II

CLAUDIO SILVANO
Fine agosto del 355 d.C.

Al sorgere del sole, il generale Ursicino radunò i suoi soldati.

«Il nostro viaggio a tappe forzate sta per finire» disse. «Ancora un paio di giorni e arriveremo a Colonia Agrippina, dove consegneremo un messaggio del Divino Augusto al magister militum Claudio Silvano.»

Magister militum. Ursicino aveva nominato Silvano con lo stesso grado assegnatogli da Costanzo, riconoscendo in lui, quindi, il comandante in capo dell’esercito in Gallia.

«So cosa state pensando. Perché così tanti uomini per un messaggio? Non bastava un normale messaggero?» Li osservò, come sfidandoli a chiedere ragguagli. Nessuno aprì bocca. «Il Divino Augusto ordina a Claudio Silvano di tornare subito a Mediolanum, per questioni della massima importanza per la sicurezza dell’impero. Durante la sua assenza, sarò io a sostituirlo al comando dell’esercito, fino a nuovo ordine.» Il generale si schiarì la voce prima di continuare. «Il motivo per cui abbiamo dovuto cavalcare giorno e notte per arrivare il prima possibile a Colonia Agrippina, è che il generale Claudio Silvano, la settimana scorsa, si è autoproclamato imperatore.»

Gli uomini della scorta si resero conto, in quel momento, di avere intrapreso un viaggio in cui forse non era previsto il ritorno. Ammiano Marcellino, immobile come un busto di granito, aveva gli occhi puntati su Victor e Filopatròs per spiare ogni loro minima reazione.

«Dovevamo raggiungere la Germania prima che la notizia venisse divulgata. L’imperatore vuole indurre il magister militum Silvano a fare un passo indietro e presentarsi davanti a lui, per evitare spargimenti di sangue. E il motivo per cui sono stato scelto quale messaggero è che il comandante dell’esercito della Gallia sa di potersi fidare di me.» Il generale fece una pausa. «Ma farei torto alla vostra esperienza di soldati, se negassi che siamo sull’orlo di una guerra civile. Un incendio di cui potremmo essere noi la prima scintilla.»

Lo sguardo di Ammiano scivolò sugli uomini della scorta. «Confido in voi. Ora che siete consapevoli dell’importanza di questa missione, vi ricordo che avete giurato fedeltà a Flavio Giulio Costanzo, il nostro vero e unico imperatore, e vi chiedo di ripetere con me quelle parole!»

Il protector fece recitare agli uomini la formula del giuramento, ma dover ricordare ai soldati per chi stavano combattendo non era un buon segno. Quanti erano pronti a passare al nemico se la situazione avesse preso una brutta piega?

Sotto il cielo plumbeo di un’umida mattina di fine agosto, la colonna riprese la marcia. Silenziosi e scuri in volto gli uomini proseguirono, costeggiando il Reno. Cercarono di tenersi a distanza dalle fortificazioni e dalle torri di avvistamento disseminate lungo il fiume, ma il giorno successivo Victor notò le nubi di fumo che si alzavano, in lontananza, da un burgus che si erano lasciati alle spalle. Non disse nulla e continuò a cavalcare, ma era chiaro che li avevano individuati.

Il giorno dopo ancora, verso mezzogiorno, scorsero la polvere di molti cavalli al galoppo. Poco dopo, apparvero i bagliori metallici delle corazze. Il nutrito distaccamento di cavalleria stava puntando dritto su di loro.

A occhio, era un’intera turma di Batavi. A riprova che non erano lì per caso, i cavalieri si schierarono a ventaglio sulla cresta di una collina, mentre un piccolo drappello proseguiva verso gli uomini di Ursicino. Uno di loro reggeva su un’asta l’insegna della vessillazione. Una testa di drago che emetteva un sibilo inquietante, per via dell’aria inghiottita dalle fauci spalancate. Al fianco del draconarius, stava un ufficiale dal mantello nero come lo stallone che montava.

