XVI

COSTANTINOPOLI
Dicembre del 361 d.C.

Costanzo era morto dello stesso male di Elena, un male comune a tutta la dinastia dei Costantinidi. La malattia lo tormentava da tempo con sintomi alterni e sapeva di doversi affrettare, se voleva sconfiggere l’odiato cugino prima della morte. Voleva conquistare la gloria affrontando Giuliano, ma al tempo stesso temeva uno scontro diretto. Aveva visto nel cugino una minaccia che non era riuscito ad arginare, e dopo tanti anni era pentito di non averlo ucciso insieme al padre, quand’era un bambino. D’altro canto, conscio dell’imminenza della fine, vedeva in Giuliano, sangue del suo sangue, l’unico uomo in grado di prendere le redini del regno.

Costanzo si era sempre ritenuto superiore al resto dell’umanità e portatore di un destino particolare, fino a esserne ossessionato. Si era sentito depositario di una missione divina, al fine di rivalutare il ruolo dell’imperatore in ambito religioso: l’Augusto doveva essere garante e promotore della Chiesa. Aveva organizzato concili ecclesiastici ed eliminato i sostenitori di altre correnti religiose, in contrasto con i dogmi dell’arianesimo. Aveva proibito i riti pagani, emanando un editto per chiudere gli antichi templi. Aveva fatto rimuovere dalla sede del Senato, a Roma, l’Altare della Vittoria voluto da Ottaviano Augusto, sul quale da tempo immemore prestavano giuramento i membri del Senatus romano.

Sempre più preda di paure e ossessioni, aveva governato diffidando di tutti e isolandosi dal mondo esterno. Aveva affidato i contatti con i sudditi a una consorteria di perversi eunuchi, magistralmente manovrati dal peggiore di loro, Eusebio. Il preapositus sacri cubiculi aveva saputo sfruttare al massimo la propria posizione, amplificando le paure del sovrano e trovando complotti ovunque. In questo si era servito della rete di spie creata da Costanzo, che era cresciuta a dismisura fino a estendere i suoi tentacoli in ogni angolo dell’impero. I referendari erano diventati un piccolo esercito segreto i cui membri si erano presto resi conto dei loro poteri, e degli illeciti vantaggi che potevano ricavarne. Bastava essere denunciati da un agens per finire sul tavolo della tortura.

Costanzo II, Imperator christianissimus, aveva sterminato la sua famiglia, e parte del suo popolo. Quando morì, nessuno lo pianse. L’impero esultò per lo scampato pericolo di una guerra civile e acclamò Giuliano.

Costanzo lasciò un breve testamento, una lista di raccomandazioni per il suo smisurato seguito e qualche consiglio per la conduzione del mondo. Giuliano si chiese più volte se il testamento non fosse stato scritto dagli eunuchi di corte nel tentativo di ingraziarsi il nuovo padrone. Levò il campo da Naisso, raggiunse Nevitta e si incamminò verso la capitale d’Oriente.

Costantinopoli accolse il suo imperatore l’11 dicembre del 361, in una giornata mite e sotto un cielo terso.

Le strade erano addobbate a festa per Giuliano, che aveva rifiutato il cocchio dorato di Costanzo ed era entrato in città a cavallo. Tutti volevano vedere il giovane eletto dal cielo che aveva vinto i terribili Alemanni, liberando le Gallie per poi marciare contro Costanzo. Tutti volevano vedere l’adoratore degli antichi dei che aveva conquistato l’impero senza spargere sangue.

Giuliano avanzava tra la folla che lo acclamava, mentre le vie dell’antica Bisanzio si andavano sempre più coprendo di un tappeto di petali di fiori. Il suo nome echeggiava da una piazza all’altra e gli ci vollero ore per attraversare la città.

Victor si guardò intorno, intimorito dalla gigantesca statua di Costantino il Grande. La città sembrava appena costruita, gli edifici erano nuovi e puliti. Osservò stupito i colori, i colonnati, le statue, l’opulenza di quella città. Non capiva la loro lingua, ma coglieva la gioia di tutti. Avrebbe voluto che Suana fosse lì, a condividere con lui quel momento.

La processione continuò conducendo l’Augusto lungo la Mese, la strada principale che portava al palazzo imperiale. Alla fine del viale si ergeva il Milion, il cippo che indicava il centro dell’impero, punto di partenza da cui venivano calcolate tutte le distanze. Costantino lo aveva voluto nella sua città per emulare l’antico Miliarum Aureum di Roma. Oltre il Milion si apriva l’Augustaion, la grande piazza, anticamera a cielo aperto del Sacro Palazzo. Al centro erano schierate centinaia di persone che indossavano la toga contabulata, i senatori della città. Dietro di loro, sul lato orientale si ergeva il Senato di Costantinopoli, che si contrapponeva a occidente con la Chalke, la monumentale porta del palazzo con il cancello dorato e i giganteschi battenti bronzei. Più in là sorgeva una basilica maestosa. Doveva essere Hagia Sophia, inaugurata l’anno prima da Costanzo. Giuliano intendeva trasformarla in un tempio dedicato ad Athena glaukopis, Atena dagli occhi di civetta.

Giuliano scese da cavallo ai piedi della colonna dorata in mezzo alla piazza, dove troneggiava la statua della madre di Costantino il Grande. Guardò in controluce, infastidito, la sagoma della prozia. Poi un ufficiale anziano delle guardie imperiali di Costanzo lo condusse alla Chalke, per la cerimonia di apertura.

Quando finalmente la porta si aprì, Victor scorse le guardie scolari di Costanzo, migliaia di armature che brillavano al sole.

Al centro dello schieramento vi erano i dragoni dell’imperatore, le code purpuree che ondeggiavano pigre nel vento. Uno tra tutti spiccava sugli altri. Era ricoperto d’oro e di gemme preziose. Il draconarius era un soldato enorme, con un’armatura a scaglie di foggia orientale.

Victor lo fissò, mentre la guardia di Giuliano si schierava di fronte ai protectores di Costanzo. L’uomo dal drago dorato uscì dai ranghi, si avvicinò a Giuliano e abbassò il draco verso l’imperatore. «Te lo affido.»

«Ne sarò degno.» L’imperatore prese l’insegna dalle mani del magister draconum.

L’esercito era formalmente passato sotto la guida del nuovo imperatore. E Victor seppe che da quell’istante era lui il protector divini lateris, il protettore del fianco divino.

Giuliano varcò la soglia della Chalke a piedi, dopo aver rifiutato anche la portantina imperiale. Un esercito di eunuchi e valletti vestiti di sete variopinte gli si inchinò davanti. Il responsabile delle cerimonie, un eunuco glabro dalla tunica tempestata di pietre preziose, iniziò a presentare lo stuolo di servi destinati alla cura della sacra persona dell’imperatore.

