrossendo «ma c’ero anche io. Per un lungo tratto non si vede nemmeno il sole. È una scelta rischiosa, con i pochi uomini che abbiamo.»
«E tu, Arinteo? Qual è il tuo parere?»
«Significa proprio sfidare la sorte, Cesare. È vero che ogni giorno arrivano nuovi volontari, ma sono inesperti e male armati. I fanti, insieme ai carri, devono passare per strade più sicure.»
«Portiamo solo i catafratti e i balestrieri, allora. Abbiamo un buon numero di cavalieri. Il resto degli uomini ci raggiungerà quando avremo stabilito un avamposto sicuro.»
Nevitta scosse energicamente il capo. «I balestrieri e i cavalieri corazzati vanno bene come forza d’urto, ma sono poco adatti al presidio e alla difesa, in caso di pericolo.»
«Ci sono gli italici della guardia, per quello.»
Per qualche attimo, Giuliano ebbe in risposta solo il silenzio.
«Allora? Tu, Arinteo?»
L’ufficiale non rispose.
«Nevitta?»
Silenzio. Non rispose.
«Sallustio?»
L’altro sorrise e scosse il capo.
«Lo prendo come un sì?»
«È una pazzia, Cesare.»
«Allora può funzionare.» Giuliano premette il dito sulla mappa. «Passeremo per la foresta, sulle tracce del valoroso generale Silvano.»
La colonna partì il giorno successivo. A poche miglia dalla città, si trovarono davanti la foresta. Alla testa dei cavalieri Nevitta si addentrò nell’ombra della vegetazione, e in breve sui volti degli uomini si manifestò una crescente tensione, quasi palpabile. Per un guerriero, vedere il nemico e intanto valutare una possibile via di fuga rappresentava già un passo sulla strada della sopravvivenza, mentre i boschi, fin dalla notte dei tempi, comunicavano un arcano e impalpabile senso di mistero che si univa all’ancestrale paura di agguati, trappole mortali e riti magici. Quanto bastava per turbare anche il più convinto cavaliere cristiano.
Autosodorum venne raggiunta senza difficoltà in quattro giorni di marcia, con grande sollievo degli uomini. Dopo essersi rifocillati, i soldati del Cesare ripartirono alla volta di Tricasae, sotto un diluvio torrenziale che durò tre giorni. La mattina del quarto giorno il tempo sembrò concedere una tregua, e tra le pesanti nuvole ancora gonfie d’acqua apparvero lembi di azzurro. Sotto la guida di Nevitta, gli uomini, curvi sulle cavalcature, attraversarono campi allagati dalla pioggia, fino a quando tra i filari di pioppi non sbucò la sagoma di Dagalaifo, che arrivava al galoppo.
«Uomini a cavallo, laggiù, davanti a quegli alberi oltre la radura!»
Nevitta, Giuliano e Sallustio si staccarono dalla colonna e avanzarono. Le zampe dei cavalli sprofondavano nel fango.
«Secondo te chi sono, Nevitta?»
«Credo siano Alemanni, Cesare. Forse un piccolo gruppo di esploratori.»
«Ci hanno visto» disse Sallustio, indicando con la mano «e ne arrivano altri dal bosco, guardate.»
Nevitta tese il dito sulla sinistra: «Ce ne sono altri ancora, di là. Non è un piccolo gruppo, Cesare. Sono numerosi».
Giuliano vide parecchi cavalieri in movimento, in parte nascosti dalla vegetazione.
«Quanti saranno?»
«Tenuto conto che non saranno tutti qui, direi quasi il doppio di noi. Sono troppi, propongo di ripiegare verso la foresta per essere pronti a difenderci.»
«No!» disse secco il Cesare.
Nevitta si girò sulla sella e guardò stupito e allarmato il suo comandante.
«Non ripiegheremo» disse Giuliano. «Li attacchiamo!»
«Non è prudente. Sfruttiamo la sorpresa e ripieghiamo, intanto che decidono il da farsi.»
«Ho detto di no. Sfruttiamo la sorpresa, certo, ma per attaccare, prima che decidano il da farsi» replicò il principe, stringendo il sottogola dell’elmo. «Prepara i balestrieri.»
«È pericoloso, Cesare!» Nevitta aveva alzato il tono. «Sono più leggeri di noi, si sparpaglieranno e ci circonderanno. Raggiungiamo una posizione difendibile.» Giuliano sguainò la spada e guardò negli occhi il franco. «Non sono qui per difendere ciò che rimane delle nostre terre. Sono qui per riprendere quelle perse, e per ricacciare i Germani oltre il Reno!»