L’ufficiale si fermò a pochi passi dalla colonna e rivolse al generale il saluto militare. Era un uomo massiccio, con le maniche della tunica arrotolate sugli avambracci possenti. Una cicatrice gli solcava la parte destra del volto, coperta a metà da una folta barba bionda. Sotto l’elmo, gli occhi chiari erano saette di ghiaccio. Un ufficiale di cavalleria del confine germanico, che solo le insegne romane distinguevano da un capotribù dell’altra sponda del Reno.

«Sono il magister equitum Ursicino, al servizio del Divino Augusto Flavio Giulio Costanzo. Sono latore di un messaggio per il magister militum Claudio Silvano.»

«Tribuno Flavio Nevitta» rispose l’ufficiale dal mantello nero «al servizio dell’augusto imperatore Claudio Silvano. Ho l’ordine di scortarvi da lui.»

Dall’accento familiare, Victor capì che era di origini franche.

Dopo un primo momento di freddo imbarazzo, il tribuno diede a tutti il benvenuto, ma subito dopo ordinò ai suoi uomini di inquadrare la colonna. In un attimo, Ursicino e i suoi si ritrovarono con i Batavi alla testa, sui fianchi e alle spalle. Meglio non sottovalutare il tribuno Nevitta, che sembrava avere il controllo assoluto dei suoi soldati.

Victor e Filopatròs osservarono i cavalieri, cercando di intuire se li stavano davvero conducendo da Claudio Silvano o se invece si preparavano a rinchiuderli con la forza nelle segrete del palazzo di Colonia Agrippina. Il franco notò Ursicino parlare a bassa voce con Ammiano, che di tanto in tanto si voltava a dare disposizioni agli altri.

Al calar del sole il gruppo raggiunse Castra Herculia, un campo fortificato sul Reno dov’era di stanza un distaccamento dei brachiati. Ammiano Marcellino ordinò agli uomini di consumare le razioni portate da Mediolanum, evitando il cibo della mensa dei castra. Era evidente il timore di essere avvelenati, ma l’espediente avrebbe permesso loro di sopravvivere giusto un paio di giorni, perché le vettovaglie della colonna erano agli sgoccioli.

Gli ufficiali di entrambi i reparti esibivano una forzata cordialità, mentre tra i cavalieri aleggiava un’ombra di diffidenza. L’unico modo di carpire qualche informazione era parlare con qualcuno del distaccamento dei brachiati. Victor andò in cerca di un pesce che potesse abboccare e lo trovò alle latrine. Un soldato con un occhio pesto e la testa bendata, forse per le bastonate prese da un superiore, addetto a una mansione ben poco piacevole. «Senti un po’, ma in quanti erano quelli che ti hanno conciato così?»

Il soldato si guardò intorno diffidente, poi appoggiò il bugliolo a terra. «Cosa succede a Mediolanum?» Il suo latino era rozzo, ma comprensibile.

Victor notò sul braccio uno stigma, il tatuaggio recante l’insegna dei brachiati, e alcune lettere di riconoscimento seguite dal nome: “Kaudios”. Quello era appunto “il segno”, il marchio che lo avrebbe fatto riconoscere, se si fosse allontanato dalla propria unità.

«Non lo so. Perché me lo chiedi?»

«Avanti, parla chiaro. Sta per scatenarsi una guerra civile? Qui ci aspettiamo di veder spuntare da un momento all’altro le legioni di Costanzo, e non ho proprio voglia di farmi trovare, quando arriveranno.»

Victor fece mostra di riflettere, prima di rispondere. «Sono un soldato come te, e non so cos’hanno in mente gli ufficiali. Certo la situazione qui non si presenta bene, tra gli Alemanni di là dal fiume e le truppe di Costanzo a meridione.»

Il miles abbassò la voce: «Appena vediamo un’insegna di Costanzo, noi gettiamo le armi».