Giuliano sbuffò.

«Sii paziente, mio Augusto» gli suggerì Prisco.

«Quest’armatura pesa maledettamente.»

«Puoi dichiarare guerra al mondo, promulgare leggi, eleggere senatori, ripristinare gli antichi culti… Ma il rituale dell’investitura non si tocca!» Il filosofo sorrise.

«Davvero?»

Giuliano attese ancora un po’, poi fece da parte l’eunuco e si avviò, seguito dai suoi rudi Galli, anch’essi a disagio per tutto quel cerimoniale.

«I miei uomini hanno fame» disse il nuovo sovrano, in greco.

Il gran cerimoniere non sapeva che fare, perché non era autorizzato a parlare con l’imperatore. Costanzo non lo aveva mai nemmeno guardato in viso.

«Sto parlando con te, mi senti?»

«Il pranzo» balbettò il gran cerimoniere «il pranzo dell’imperatore sarà… sarà servito nella sala dei ricevimenti dei Diciannove Akkubita, appena finita la presentazione…»

«La presentazione è finita ora. Portaci alla sala dei Diciannove Akkubita.»

Il gran cerimoniere si tirò su la tunica per tenere il passo di Giuliano e dei suoi protectores. «Il padiglione che ospita la sala delle cerimonie dei Diciannove Akkubita, si trova nell’ala occidentale del palazzo, accanto all’ippodromo.»

«Lo dicevo io, che facevamo prima ad entrare a cavallo» borbottò Nevitta.

Il gruppo uscì in un porticato dal pavimento a mosaici e si incamminò in un altro padiglione, ornato di colonne. Uno stuolo di teste lungo le pareti si inchinò al passaggio dell’Augusto.

«Sono tutti al tuo servizio?» la domanda di Prisco fu sussurrata.

«Me lo chiedo anch’io» disse Giuliano. Si rivolse al maestro di cerimonie. «Chi sono, tutti costoro?»

«Il personale di palazzo, mio Augusto.»

«Mangiano tutti qui?»

«Si, mio Augusto, vivono in un’ala con le loro famiglie.»

Raggiunsero, sempre più sbalorditi, un chiostro che dava su un giardino esotico, dove si aggiravano dei pavoni bianchi. L’eunuco fece strada sempre più imbarazzato e passò lungo il colonnato, dove erano schierate altre guardie con lussuose armature da parata.

Ci volle tempo per raggiungere il padiglione dei Diciannove Akkubita, una costruzione dedicata ai banchetti in cui lungo le pareti erano disposte diciannove tavole, collocate ognuna in una nicchia. All’ingresso l’imperatore fu ricevuto con tutti gli onori dagli eunuchi di corte. Il loro profumo dolciastro fece starnutire Nevitta. Gli eunuchi si muovevano con grazia nelle loro vesti di seta come se scivolassero sui marmi del pavimento, come barche sull’acqua.

Eusebio si ergeva imponente, in mezzo agli altri eunuchi. Si inchinò prostrandosi al suo nuovo signore e un effluvio di essenza di rose investì la sacra figura dell’Augusto. «Mio imperatore, signore del mondo, non esistono parole per esprimere la felicità di vederti qui con noi. Costantinopoli desiderava ardentemente il tuo arrivo.»

«Speravo di non vederti qui, Eusebio» disse asciutto Giuliano.

«Ho atteso con ansia il momento di poterti vedere, per offrirti i miei servigi.» Eusebio si inginocchiò, rapido nonostante gli strati di sete e di grasso, a baciargli la mano. L’eunuco rimase immobile per qualche istante, chino in quella posa grottesca, proteso verso una mano che non venne.

«Eusebio pranzerà con noi,» disse Giuliano a Victor «poi gli mostrerai le segrete del palazzo.»

L’eunuco non trovò una risposta.

La salma di Costanzo rientrò a Costantinopoli due giorni dopo l’arrivo a palazzo di Giuliano. I funerali solenni si tennero nella chiesa dei Santi Apostoli, per volontà del defunto. La chiesa era stata eretta da Costantino il Grande come mausoleo imperiale, dove le sue spoglie riposavano tra dodici cenotafi che rappresentavano i dodici apostoli, quasi a proclamarsi il tredicesimo dei primi seguaci del Cristo.

Giuliano era in testa al corteo funebre dietro il feretro, tirato da sedici cavalli neri. Era lo stesso carro usato da Costantino il Grande per il suo viaggio verso il riposo eterno. Un turbinio di pensieri lo accompagnò durante tutta la cerimonia.

Aveva temuto Costanzo per tutta la vita. Lo rivide davanti a sé con quel suo sguardo distaccato, carico di disprezzo. Ricordò quante volte il suo precettore avesse aperto una lettera proveniente dalla corte con il timore che annunciasse la sua condanna. Ricordò le preghiere agli dei perché il cibo non fosse avvelenato, e quel boccone non fosse l’ultimo.

Ricordò persino l’invidia per i figli dei contadini che lavoravano alla casa di Macellum. Poveri e scalzi, ma avevano dei genitori che li amavano. Anni di esilio, di prigionia dorata, di paura.

E ora il colpevole era lì, dentro a quel feretro, senza più alcun potere.

Era lì, con il viso annerito, le guance scavate e la bocca semiaperta. A nulla valevano le statue con la sua effige che dall’alto osservavano il corteo. A nulla valevano le immagini sacre che aveva seminato per tutta Costantinopoli. Lui era lì, morto, mentre Giuliano era vivo. Sì, vivo.

La mente tornò alla notte precedente, quando la porta si era chiusa alle sue spalle e Giuliano era rimasto solo nella sacra camera da letto, di fronte alle finestre che davano sui giardini pensili illuminati dalla luna, che tingeva di argento il Mar di Marmara.

Si era mosso nel silenzio ovattato della grande stanza, tra profumi di incensi, vasi preziosi in vetro iridescente, ciotole in alabastro finissimo e cofanetti aurei incastonati di pietre e cammei preziosi. La testa di Marco Aurelio spandeva la sua enorme ombra sulla parete, quasi a voler dissimulare tanto sfarzo. Le dita accarezzarono la statuetta di Helios, con la sua corona radiata, il timone nella destra e il globo nella sinistra, pronto a elargire i suoi raggi benefici sull’intero cosmo. E poi cuscini, grandi, piccoli, in ogni angolo, ricamati e impreziositi da opalescenti perline di Bassora…

In quel nido sfarzoso, circondato da un lusso abbagliante, Costanzo aveva più volte preso sonno mentre studiava un modo per distruggerlo.