L’ufficiale lo guardò, ancora dubbioso.
«Siamo qui per questo, Flavio» riprese Giuliano. «Siamo qui per rischiare e vincere. Se gli dei sono dalla nostra vinceremo, altrimenti moriremo. Ma lo faremo con le armi in pugno, a differenza di inetti come Florenzio e Marcello, che innalzano mura solo per starci chiusi dentro!»
Nevitta vide lo sguardo febbrile del giovane, sputò per terra e sfoderò la spada. Con la lama indicò un campo delimitato dalla boscaglia. «Puntiamo sui Germani come se volessimo caricarli. Appena si disperdono, pieghiamo verso il campo come se volessimo arretrare. Ci inseguiranno per prenderci alle spalle, e quando saremo in fondo faremo dietrofront e li caricheremo, questa volta sul serio. Se li attiriamo laggiù non possono disperdersi. Dovranno per forza vedersela con i nostri catafratti, o rischiare di volgerci le spalle.»
Giuliano assentì vigorosamente. «Sono d’accordo, Flavio, mi sembra un’ottima tattica. Non avranno nessuna possibilità.» Sguainò a sua volta la spada. «Loro non possono vincere, non ce l’hanno un “Nevitta”.»
Gli occhi del franco brillarono e le labbra si allentarono in un sorriso compiaciuto. «Farò in modo di meritare la tua gratitudine, Cesare. Da vivo o da morto.»
«Attenzione» esclamò Dagalaifo «si preparano a caricarci!»
Nevitta spronò in direzione dei catafratti e prese a latrare ordini per il contrattacco. Dagalaifo chiamò a sé la guardia, che si raccolse immediatamente intorno a Giuliano. Victor era così vicino al principe che i cavalli si toccavano. Le bestie erano irrequiete e percepivano il nervosismo dei cavalieri, intenti a scrutare la folta schiera di avversari che si stava avvicinando al galoppo, allargandosi a semicerchio. Draco si passò la lingua sulle labbra aride, poi lanciò a Filopatròs un silenzioso sguardo di incoraggiamento.
«Siamo pronti Helios» mormorò il principe.
I catafratti sfilarono davanti ai protectores e si disposero in linea, una ventina di passi più avanti, con le lance in resta. I loro grossi cavalli avanzavano pesantemente nell’acquitrino. Nevitta sembrava un mastino che si dava da fare per tenere unito il gregge.
«Pronti, Flavio?» gridò il Cesare.
Nevitta annuì, alzando la spada, mentre il suo cavallo si impennava.
Giuliano rivolse lo sguardo al sole, che si era finalmente fatto largo tra le nubi. «Potente Helios, sono nelle tue mani. Guidami alla vittoria, o accoglimi al tuo fianco.» Poi inspirò a fondo e ruggì: «Avanti!».
Nevitta fece avanzare i cavalieri al passo. I protectores li seguirono, mentre i balestrieri si sparpagliavano sulle ali. Giuliano guardò Victor e il franco rispose con un sorriso crudele, prima di alzare il drago e incitare il cavallo.
I catafratti spinsero al trotto le bestie, sollevando spruzzi d’acqua che si riverberarono al sole come scintille di lame splendenti. Il sibilo del drago si levò sopra il clangore metallico delle armature e il tonfo liquido degli zoccoli nella fanghiglia. Giuliano tese lo sguardo verso i nemici. Demoni, vomitati dalla terra scura. Il cuore gli batteva così forte che sembrava voler sfondare la corazza dall’interno. Nella sua mente riecheggiavano le parole di Draco: “Mai fissare un punto preciso… Vedere tutto e non fermarsi su niente… cogliere tutto ciò che ci accade intorno, notare ogni dettaglio… la giusta concentrazione”.
In quel momento, quando i catafratti aumentarono l’andatura, il principe sentì di aver finalmente compreso l’insegnamento del suo armidoctor.
Flavio Claudio Giuliano spronò il suo destriero, poi tese lo sguardo verso l’infinito e il cuore verso l’immortalità. A ogni falcata il cavallo lo portava sempre più avanti, verso il suo destino, tra grida di guerra e schizzi di fango che lo investivano. Percepì dai movimenti dei suoi la posizione di ogni uomo. La punta di lancia che sbucava alla sua sinistra era quella di Corax, che sentiva al suo fianco. Poco più avanti Dagalaifo, che tracciava sicuro la direttrice di attacco. E anche se non lo vedeva, sapeva che Victor, il suo draconarius, cavalcava alla sua destra. Più in là ancora, all’estrema sinistra dello schieramento, Nevitta controllava l’allineamento dei suoi. Sopra le loro teste, una lingua di seta rossa nel cielo azzurro sembrava sfidare i Germani a fermare il Cesare, che stava arrivando a riprendersi con la forza ciò che gli apparteneva.