Victor si guardò intorno, prima di bisbigliare: «Gli ufficiali sono con voi?».

«Non credo… a dire il vero, non lo so. Forse il centenarius Quinto Fabiano, che continua a sparlare del tribuno e non ne può più di stare qui, tanto da sfogare le sue ire su di noi, come vedi dalla mia testa.»

«Kaudios!»

I due si voltarono verso l’uomo che aveva urlato. Era il centenarius del piccolo distaccamento, che si avvicinava a grandi passi. Alzò il bastone verso il ragazzo e gli urlò di andare a pulire le latrine, se non voleva un’altra dose di legnate. Victor non intervenne. Si slacciò le brache e fece quello che doveva.

«Non dargli retta,» disse l’ufficiale al franco «è uno smidollato sempre in punizione, a pulire merda. Un cacasotto di Senones che cerca in tutti i modi di tornarsene a casa. Il genere di soldato di cui farei volentieri a meno, in tempi come questi.»

Victor accennò un sorriso e si riallacciò le brache. «Com’è la situazione con gli Alemanni?» Accennò alla sponda opposta del fiume. «Li vedete, ogni tanto?»

«Per ora no, ma è questione di poco. La flotta fluviale è stata smantellata per presidiare le guarnigioni nell’entroterra, e la via del fiume è libera.» Quinto Fabiano si accostò a Victor e abbassò il tono. «Ma se devo dirti la verità, più degli Alemanni mi preoccupa quello che sta accadendo a Mediolanum.»

Il franco strinse le labbra e annuì. Ufficiali o soldati, il presidio era nel caos. Il primo pensiero di quegli uomini era tenersi fuori da una guerra contro Costanzo.

Vedendo che il cavaliere non rispondeva, l’ufficiale insistette. «Andiamo verso una guerra civile, vero?»

La smorfia di Victor si tramutò in un mezzo sogghigno. «Spero di no, ma se così fosse temo di non poterti avvisare, perché sarei tra i primi a essere scannato.»

«In ogni caso» bisbigliò il centenarius «se avessi qualche informazione, ti sarei grato se volessi riferirmela.» Depose un solido d’argento in mano al referendario e si allontanò.

Il giorno successivo gli uomini si rimisero in marcia alle grigie luci dell’alba, sotto una pioggia impalpabile che li tormentò fino a quando in lontananza non apparve Colonia Agrippina. La città si estendeva lungo il corso del Reno e dovettero percorrere un lungo tragitto tra le abitazioni dell’antico vicus sorte fuori dalle mura, prima di raggiungere la porta meridionale. Poi la colonna proseguì costeggiando il fiume fino al ponte voluto da Costantino il Grande, per raggiungere la fortezza di Divitia, il baluardo che proteggeva la città sulla riva orientale.

Gli uomini di Ursicino furono accolti come un qualunque reparto di cavalleria, ma alloggiati in diverse camerate e divisi in piccoli gruppi. Il generale fu separato dai tribuni, e Ammiano dai soldati della scorta. Non poterono fare a meno di sentirsi isolati e del tutto in balìa dei voleri di Claudio Silvano.

«È così che strigliate il mio cavallo?»

Victor aprì gli occhi e si trovò davanti la faccia inferocita di Ammiano. Il protector sferrò un calcio alla branda del franco, che balzò subito in piedi.

«Tu e il graeculo, prendete i vostri stracci e seguitemi.»

I due uscirono dalla camerata seguendo i passi dell’ufficiale, che li condusse alle scuderie. C’era un gran movimento di stallieri, intenti ad accudire i cavalli. Sempre seguendo Ammiano, raggiunsero il settore in cui si trovavano le cavalcature della scorta di Ursicino. L’ufficiale si chinò, per mostrare loro la zampa del destriero del generale.

«Io non so chi siete,» sibilò tra i denti «ma il mio istinto mi dice che siete due spie. Il punto è se state dalla parte giusta.»