Ora non più. Era dentro a quel feretro, senza più alcun potere.

Quando lo schiavo aprì il cancello della lussuosa residenza di campagna, i cavalieri entrarono al trotto. Si fermarono davanti all’edificio principale, che si ergeva maestoso tra oleandri e piante d’alloro. Tre dei cavalieri smontarono, e quello che sembrava il capo fece un cenno al maggiordomo apparso sulla soglia. «Ho un messaggio per il tuo padrone, da parte dell’imperatore.»

«Chi devo annunciare?»

«Accompagnami e basta» disse Victor. «Non è una visita di cortesia.» Il maggiordomo precedette il protector e altri due soldati nell’atrio della villa. Superato il cortile interno, si fermò davanti a una porta e guardò Victor che annuì.

«Mio signore,» disse il maggiordomo «un corriere chiede di conferire con te. Ha un messaggio dell’imperatore.»

«Un corriere? Lo conosciamo?»

Draco spinse di lato il maggiordomo ed entrò. «Lui non mi conosce, Apodemio, ma tu dovresti ricordarti di me.»

Il notarius lasciò la pergamena che stava leggendo e fissò il draconarius, incapace di parlare.

«Hai visto uno spettro, Apodemio?» Il franco gettò il dispaccio sigillato sulla scrivania. «Gran bella villa, a proposito.»

Tremando, Apodemio ruppe il sigillo del dispaccio senza staccare gli occhi dal soldato, che credeva morto fin dai tempi dell’assedio di Senones.

«C’è scritto che devo condurti a Calcedonia, dove si terrà il processo per alto tradimento contro tutti coloro che hanno cospirato contro l’Augusto Giuliano.»

Apodemio impallidì, muto.

«L’imperatore mi autorizza a comunicarti che la tua sentenza è già stata emessa. Mi ha mandato a prelevarti su mia precisa richiesta. Ci tenevo a farlo io. Un viaggio lungo, ma ne valeva la pena.»

«E tu non sarai giudicato, Victor? Tu lavoravi per me.»

Il protector alzò le spalle. «Acqua passata. E dopo che hai cercato di uccidermi a Remi, non so chi ti darebbe credito.»

«Io eseguivo solo gli ordini di Catena, e Marcello e Florenzio erano al corrente di tutto.»

«Catena ti aspetta a Calcedonia. Gli altri li stiamo andando a prendere.»

«Ascoltami, ho molti soldi, quanto basta per…»

«Tu non hai più nulla.» Victor accennò alla stanza. «Da questo momento, tutto il tuo patrimonio è requisito. La casa e tutti i tuoi beni saranno venduti, e il ricavato diviso tra lo stato e gli eredi delle vittime dei tuoi soprusi. Una volta redatto questo elenco, sarà eseguita la sentenza.»

L’agens deglutì, la fronte coperta di sudore viscido.

«Ho chiesto all’imperatore di poter accendere la tua pira, e ha acconsentito. Ti terrò compagnia fino alla fine.»

L’istituzione del tribunale di Calcedonia, cittadina sulla riva del Bosforo di fronte a Costantinopoli, fu tra i primi atti di Giuliano imperatore. Era un tribunale militare che doveva giudicare gli alti funzionari di Costanzo II, in particolar modo per il loro coinvolgimento nella morte di Gallo, fratello dell’imperatore. Fu una messinscena con cui Giuliano si sbarazzò dei vertici del vecchio regime.

A presiedere a tutti i processi fu chiamato il prefetto del pretorio per l’Oriente, Saluzio Secondo, affiancato da prefetti e generali come Arbizione, uomo di Costanzo che stava cercando di redimersi.

Le prime sentenze furono discutibili. L’ex capo della cancelleria, ritenuto colpevole di aver accusato falsamente Gallo nel tempo in cui questi rivestiva la carica di Cesare, fu confinato in Britannia anche in mancanza di prove. Per analoghi motivi, e con la stessa mancanza di prove, furono esiliati diversi altri funzionari di un certo grado.

Florenzio, già prefetto del pretorio di Vienne, fu ritenuto colpevole di aver tramato contro Giuliano per impedirgli di svolgere le sue funzioni di Cesare. Le accuse erano deboli, perché all’epoca Florenzio non faceva che attenersi alle disposizioni di Costanzo. Documenti e testimonianze lo collegarono però all’assassinio del generale Silvano, falsamente accusato di tradimento, e il prefetto fu condannato a morte in contumacia.

Paolo Catena, responsabile del servizio di spionaggio di Costanzo, fu condannato a morire sul rogo per la sua partecipazione ai complotti contro Costanzo Gallo e Claudio Silvano. Fu poi ritenuto colpevole di aver torturato e ucciso decine di cittadini romani, per strappare loro confessioni di crimini inventati, e di aver perseguitato le loro famiglie.

Analoga sorte toccò ad Apodemio, agens in rebus al servizio di Costanzo, accusato degli stessi delitti. Prima di morire, fornì una lista di agenti dello spionaggio che avevano operato ai suoi ordini. L’elenco fu messo agli atti.

La sua pira fu accesa da Victor, che presenziò al rogo fino alla fine.

Il gran ciambellano Eusebio, praepositus sacri cubicoli di Costanzo, fu ritenuto colpevole di così tante accuse da riempire interi fascicoli di atti giudiziari, compresa quella di essersi appropriato dei beni di decine di cittadini romani innocenti, accusati ingiustamente di tradimento, torturati e uccisi.

Fu condannato a morte per decapitazione.

«Fuori!»

Victor riconobbe la voce di Giuliano e stava per chiedere cosa stesse accadendo, quando vide uscire in tutta fretta dallo studio dell’Augusto un uomo grassoccio di bassa statura, dalla veste finemente ricamata. L’uomo, che reggeva una sacca in pelle dal misterioso contenuto, aveva un’espressione terrorizzata.

D’istinto il franco lo agguantò per una spalla. «Fermo, tu!»

«Lascialo, Draco» disse il giovane imperatore. «È solo un barbiere, non un sicario, per quanto certi sicari a pagamento potrebbero aver convenienza a far cambio con lui, visto quanto guadagna.»

Il draconarius lo guardò senza capire. «Avevo chiesto un barbiere, per spuntarmi la barba, e mi mandano questo damerino profumato ed elegante. Comprendo bene che questa è Costantinopoli, non un villaggio di pastori, ma che un barbiere guadagni più di sei volte la paga di un soldato dei petulanti, e insista nel dire che è giusto così, questo no! Comunque, farò licenziare tutti i servitori superflui.»