Il tragitto fu breve, ma parve infinito, come se fosse stato percorso in un tempo più lento di quello reale. Poi le figure scure dei Germani apparvero tra gli spruzzi d’acqua, come il temuto compimento di un orrendo incubo. Avanzavano urlando, e la loro massa brutale faceva tremare il terreno. Volti feroci e disumani, che sembravano usciti dalle porte spalancate dell’Averno, dove Dite in persona li attendeva giù negli inferi.
Come Nevitta aveva previsto, gli Alemanni evitarono l’urto frontale con gli uomini corazzati e si dispersero sui fianchi. Il generale lanciò un ordine e i balestrieri scaricarono le armi, per poi convergere dietro i catafratti, che adesso avevano la via aperta verso il campo indicato da Nevitta.
Il primo contatto era stato talmente rapido e confuso che nessuno aveva fatto in tempo a vedere se qualche dardo aveva raggiunto il bersaglio, ma non era importante. Importante era che i Germani cadessero nella trappola e senza riflettere decidessero di inseguire i Romani.
Nevitta fece rallentare l’andatura per dar modo ai cavalli di riprendere fiato. Il terreno si fece più compatto e gli uomini si incunearono nel campo, delimitato da fossati completamente allagati.
«Ci caricano!» urlò Dagalaifo.
Nevitta ordinò prima l’alt, e subito dopo il dietrofront. Fece sfilare i protectores dietro ai catafratti e valutò in un lampo la linea nemica. Con un urlo possente, ordinò la carica. Subito la fila di cavalli scattò in avanti, tra le grida degli uomini. I cavalieri lanciarono le loro fide bestie al galoppo.
L’aria tremò, poi fu il momento dell’urto, accompagnato dal fragore di un’onda che s’infrange sugli scogli, quando il mare è in tempesta. La linea si sfaldò tra schizzi d’acqua, urla e nitriti di cavalli. I catafratti si avventarono sui Germani e i protectores cozzarono contro i propri cavalieri. I primi uomini furono disarcionati. Un alemanno spuntò tra i catafratti mulinando una lunga spada. Filopatròs spinse il cavallo verso di lui, per impedirgli di avvicinarsi a Giuliano. La lancia del greco penetrò nello stomaco dell’aggressore fino a tre quarti. Il guerriero strabuzzò gli occhi e lanciò un rantolo soffocato, poi si piegò sulla sella, aggrappandosi all’asta. Filopatròs la strattonò con forza per liberarla, senza riuscirvi. Il cavallo del greco scartò di lato, e Corax parò con lo scudo il fendente di un altro nemico, alla sua sinistra. L’alemanno colpito al ventre scivolò di sella esanime, trascinando con sé il protector. La lancia si spezzò. I due caddero nel fango, tra le zampe dei cavalli, e Filopatròs rovinò sul proprio scudo frantumandolo. Cercò di rialzarsi subito, ma era a terra senza protezione e già il secondo nemico gli era addosso, pronto a calare la spada e a ucciderlo. Un attimo, e dal nulla comparve Victor che parò il fendente con l’asta del drago, per poi ficcare il puntale nella gola dell’alemanno.
«In sella, soldato!»
All’urlo di Victor, il greco afferrò le briglie del suo cavallo che scalpitava spaventato e cercò di tenerlo fermo per montare. Un movimento sulla destra, ma il draconarius fu rapido nel disarcionare l’aggressore, che prima di rialzarsi si ritrovò la lama di Filopatròs nel ventre.
«In sella, graeculo» urlò di nuovo Draco, il volto contorto da un ghigno crudele.
Con un balzo l’agile Corax montò in groppa al suo cavallo, mentre Dagalaifo arrivava a dar loro man forte, urlando come un folle. La sua spada squarciò il volto di un guerriero che puntava su di loro. Il grido del ferito si spense, mentre Victor lo finiva trafiggendolo. Un altro alemanno sbucò dalla mischia, lanciandosi verso il mantello purpureo del Cesare che spiccava in mezzo agli altri. Dagalaifo vibrò un fendente così violento da spaccare l’elmo e il cranio del nemico in un sol colpo. Un caldo fiotto di sangue investì il volto di Giuliano.