Nessuno dei due aprì bocca.

«Claudio Silvano ci ha accolti a corte,» riprese il protector, a bassa voce «e ci siamo dovuti inginocchiare a baciare la porpora imperiale. Quel verme si è autonominato imperatore e gli uomini di stanza qui gli hanno giurato fedeltà. Sono tutti dalla sua parte.» Ammiano li fissò negli occhi. «Potremmo essere messi a morte da un momento all’altro. Noi comunque ci siamo mostrati accondiscendenti, per non trovarci subito rinchiusi in una cella.»

«Dov’è il magister equitum?» chiese in tono neutro Victor.

«È ospite alla corte di Claudio Silvano, ma in pratica è come prigioniero. Una scorta lo segue ovunque e la porta del suo alloggio è presidiata da guardie. Io ho preso il pretesto dei cavalli, ma tengono d’occhio anche me. Gli altri tribuni sono alloggiati qui in fortezza, nei quartieri degli alti ufficiali, e la truppa è sparpagliata un po’ ovunque.» Il protector si guardò intorno, diffidente. «Ho bisogno di uomini che passino inosservati. Uomini come voi. Dovete sgusciare via di qui e tornare a Mediolanum come fulmini, per fare rapporto.»

«Non sono tutti dalla parte di Silvano, protector

Ammiano fissò Victor: «Cosa vuoi dire?».

«Ho scambiato qualche parola con un soldato a Castra Herculia, dove abbiamo passato la notte. C’è malcontento nei distaccamenti sul Reno. I brachiati di stanza laggiù sono pronti a passare dalla parte di Costanzo, ma non sanno se gli ufficiali sono d’accordo.»

«Che cosa? E perché non me lo hai detto prima?»

«Perché sono uno della scorta» ribatté Victor, pacato. «Il mio compito è proteggere il generale. Il resto non sono affari miei.»

L’ufficiale si sporse in avanti, aggressivo. «Mi piaci sempre meno, franco, ma forse sei l’unico che può toglierci dai guai. Visto che sei così bravo a scoprire informazioni, datti da fare. Voglio sapere se c’è modo di mandare un messaggio agli ausiliari fuori di qui. Ti dirò io come agire. Hai capito?»

Il franco annuì. Dopo un ultimo sguardo di fuoco, Ammiano si alzò e se ne andò.

Filopatròs sogghignò, mentre Victor si appoggiava al quarto posteriore del cavallo, osservando il viavai di inservienti e soldati. «Milites!» Il grido risuonò tra le volte della scuderia, facendo girare parecchie teste. «C’è qualche fratello di Meersen, qui?»

Gli uomini ignorarono la domanda e ripresero le loro occupazioni. Victor capì che non c’erano molti connazionali tra quei soldati, e prese una spazzola per strigliare il cavallo del generale.

«Chi lo vuole sapere?»

Il franco si vide di fronte un gigante dai capelli biondi, che portava una corazza a placche e un elmo intarsiato. Il gigante teneva per le redini un magnifico baio.

«Io, Victor, figlio di Klothar di Merseen.»

«Sono Dagalaifo,» rispose l’altro, squadrando il franco con occhi di un limpido verde. «Non sono di Merseen, ma vengo dalla Frisia centrale.»

«Per Hercules! Finalmente un uomo, in questo covo di effeminati!» Victor parlò in dialetto germanico. «Non vedevo l’ora di trovare qualcuno che sapesse dove bere del buon vino e trovare donne degne di questo nome, qui a Colonia Agrippina.»

Il bestione sorrise, assestando una violenta pacca sulla spalla di Victor. «Fratello, hai trovato l’uomo che fa per te.»

Dagalaifo si rivelò subito la chiave con cui Victor poteva entrare e uscire dalla fortezza di Divitia.