Di rado Victor ricordava di averlo visto così alterato.

«Qui tutti pregano e adorano reliquie: vantiamo anche un pezzo della Vera Croce e i sacri chiodi usati nel supplizio. Ma ciò che adorano veramente è il lusso, lo spreco più offensivo!»

«Temo allora di non darti grande conforto, dopo le ispezioni che ho fatto nelle caserme» disse il franco.

Giuliano sbuffò irritato, e si mise a sedere. «Sentiamo.»

«Le guardie scolari non sono da meno degli eunuchi, mio Augusto. Le camerate sembrano regge, e hanno servi che si occupano dell’equipaggiamento e di tutto il resto. Cavalli degni di un principe e armature e spade da cerimonia cariche d’oro, del tutto inutili in battaglia.»

Giuliano ascoltava sempre più stizzito.

«Mangiano cibi prelibati in stoviglie d’oro e d’argento. Tutto è a carico dell’erario, anche il vino. È il modello messo in piedi da Eusebio: comincia con i generali che si ingrassano con i fornitori dell’esercito, e arriva fino all’ultimo ufficiale, che si accontenta delle briciole.»

L’imperatore balzò in piedi e si mise a urlare. «Li caccio via tutti!» La stizza si era trasformata in rabbia.

«Calmati, ti prego, Augusto» intervenne Prisco, che fin dal primo momento agiva come consigliere del giovane imperatore. «Sei già intervenuto in modo drastico. Hai già cacciato via o dimezzato eunuchi, servi, valletti, giardinieri, ora anche i barbieri. Ci sono interi padiglioni disabitati.»

«Se vogliamo fare una riforma non dobbiamo fare eccezioni. Vogliamo vedere quanto abbiamo risparmiato, con queste misure?»

«Però tutti quelli che hai messo alla porta non hanno più un lavoro per sfamare le famiglie.»

«Questo era il regno dello sperpero, Prisco. Ci si può sfamare mezza Gallia, con i soldi che ingoia ogni giorno questo palazzo. Non sopporto un simile spreco, e io per primo devo dare l’esempio.» Giuliano guardò Victor. «Forse sarò troppo drastico. Ma viene il momento in cui non si possono più rimandare, certi conti, per quanto dolorosi.»

Draco si guardò intorno nervoso, la mano sul pomo della spada. Era nell’ufficio per anni appartenuto a Catena, la stanza in cui Eusebio, Apodemio e i loro accoliti si ritrovavano a tessere intrighi e decretare condanne a morte nel loro unico interesse. Anche se avevano pagato il fio delle loro colpe, quelle pareti sembravano conservarne la memoria, come se i destini decisi su quell’ampia scrivania in legno intarsiato chiedessero ancora giustizia.

Giuliano entrò nella stanza e salutò il suo fedele draconarius. «Siedi, Victor.»

Lo sguardo del franco era attratto dall’incartamento che l’imperatore aveva deposto sulla superficie perfettamente lucidata. Lì dentro c’era anche la verità su di lui.

«Gli archivi stanno restituendo informazioni interessanti, anche se spesso raccapriccianti. Ogni giorno emergono nuovi documenti.» Giuliano si lasciò sfuggire un sorriso malinconico. «Si capisce il motivo di tanti comportamenti… Marcello, Florenzio, Barbazione, tutti manovrati da Costanzo. Ho trovato buona parte della corrispondenza tra l’imperatore e il prefetto delle Gallie. Ero circondato da spie, che riferivano ogni mio respiro.»

Victor annuì imbarazzato, a denti stretti.

«Costanzo era ossessionato dalla mania di archiviare tutto, e chissà quante altre cose compromettenti avrà fatto sparire quel laido individuo di Eusebio, dopo la morte di Costanzo e prima del mio arrivo.» Giuliano sfogliò le carte che aveva davanti. «Come sai, volevamo verificare la lista di spie fornita da Apodemio durante il processo. Il più interessato, a dire il vero, è Arbizione. Io sono riluttante a mettere le mani nel torbido. Certe cose sarebbe meglio non vederle, ma se si vedono, non si possono lasciare impunite. Capisci?»

«Sì, mio Augusto.»

«Come puoi immaginare,» continuò Giuliano «sarebbe un bel colpo per un generale di Costanzo provare l’infedeltà di qualcuno del mio seguito. Arbizione è potente, e si sta dando molto da fare per mantenere la sua posizione all’interno dell’esercito. Ma secondo me è un figlio di puttana e sta cercando di usare i nostri accertamenti per eliminare i suoi avversari.» Batté la mano sul plico. «Anche lui ci ha fornito un suo elenco delle spie al servizio di Catena.»

Draco alzò lo sguardo e incontrò gli occhi dell’imperatore. «C’è anche il tuo nome qui dentro, Victor.»

Vi fu un interminabile momento di silenzio.

«Non ti nascondo che sono rimasto molto sorpreso. Arbizione scrive che l’armidoctor del Cesare delle Gallie è un uomo di Apodemio. Una spia, un referendario, pronto a uccidermi in qualsiasi momento.»

Il franco sentì che era giunto il momento della verità, e provò – insieme al dolore e alla vergogna – una strana sensazione di sollievo.

«Il tuo nome era anche nella lista di Apodemio,» proseguì Giuliano «quindi ci siamo. Tuttavia c’è un altro documento trovato in questo ufficio che a mio parere è ancora più interessante di quello di Arbizione. Ed è una fortuna che nei momenti più confusi del passaggio di poteri Catena, o chi per lui, non lo abbia distrutto.»

Victor attese, respirando lentamente, di sentir pronunciare la sua condanna.

«È una lettera del luglio del 356, quindi prima dell’assedio di Senones, scritta e firmata da Apodemio e indirizzata a Catena. Si chiede l’autorizzazione a eliminare il draconarius della… Scimmia imporporata,» Giuliano accennò un sorriso sarcastico «che sarei poi io. All’epoca non mi chiamavano ancora “Vittorino”… Il punto è che li avevi traditi per diventare uno dei miei più fedeli sostenitori, quindi dovevi morire.»

Di nuovo calò il silenzio nella stanza. Di nuovo fu Giuliano a romperlo. «È un evidente paradosso che una condanna a morte diventi una fonte di salvezza, ma sto imparando a non stupirmi della vita. E in questo gioco di accuse e contraccuse, non privo di paradossi, mi piacerebbe sapere a che gioco sta giocando il furbo Arbizione» disse l’Augusto. Poi spinse il plico verso Victor. «Vuoi provare a scoprirlo?»