«Convergere! Convergere!» Nevitta si sgolò a indicare la nuova direttrice per allontanarsi, e formare nuovamente i ranghi. Stretto tra Victor, Filopatròs e Dagalaifo che gli facevano da scudo, Giuliano riusciva a malapena a vedere davanti a sé.
Nella mischia, i cavalieri corazzati che avevano perso l’impeto erano meno mobili, e i protectores armati di spada dovettero aprirsi la strada tra i Germani. Filopatròs e Dagalaifo atterrarono un altro cavaliere dai lunghi capelli scuri e si fecero largo nella calca, seguiti dal resto della guardia.
Il gruppo piombò al galoppo su un alemanno ferito che si stava rialzando da terra. Victor lo trafisse alla schiena con il puntale dello stendardo, poi levò alto il drago, lanciando un urlo selvaggio. I cavalli rallentarono, i catafratti ricomposero le fila e Nevitta, con la spada vermiglia e un sorriso compiaciuto, guardò Giuliano a testa alta.
«Si ritirano, Cesare!»
In quel momento il principe capì che lo scontro era finito. Guardò Sallustio con il volto paonazzo e la spada sguainata, e vide uomini a terra nella zona dello scontro. Più indietro i cavalieri germani si allontanavano al galoppo, lasciando sul terreno almeno una ventina di caduti. Alcuni immobili, altri moribondi, che annaspavano inutilmente tra il fango e l’erba alta.
«Carichiamo!» Nell’urlo del principe c’era tutta la rabbia che la fine di un pericolo può scatenare in un uomo.
Nevitta non ebbe il tempo di fermarlo. Giuliano stava già spingendo la sua cavalcatura verso i nemici in fuga. Victor lo seguì, insieme a Filopatròs e a Dagalaifo. Dietro di loro il vecchio Sallustio e poi tutti gli altri.
Filopatròs era il più leggero, e fu il primo a raggiungere Giuliano e a mettersi a guardia del suo fianco sinistro. Mentre si portava alla destra del giovane, controllando dove fossero tutti gli altri, Victor vide i Germani aumentare l’andatura, dopo che si erano accorti di essere inseguiti.
Si sentì invadere da una sensazione di onnipotenza e insieme di assoluta libertà. Diede di sprone e raggiunse il principe, urlando e alzando il drago. Subito dietro a lui c’era Dagalaifo, che sfidava a gran voce gli Alemanni, nella loro lingua, a fermarsi e combattere.
Puntarono su un guerriero di grossa corporatura, il cui cavallo perdeva sempre più terreno in mezzo agli acquitrini. Privo di elmo e di corazza, il germano impugnava ancora un’ascia. Si voltava nervosamente a controllare la distanza dagli inseguitori con i suoi occhi azzurri spauriti, ossessionato da quel sibilo incalzante che il drago provocava.
Poco oltre, un altro alemanno armato di lancia e con un’armatura ad anelli di ferro aveva rallentato l’andatura per non abbandonare il suo compagno. Stava gridando, forse nella speranza che altri guerrieri tornassero indietro ad aiutarli.
Giuliano indicò il germano con la lancia. «Una moneta d’argento per la sua testa!»
Filopatròs diede di sprone balzando avanti, mentre Victor e Dagalaifo convergevano sulla scia di spruzzi del cavaliere con la scure. Ormai disperato, il germano scagliò l’ascia contro gli inseguitori e colpì il cavallo di Dagalaifo. L’animale rovinò al suolo, scalpitando all’aria.
Un attimo dopo, Victor ferì l’alemanno alla spalla con il puntale del drago. Il guerriero gridò e si voltò. Il franco, che gli era addosso, lo colpì con l’asta alla mascella. Stordito, l’altro barcollò, perdendo terreno. Victor manovrò abilmente in modo da far sfilare avanti Giuliano.
Il maestro aveva procurato all’allievo una preda da finire. Perché la sua consacrazione fosse piena, in quella prima battaglia, era necessario che il principe versasse il sangue di un nemico.
Giuliano affiancò il germano e menò un fendente poco deciso, ma sufficiente a colpire l’avversario e sbilanciarlo. Cavallo e cavaliere caddero malamente, ma il guerriero riuscì in qualche modo a rotolare via nel pantano.