Il colosso faceva parte della guardia personale di Claudio Silvano, composta quasi esclusivamente da Germani. Nonostante il nome latino, l’usurpatore era di origine franca e preferiva avere intorno solo uomini della sua gente.

Victor riempì un altro boccale al suo nuovo amico e poi lo fissò con intenzione. «Dagalaifo, mi hai fatto divertire in questi giorni, e voglio darti prova della mia gratitudine.»

Il colosso rise e tracannò mezzo boccale, poi si nettò le labbra e i folti baffi con la mano. «Siamo fratelli, no?»

Victor annuì e levò la coppa in un brindisi. «Sì, siamo fratelli. Proprio per questo ho deciso che cercherò di non farti uccidere.»

Dagalaifo rise ancora più forte, picchiando il pugno sul tavolo, che traballò pericolosamente. Fece per prendere il boccale, poi colse lo sguardo di Victor e cambiò espressione: «Cosa vai dicendo, franco?».

«Quello che ho detto, franco. Vorrei salvarti la vita.»

«Mi stai per caso minacciando, fratello?»

«Ti chiedo un giuramento, Dagalaifo.»

«Un giuramento? E su cosa?»

«Su ciò che sto per dirti, che dovrà restare fra noi.»

Il colosso biondo rimase in silenzio per qualche attimo, poi levò la destra con fare solenne.

Victor annuì.

«Ai piedi delle Alpi Lepontine si sta radunando un potente esercito. Sarà qui prima dell’inverno. Abbiamo già preso accordi con i presidii del Reno, che non opporranno resistenza. Quanto pensate di potere resistere, qui a Colonia Agrippina?»

Gli occhi iniettati di sangue, Dagalaifo si protese in avanti con fare minaccioso. «Cosa? E tu come lo sai?» Per un attimo Victor pensò che lo avrebbe assalito. «Ma soprattutto, chi sei veramente?»

«Che importa? Tu sei un uomo pratico e io sono qui per proporti un affare.» Victor abbassò la voce. «Parla in dialetto, nessuno deve capire cosa ci stiamo dicendo. Hai idea di quanto costi all’impero, una guerra civile?»

Il germano scosse le spalle e fece segno di no.

«Io ce l’ho.» Victor sorrise. «E ho anche idea di come risparmiare la spesa al nostro Divino Augusto, che ha già tanti grattacapi, e ricevere una buona ricompensa. Ti interessa?»

«Non ti capisco» disse Dagalaifo.

«Occorre incidere il bubbone prima che infetti tutto il corpo.»

«Che gli dei ti maledicano! Perché non parli chiaro?»

«Bisogna eliminare Claudio Silvano.» Victor lo fissò dritto negli occhi. «E voglio che sia tu a ucciderlo.»

Il gigante rimase a bocca aperta. Intorno a loro gli avventori della taverna vociavano e ridevano, ma era come se non ci fossero.

«Io dovrei… uccidere Silvano?»

«Sì, Dagalaifo.»

«Ma perché?»

«Perché se Silvano muore, addio guerra civile e l’impero risparmia una fortuna. Però deve morire per mano di uno dei suoi, in modo che non sembri un atto di guerra. Se accetti di essere tu, quell’uno, avrai salva la vita e intascherai più denaro di quanto tu ne possa spendere.»

Il mattino seguente Victor e Filopatròs videro arrivare Ammiano. I tre condussero i cavalli all’esterno, nei recinti della caserma. Mentre uno scudiero li faceva sgranchire, il protector si accostò a Filopatròs, appoggiato alla staccionata.

«Allora?»

«Lo scudiero di un ducenarius dei cornuti è disposto a collaborare» mormorò il greco «e ho trovato un messaggero in partenza per Castra Herculia, dove c’è Quinto Fabiano, un centenarius corruttibile.»

Ammiano storse il naso. «Tutto qui?»