Il draconarius si alzò, tergendosi il sudore dalla fronte. Era confuso, impacciato.

«Ascolta, Draco. Io sono qui per volere degli dei, e so che ti hanno messo al mio fianco per aiutarmi a portare a termine il loro volere. Non mi importa com’è iniziata questa storia, non mi importa per quali vie arcane il tuo destino e il mio si sono incontrati. Mi importa sapere che sei con me, adesso, perché è adesso che possiamo cominciare a cambiare il mondo.»

Victor annuì, soggiogato.

«Uno dei privilegi della mia posizione è quello di poter stabilire qual è la verità ufficiale, quale che sia la verità vera. I miei predecessori ne hanno usato e abusato, la storia mi perdonerà se lo farò anch’io.» Una pausa calcolata, da oratore. «I verbali del processo di Calcedonia scompariranno, così come la lista di Arbizione e la lettera di Apodemio. Tu però smantella e disperdi ai quattro venti quest’accozzaglia di spie e di assassini. Per la mia cancelleria ho bisogno di quattro scrivani e diciassette messaggeri. Nient’altro. Niente spie, agentes in rebus o referendari. Il meccanismo di Catena deve scomparire, e se Arbizione ne è un ingranaggio, deve scomparire anche lui.»

Victor era esausto. Svuotò un bicchiere di vino fresco, per spegnere l’arsura, e tornò a sfogliare le carte, ancora incredulo per quello che era accaduto.

Elenchi di nomi, a cui a volte associava volti, si intrecciavano come rami di un grande albero. La rete di spie nata dalla mente di Costanzo si era moltiplicata, crescendo a dismisura.

Rilesse la lettera di Apodemio, una condanna tramutata in salvezza. Scorse ancora la lunga nota. Nomi di soldati, corrieri, inservienti, eunuchi e nomi importanti come il generale Barbazione, giustiziato per tradimento da Costanzo. Victor si mise a cercare dei legami, qualcosa non tornava, ma non sapeva cosa. Altri nomi ben noti a Draco, come Decenzio e Gaudenzio, e poi una sorpresa, il generale Ursicino.

Il franco scosse il capo. Era lui che aveva il compito di spiare Ursicino all’epoca della missione contro Claudio Silvano, a Colonia Agrippina. Ursicino era spia e spiato. Spiato da lui, Victor, figlio di Klothar di Merseen, che era nell’elenco. E da Filopatròs. Avevano viaggiato insieme…

Filopatròs.

Victor esaminò la lista di nuovo, dal principio.

Filopatròs non compariva. Mentre avrebbe dovuto esserci, e dopo Lutezia Victor ne era certo. Un altro inganno?

Picchiò un pugno sul tavolo, e rovesciò la caraffa, proprio come quella sera nell’alloggio del greco… Balzò in piedi imprecando e raccolse i fogli bagnati di vino. Uno schizzo violaceo aveva impregnato la lettera di Apodemio, e il protector cercò di tamponarlo con la manica, per evitare di rovinare l’unica prova che lo aveva salvato, per il momento, da morte certa.

La firma era ancora integra, mentre il testo era un po’ rovinato. In realtà, più provava a tamponare lo scritto e più lo danneggiava. Draco osservò la pergamena in controluce. Il rosso violaceo del vino sembrava formare altre parole. Guardò con più attenzione e sì, c’era un altro testo. Illeggibile, ma c’era. Forse la pergamena era stata riutilizzata, o il testo originale era stato cancellato.

Victor inumidì un cencio e provò a passarlo su un angolo della data. Come per magia, il numero sbiadì. Ripeté la stessa operazione su parte della firma. Niente.

L’inchiostro della firma non era lo stesso del testo.

Quello del testo era l’inchiostro in uso nell’esercito, fuliggine di resina e feccia di vino, diluite con acqua e gomma arabica. Quello della firma, al contrario, doveva contenere del rame o del ferro, quindi era più resistente. Un inchiostro adatto a chi aveva apposto quella firma, cioè Apodemio.

La lettera era un falso.

Chi l’aveva scritta?

Victor uscì dal cancello di Chalke e attraversò l’Augusteion. Passò sotto la colonna della madre di Costantino e arrivò a Hagia Sophia. Entrò nell’immensa basilica e i suoi passi riecheggiarono tra i colonnati.

Filopatròs pregava in ginocchio, rivolto all’altare. Victor si mise al suo fianco, ipnotizzato dall’incanto di quel luogo sacro.

«Sei venuto a parlare con Dio, franco?»

«A dire il vero, sono venuto a parlare con te» disse Draco. «Usciamo nel chiostro, ho qualcosa da farti vedere.»

I due protectores si spostarono nel giardino interno della basilica. Rimasero qualche istante accanto alla fontana al centro, a godersi il silenzio di quel mattino di fine inverno.

«Guarda qui» disse il franco.

Filopatròs osservò lo schema tracciato dall’amico, basato sulla lista di Arbizione. Il greco scorse i nomi senza tradire la minima emozione. Poi riconsegnò il foglio a Victor. «Allora?»

«La lista ti sembra completa?»

Filopatròs annuì.

«Non ti sembra che manchi un nome?»

«Non mi pare, no.»

«No? Come mai non c’è il tuo, Filopatròs? Non sei uno degli uomini del Catena?»

«No, Victor.»

Il franco si sedette sull’erba e guardò l’amico, chiedendosi quale altra sorpresa gli riservava. «Spiegami.»

Filopatròs restò qualche istante in silenzio mentre l’acqua scendeva dalle bocche dei leoni della scultura, poi parlò.

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«Mio padre servì sotto Costantino il Grande e combatté alla battaglia di Ponte Milvio, nel 312. Costantino vinse, mio padre rimase storpio. Ottenne un piccolo appezzamento di terreno fuori Antiochia che coltivò con mia madre, ricavandone quel tanto per campare. Quando venni al mondo, mio padre pensò di aggiungere un altro pezzo di terra, contando sul mio futuro aiuto. Lui si indebitò, e io già da bambino dovetti lavorare sodo per aiutarlo. Poi venne la siccità, e la carestia. Fu terribile, e fu proprio quando mia madre mise al mondo mia sorella. I creditori ci lasciarono sul lastrico, la penuria di cibo e le guerre fecero il resto. Dovemmo andare ad Antiochia, in cerca di fortuna. Era una città bellissima, ma piena di disperati come noi. Sfollati, storpi, malati, vecchi… La Chiesa faceva quello che poteva, ma le bocche da sfamare erano troppe. Mia madre morì poche settimane dopo il parto, e io mi ritrovai con una bambina appena nata e uno storpio. Li affidai a un convento e mi presentai alla guarnigione dei limitanei di Antiochia. La vita militare non era un granché, ma bastava a sfamare me e loro. E mentre facevo la guardia sulle torri, vedevo i monaci mendicanti che aiutavano i malati, nella piazza della basilica. Fu così che mi feci cristiano. Cominciai a scortare i preti che dovevano andare fuori città…