Il Cesare trattenne il suo destriero, gli occhi puntati sul germano a terra, ferito, ma non vinto. Toccando appena i fianchi delle cavalcature, gli altri protectores fecero cerchio intorno a loro. A denti stretti, il respiro affannoso e sibilante, il giovane guardò il colosso biondo coperto di fango rialzarsi e snudare la spada. Il germano sputò uno schizzo vermiglio e ringhiò qualcosa a Giuliano.
«Cos’ha detto, Victor?»
Draco lo guardò, impassibile.
«Cos’ha detto?» ripeté Giuliano.
«Più o meno “Scendi e battiti da uomo, se hai le palle”.»
Il principe strinse la spada, poi balzò giù dal cavallo. Subito il germano gli andò addosso, barcollando.
«Resta dove sei, Draco, e guarda!»
Victor trattenne il cavallo e osservò il suo allievo mettersi in guardia. Giuliano gli lanciò un’occhiata e il franco annuì. Il Cesare trasse un respiro profondo, poi balzò in avanti. Fintò un colpo alla spalla ferita dell’avversario. Il germano tentò di parare, ma la lama cambiò in un lampo traiettoria, piombandogli sulle nocche. Il colosso urlò di dolore e lasciò cadere la spada. Si chinò rapido a raccoglierla, ma il principe fu altrettanto rapido. La sua lama calò di taglio tra la spalla e il collo, spezzando la clavicola. Il colosso cadde sulle ginocchia, come un toro colpito a morte durante un sacrificio. E come un toro lanciò un muggito di dolore a occhi sbarrati mentre il principe lo finiva abbattendo la spada di nuovo, ansante per lo sforzo, fin quando il germano ebbe il volto nel fango scurito dal sangue.
Giuliano rimase attonito, invaso da un tremito di esaltazione che gli impediva di rimettere la spada nel fodero. Con il cuore che batteva forte, il giovane riprese fiato. I suoi fedeli compagni erano intorno a lui. Victor, che sorrideva complice mentre si toglieva l’elmo e piantava a terra l’asta ondeggiante del drago; Dagalaifo, che arrivava a piedi coperto di fango, zoppicante, imprecando nel suo dialetto; Sallustio, il grande stratega, che pur anziano e non più avvezzo alla mischia aveva dato l’anima anche lui; Nevitta, gli occhi ancora più azzurri nel volto cosparso di macchie vermiglie, che teneva per le briglie uno stallone nero con il corpo senza vita di un capotribù dalla preziosa corazza. E Filopatròs, che reggeva nella mano sporca di sangue la testa del germano con la lancia. Il greco la lanciò verso il Cesare, che se la vide rotolare davanti.
Il sapore della battaglia fu una rivelazione per il giovane Cesare, che fino a quel momento ne aveva avuto un segreto orrore. Alla vista del centinaio di cadaveri insanguinati sparsi tra i campi incolti si sentiva terribilmente eccitato. Nel suo ricordo non c’erano cadaveri, ma solo le lontane grida dei suoi, uccisi dai soldati di Costanzo. Tradimento.
Adesso lo aveva scoperto, com’era dare la morte.
Inspirò a pieni polmoni. Il sole splendeva, lo scontro era finito e quello che provava era confuso, ma non era turbamento. Non provava disgusto o repulsione, a guardare quella testa immobile ai suoi piedi. Era tensione. Era vita. Vita come non l’aveva mai sentita prima.
Vita che scorreva come un fiume nelle vene.
Nei suoi studi filosofici aveva sempre cercato un senso all’esistenza umana, e ora lo aveva trovato nel furore della battaglia. Nella mente e nel cuore aveva sempre pensato alla guerra come a una barbarie inumana, e ora aveva capito che combattere e vincere un nemico che voleva la tua vita era il trionfo dell’essere umano. Il trionfo della vita.
Pensò che quel fuoco alla bocca dello stomaco era lo stesso di Alessandro il Grande a Gaugamela, di Scipione a Zama, di Cesare ad Alesia. Alzò la spada insanguinata al sole e urlò al cielo la sua scoperta, mentre i suoi uomini lo acclamavano ad alta voce. Tutti volevano stringergli la mano, perché sentivano che il fato aveva a cuore il giovane Cesare. Lo portarono in trionfo sullo scudo di un germano morto.
Vicino a lui, la rossa coda del drago imperiale ondeggiava ardita e prepotente nel cielo di quell’angolo di Gallia.
* Rispettivamente: Auxerre, Troyes, Saulieu, un villaggio nei pressi di Autun e Digione.