«No.» Victor non lo guardò, fingendo di seguire con interesse il lavoro dello scudiero. «Ho bevuto qualche boccale con un franco, uno della guardia di Silvano. Vuole cinquecento solidi e un grado presso la corte di Costanzo.»

Ammiano sbarrò gli occhi. «Cinquecento solidi? E cosa ci offre in cambio?»

«Terrà buoni gli altri della guardia, per lasciarci arrestare il generale.»

«Calma!» Ammiano squadrò Victor. «Ti avevo solo chiesto di trovare dei contatti. Hai trasgredito gli ordini!»

Il franco sospirò. «Protector, rischiamo di finire ammazzati da un momento all’altro. Vogliamo cercare di uscirne vivi?»

Marcellino gonfiò il petto. «So cosa rischiamo, ma una mossa come questa può essere ancora più pericolosa.»

«Se i cornuti e i brachiati accettano di stare a guardare, il mio uomo è pronto.»

«Hai già pensato al momento più propizio per agire?»

«Sì, protector. In chiesa, durante la funzione.»

Ammiano era senza parole, e Filopatròs reagì infastidito. «È un gesto blasfemo!»

«Lì si sente al sicuro.»

«Ma è la casa di Dio!»

Victor non batté ciglio. Ammiano abbassò lo sguardo e si mise l’elmo. «Proseguite nella trattativa con gli ausiliari. Io ne parlo con il magister equitum

Dagalaifo uscì dal palazzo alle spalle di Claudio Silvano, diretto a un’adunanza di cristiani. La guardia attraversò il piazzale della reggia e si avviò verso la basilica. Lungo la strada, il colosso controllò che i suoi uomini prendessero le posizioni concordate durante la notte. Il suo sguardo incrociò quello di Victor, che portava un elmo della guardia. Il franco e il greco, poco dietro a lui, osservavano i movimenti dei soldati. Ammiano e Ursicino si trovavano al centro del corteo.

Claudio Silvano salutò i sudditi con altero distacco, fino a quando, a pochi passi dal portone della chiesa, Victor diede il segnale.

Dagalaifo si mise a urlare: «Ci attaccano!» urlò il colosso, spingendo in avanti l’imperatore. «Vogliono uccidere l’Augusto!»

Alcuni dei soldati della guardia si guardarono intorno, confusi. Altri sguainarono le spade. La folla ondeggiò e subito fu il caos. Claudio Silvano venne sospinto all’interno della chiesa. Victor e Filopatròs entrarono, seguiti dal resto della scorta di Ursicino.

I fedeli che già affollavano numerosi il sacro luogo si misero a gridare. Il panico dilagò tra le navate della basilica. Silvano cercò di farsi largo per raggiungere l’altare. Il vescovo, le mani protese in avanti, tra i fumi dell’incenso, gridò ai soldati di fermarsi. Victor e Filopatròs sprangarono la porta. Nella calca, Silvano cadde al suolo. Un prete si chinò ad aiutarlo, ma una mano possente lo bloccò.

Gli astanti guardarono inorriditi Dagalaifo con la spada in pugno, senza capire cosa stava succedendo.

Il colosso parve esitare. Alzò lo sguardo e vide gli occhi gelidi di Victor. «Iugula!» Solo un sibilo sulle labbra del franco. «Uccidi!»

Il franco annuì. Un fascio di luce dalla finestra dell’abside incontrò la lama che calava spietata. La spada affondò con forza nello stomaco dell’usurpatore, che fissò in volto il suo carnefice. Entrambi avevano gli occhi sbarrati. Silvano spalancò la bocca, con un rantolo soffocato. L’arma omicida lasciò il suo corpo, arrossata dal sangue, e subito un nugolo di guardie irto di lame gli fu addosso, per completare l’opera.

Dagalaifo rimise la spada nel fodero, dopo averla asciugata, e si voltò verso Victor.

Era il 7 settembre del 355. Il regno di Claudio Silvano era durato esattamente ventotto giorni.