«Fu nel 345 che il vicario della diocesi di Antiochia fece il mio nome per accompagnare un vescovo presso una tenuta imperiale in Cesarea. Dovevo portare a Macellum, una residenza ai piedi del monte Argeo, un vescovo ariano di nome Giorgio di Cappadocia, venuto da Alessandria.» Filopatròs raccolse un ramoscello prima di continuare. «Ero contento, il vescovo era un personaggio importante, e godeva dei favori dell’imperatore Costanzo. Da buon cristiano ascoltavo i suoi insegnamenti, anche se non capivo cosa ci andasse a fare, uno così importante, in quel posto sperduto in fondo all’Anatolia. Una volta arrivati laggiù, scoprii che il suo compito era educare due giovani orfani ai precetti della fede cristiana.

Erano Flavio Claudio Giuliano e Flavio Costanzo Gallo, i cugini dell’imperatore.» Filopatròs spezzò il rametto tra le dita. «Il vescovo era contento di me, e convinse il mio comandante a trasferirmi alle sue dipendenze come scorta personale, insieme ad altri tre soldati. A Macellum era come essere in ritiro spirituale. Tutto quello che dovevamo fare era scortare i ragazzi e il vescovo e non perderli mai di vista, ma a distanza, perché ci era vietato parlare con loro. Ascoltavo qualcosa delle lezioni del vescovo Giorgio, che nutriva molte aspettative per il più giovane dei due fratelli. Io tenevo d’occhio il ragazzo, lo seguivo nelle sue solitarie passeggiate al tramonto… Era un portento e conosceva alla perfezione il Vecchio e il Nuovo Testamento, mentre Gallo non imparava niente e aveva in testa solo la caccia e la lotta.

«La mia esistenza cambiò due anni dopo, quando un messaggero venne ad annunciare l’imminente arrivo dell’imperatore, che era in viaggio con tutta la corte. Dovemmo pulire e riordinare tutto, per accogliere Costanzo come meglio si poteva. Un gran via vai di gente… E uno degli ospiti di passaggio era Eusebio, il gran ciambellano dell’imperatore.»

Lo sguardo del greco si fece cupo, al ricordo. «Fu lui a farmi chiamare, mentre era qui al seguito di Costanzo. Mi fece molte domande, su di me, sui ragazzi e sul vescovo. Poi mi disse che meritavo un compenso per il mio lavoro, e mi chiese a chi poteva farlo avere. Gli dissi dove vivevano mio padre e mia sorella. E così iniziai a lavorare per lui.»

Per un po’ nessuno dei due disse nulla.

«Sì, ma la domanda resta,» disse Victor «perché non sei nella lista?»

«Perché sono un uomo di Eusebio, non di Catena. Arbizione non conosce tutte le ramificazioni dello spionaggio imperiale.»

Il franco si alzò e guardò Filopatròs, incredulo. La rete era immensa, quindi la lista era solo un ramo di una pianta che aveva radici ovunque, nell’impero. «Il vostro compito era sorvegliare le spie di Catena, dunque?»

«La missione ci veniva assegnata di volta in volta. Non sapevamo altro…»

Victor allargò le braccia, sconsolato. «Spie ovunque. Come sarà possibile smantellare una simile organizzazione, come chiede l’Augusto Giuliano?»

«L’organizzazione è già smantellata, franco. Agivamo da soli, guidati da Eusebio e dai suoi. Morti loro, credo che quasi tutti si siano trovati senza contatti, e nessuno adesso ha voglia di rischiare la testa confessando di aver lavorato ai loro ordini.»

Victor annuì, poi lo abbracciò. «Devo andare, greco. Ma sono contento che tu non sia in quella lista.»

Mentre tornava dal Cesare, Victor incrociò una fila di persone che stavano mestamente lasciando il palazzo, vittime delle scelte radicali del nuovo Augusto: tesorieri, maggiordomi, servi, camerieri… I nuovi padroni, i legionari dell’esercito delle Gallie, assistevano a quell’esodo con malcelata soddisfazione. Era la fine di un’era.

Draco entrò nell’androne e salì al primo piano. Al suo passaggio le guardie dei petulanti lo salutarono e si fecero da parte. Nella sala delle udienze, Giuliano era a colloquio con due corrieri che dicevano di sapere dov’era nascosto Florenzio, il vecchio prefetto delle Gallie, ed erano disposti a denunciarlo se l’imperatore li avesse mantenuti in servizio.

«Uscite di qui, prima che vi faccia sbattere in carcere! Un imperatore non ha bisogno di questo, per raccogliere informazioni. E che Florenzio se ne stia pure rintanato in una grotta, se ha paura di affrontare la giustizia. Avrà più tempo per meditare sulla sua miseria.»

I due se ne andarono con la coda tra le gambe. Giuliano sembrava esausto. «Draco, hai buone notizie?»

Il franco gli restituì l’incartamento, e la sua mappa con la lista dei nomi. Non aveva cancellato il suo. Giuliano esaminò il foglio, poi alzò lo sguardo verso il protector e disse a tutti i presenti di uscire. Rimasero uno di fronte all’altro, in silenzio, fino a quando tutte le porte non furono chiuse.

«La lista redatta da Arbizione è vera» disse Victor. «L’ho trascritta a quel modo per distinguere i comandanti dagli esecutori. Molti di quei nomi sono inutili, perché gli uomini sono morti. Altri sono scomparsi, per timore di rappresaglie. In ogni caso, senza i vertici l’organizzazione non reggerà e si scioglierà come neve al sole. Gli agenti non si conoscevano quasi mai tra loro.»

«Bene,» commentò Giuliano «questa è una buona notizia. C’è altro?»

Il protector porse all’imperatore la lettera di Apodemio.

«Sì. Questa lettera è un falso. La firma è vera, ma il testo è stato aggiunto dopo, non so da chi né perché.» Si tolse il balteo con la spada e lo depose sul grande tavolo che li divideva. «Ti ho mentito, mio Augusto. Ero un uomo di Apodemio e di Catena, fin da quando siamo partiti da Mediolanum. Ero pagato per farti da armidoctor e per proteggerti, ma dovevo essere pronto a ucciderti, se me l’avessero ordinato. È giusto che tu lo sappia, ed è giusto che io paghi.»

Giuliano abbassò lo sguardo sulla lettera. Rimase a lungo in silenzio, poi scosse il capo prima di parlare. «E continui a mentire» disse, riportando lo sguardo sul draconarius. «O meglio, a omettere la verità. Qualche esempio? Hai taciuto a tutti la mia venerazione per Helios, fin da quel tramonto sulla via per Augusta Taurinorum. Mi hai difeso dalle spade nemiche, nel mio primo scontro armato.» Giuliano lasciò sul tavolo la lettera. «Non hai detto di aver cavalcato portando il mio drago, a rischio della vita, sotto le mura di Tricasae. Di aver avvertito la guarnigione di Senones dell’arrivo degli Alemanni, salvando la città. Dell’attacco notturno al campo nemico, di come ti sei battuto sugli spalti, e di come eri pronto a farti torturare e uccidere da Apodemio, piuttosto che tradirmi… Non hai detto di aver raggiunto quel bastardo di Barbazione per fermare gli Alamanni sul Reno, di aver guidato gli uomini di Bainobaude a nuoto nel fiume di notte e di aver liberato le rive permettendo la nostra avanzata anche senza flotta. Non hai detto di aver mangiato la mia stessa polvere a Strasburgo e di aver tenuto il drago in vista per i nostri e per i nemici. Non hai detto di aver catturato Gigas, il temuto re degli Alamanni. Non hai detto di aver vegliato il mio sonno a Lutezia mentre le nostre stesse legioni ci asserragliavano nel palazzo. Non hai detto di aver rischiato la vita per starmi vicino nel drammatico momento sul podio di fronte ai petulanti

Victor colse una luce negli occhi dell’imperatore.

«Soprattutto, non hai detto di essere stato l’unico in questo nido di vipere chiamato corte – piena di esseri ambigui, di approfittatori, di traditori e di ipocriti – a dar prova di integrità morale e spirito di sacrificio non comuni. L’unico ad avere il coraggio di venire da me e dire la verità, anche se nessuno te l’aveva chiesto, anche quando, ancora una volta, avresti potuto salvarti, cancellando il tuo nome e il tuo passato con una spugna bagnata.» Giuliano indicò la lettera. «Quindi a chi hai mentito, Victor? A me o ad Apodemio?» Prese la pergamena e la mostrò al protector. «So bene che è un falso… l’ho fatto redigere io.»

L’imperatore di Roma aveva gli occhi lucidi. «L’ho fatto perché hai accompagnato un ragazzo goffo, solo, confuso e deriso da tutti lungo una strada piena di pericoli, dov’erano in agguato uomini potenti che lo volevano morto. Ho preso questa decisione perché quel ragazzo non sarebbe mai diventato imperatore, senza un uomo come te al suo fianco.»

Draco si sentì serrare la gola dall’emozione. Non riusciva a balbettare neanche una parola.

«E visto che è il momento della sincerità, neanch’io ti ho mai detto tutto.» Giuliano batté le mani. Subito entrò un valletto. «Fallo entrare» ordinò l’Augusto.

Il draconarius si voltò senza capire e vide Filopatròs fermo sulla soglia. Dopo un attimo di imbarazzo, il greco entrò e si sedette accanto a Victor, guardandolo ogni tanto di sottecchi.

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«Torniamo indietro a quattordici anni fa, Victor» disse Giuliano. «Tutto è cominciato durante il mio esilio nella tenuta imperiale di Macellum, nel 347. Ero un ragazzino confuso, con un passato terribile e un futuro incerto. Un vescovo fanatico, feroce e potente mi aveva spinto sulla via dell’iniziazione cristiana, cui mi ero dedicato con entusiasmo, fino a essere ammesso a leggere con voce chiara i testi delle Scritture durante la meditazione dei fedeli. In occasione della prima e unica visita a Macellum da parte di mio cugino Costanzo, il vescovo, Giorgio di Cappadocia, volle che leggessi io i Sacri Testi. Lessi e rilessi le Scritture, con il vescovo che mi bacchettava le dita al minimo errore, fino a imparare a memoria quello che avrei dovuto leggere il giorno dopo, alla presenza dell’imperatore e della sua corte.»

Lo sguardo di Giuliano si perse per qualche istante nel vuoto. «Avrei dovuto leggere quei testi davanti all’assassino di mio padre. Mi avrebbe ascoltato e giudicato. Sapevo che non avrei potuto guardarlo negli occhi e dal terrore mi misi a pregare, finché piansi. Fuggii in giardino e quasi mi scontrai con Lanice, la figlia maggiore del fattore, che stava sistemando dei fiori. Le feci cenno di non dire nulla, e lei vide i miei occhi gonfi di pianto. Mi chiese perché ero triste, e glielo spiegai. Ancora mi ricordo il suo sguardo, i suoi occhi scuri che mi soppesavano… Poi mi fece cenno di seguirla, e poco dopo si mise a rovistare tra le radici di una siepe. Da uno straccio ripiegato, estrasse un piccolo e consunto anello di bronzo, ornato da una testa bifronte. L’effigie di Giano. Me lo diede, e le chiesi come l’aveva avuto. Lo aveva trovato nel prato ancora bambina, ma aveva sempre avuto paura di portarlo in casa, perché temeva che il padre l’avrebbe gettato, o magari venduto. Era pericoloso farsi trovare con oggetti che raffiguravano gli antichi dei, così Lanice lo teneva nascosto, e ogni tanto andava a guardarlo. Mi disse di tenerlo addosso, nascosto, per superare l’importante prova del giorno dopo.»

Le labbra dell’imperatore si schiusero in un sorriso appena accennato. «Guardai bene l’anello, l’immagine di colui che gli antichi consideravano il padre degli dei. Giano, il dio dell’inizio di ogni cosa. Il dio che sorvegliava le porte, il dio che proteggeva chi entrava e chi usciva… “Forse domani ti aprirà una strada” mi sussurrò la figlia del fattore. Il contatto con l’anello e con la pelle di lei mi diede un brivido mai provato, come se avessi la febbre…»

Sospirò, e poi guardò Filopatròs. «Il mattino successivo entrai nella domus ecclesiae della villa con il cuore in subbuglio. Attesi al mio posto l’arrivo di Costanzo e del vescovo, anche se avrei voluto fuggire, scappare lontano, dissolvermi come l’incenso che bruciava… Nella mente vedevo le immagini della notte precedente. I baci di Lanice, le sue carezze, il profumo della sua pelle… con il suo amore aveva acceso la mia acerba virilità. Tornai al presente, al rito che stava per svolgersi, all’incenso nell’aria, così acre da far lacrimare gli occhi… Mi avviai all’altare, seguendo il lume di una lucerna a forma di nave con Pietro e Paolo, simbolo della Chiesa, posta sulla destra dell’altare.

Portai la mano sotto la tunica, per toccare l’anello, e mi sfuggì. Un lieve tintinnio di metallo, e il terrore nel pensare alle conseguenze, se l’avesse trovato il vescovo… ma Filopatròs si spostò appena e lo coprì con il calzare. Non si mosse di un dito fino alla fine della cerimonia.» I due si scambiarono uno sguardo. «Lessi, anzi recitai, con grande trasporto le Scritture, alzando di tanto in tanto lo sguardo, per valutare, dall’espressione dei presenti, come venivo giudicato. Solo allora notai la porta della domus ecclesiae spalancata, con i fasci di luce che entravano come lunghe dita fino a sfiorarmi. Era un segno, era Giano che si manifestava.»

Giuliano tacque, e fu la volta del greco. «Finita la cerimonia, mi chinai a raccogliere la cosa che avevo sotto il piede. Era un anello di bronzo di scarso valore. Non il genere di gioiello che adorna le mani dei nobili… Quindi doveva avere un significato importante, se il ragazzo lo aveva addosso in quel giorno solenne. Me lo nascosi sotto la corazza, e intanto vedevo lui che continuava a guardare il pavimento, sempre più preoccupato, ma non potevo avvicinarmi né parlargli, non sapevo bene come fare…»

«Vi immaginate» lo interruppe Giuliano «cosa mi sarebbe successo, se solo mi avessero trovato con addosso un oggetto sacrilego? Per fortuna che Filopatròs fu abile a nasconderlo! Me lo ridiede solo alcuni giorni dopo, mentre stavo contemplando l’orizzonte dalle pendici del monte Argeo. Costanzo e il suo seguito erano partiti.»

Nella destra dell’Augusto comparve un piccolo anello in bronzo. «Insieme a questo, Filopatròs mi fece un altro dono ancora più prezioso. Mi disse che Eusebio lo aveva pagato per spiarmi. Con quel denaro poteva garantire un’esistenza migliore al padre e alla sorella, ma non intendeva andare contro la sua morale cristiana aiutando un potente a fare del male a un’anima pura come la mia. Fu un giuramento di fedeltà reciproca. Da quel momento, Filopatròs iniziò a fare il doppio gioco con Eusebio, informandomi in anticipo di ogni sua mossa.»

Victor era stupefatto.

«Quando dovetti lasciare Macellum ci separammo» continuò Giuliano «ma grande fu la mia sorpresa nello scoprire, a Mediolanum, che Filopatròs faceva parte della mia scorta per il viaggio a Vienne. Pensai, e lo penso ancora, che dietro a questi avvenimenti vi fosse un disegno divino.»

«Eusebio» disse Filopatròs «mi aveva chiamato a Mediolanum da Antiochia, dov’ero diventato comandante della guarnigione, per un incarico della massima importanza. Dovevo controllare il giovane Cesare delle Gallie, e tutte le spie del suo seguito al soldo di Catena.»

«Era tutto calcolato, allora,» esclamò Victor «e voi sapevate tutto dall’inizio.»

«Fu Catena a fare in modo che, “per caso”, avessi tu il draco» disse Giuliano «il giorno della mia investitura. Diventando il mio draconarius mi saresti stato sempre vicino e avresti potuto controllarmi meglio. Eusebio invece assegnò a Filopatròs il compito di farmi da protector…»

«…E mi parlò di un franco di nome Victor» disse il greco «che faceva parte della scorta ed era al servizio di Catena. L’eunuco mi disse che dovevo sorvegliarvi tutti e due, il principe e te. Un lavoraccio!»

Victor stava ancora cercando di fare i conti con quella rivelazione. «Ma se sapevate fin dall’inizio, perché non mi avete eliminato, o anche solo allontanato?»

«Perché ne avrebbero mandato un altro» disse Giuliano. «Eusebio e Paolo Catena dovevano credere di avere la situazione in pugno. E poi, dopo aver capito che uomo eri, mi sono detto che ti volevo dalla nostra parte, a ogni costo.»

«Mi avete manovrato» disse il franco, lievemente risentito.

«Ecco, la sera in cui facesti a botte con Filopatròs per una donna, capimmo qual era la chiave per arrivare al tuo cuore. La bella Suana è stata la mossa vincente.»

«Murrula…»

«Non è stato facile trovarla, ma ne è valsa la pena.»

«Murrula… Suana sapeva di…?»

«No. La povera Murrula non sapeva nulla… e l’amore di Suana è sincero» disse il sovrano. «Sta arrivando a Costantinopoli e mi piacerebbe vedervi felici e definitivamente uniti.»

«Quando avete capito che potevate fidarvi veramente di me?»

«Dall’assedio di Senones. Da come ti sei comportato, abbiamo capito che ormai eri dei nostri.»

«E perché non dirmelo?»

«Tu me lo avresti detto, se il tuo nome non fosse comparso nella lista di Arbizione?»

Victor non rispose.

«È stato proprio il tuo nome in quella lista che ci ha ricordato il tuo passato. Così, per evitarti il rischio di un’epurazione, ci siamo inventati una lettera che ti scagionasse. Filopatròs conosceva il modo di trattare i testi per cancellarli. Bastava prendere dagli archivi una delle tante lettere firmate da Apodemio e il gioco era fatto. Io dettai e il nostro graeculo scrisse. Sembrava perfetto, come espediente.»

Gli sguardi si fecero complici. Victor scosse il capo, Filopatròs ridacchiò. «Non ci aspettavamo certo che venissi a sventolarci il falso sotto il naso, franco, accidenti a te!»

«L’ho sempre detto che sei una serpe, graeculo» disse Victor, in tono fintamente minaccioso.

Giuliano li guardò, scosse il capo e poi tutti e tre si misero a ridere, e per qualche istante furono sereni.

«E ora, mio Augusto, come farai a salvarmi?»

«Per colpa tua, che hai smascherato questo ottimo falso con un po’ di vino da taberna, sarò costretto a spedire Arbizione in qualche remoto angolo dell’impero, con un bel gruzzolo per tenerlo tranquillo.»

«E i documenti?»

«I documenti non sono mai esistiti» disse Giuliano, gettando il plico in un braciere.

Giuliano alzò le spalle. «Non temo il giudizio degli uomini, temo quello degli dei.»

Raccolse la spada di Victor, e gliela porse, dalla parte dell’impugnatura. «Loro mi hanno messo qui, con l’aiuto di qualche buon amico che, casualmente, hanno messo sulla mia strada.»