XIII

COSPIRAZIONE
Novembre del 359 d.C.

Il praepositus sacri cubiculi Eusebio osservò il sigillo della lettera per volgersi all’imperatore con un tremolio nervoso all’occhio sinistro, lo sguardo contrito di chi non aveva di buone notizie.

«Il nostro Vittorino?»

«Si, Divino Augusto.»

Costanzo, adagiato accanto alla consorte su un triclinio, diede un ultimo morso alla coscia di pernice e gettò gli avanzi nel vassoio d’argento. Pallida in volto, l’imperatrice non aveva toccato cibo, quella sera. Da tempo non godeva di buona salute. L’Augusto si mise a sedere e con un cenno delle dita unte si fece portare la missiva da un servitore. Era sempre più spesso nervoso quando riceveva lettere da “Vittorino”, uno dei soprannomi che aveva attribuito a suo cugino Giuliano, altrimenti detto Talpa chiacchierona, Scimmia imporporata o Greco scribacchino. Nomignoli inventati per deridere le imprese del Cesare, che in realtà infiammavano la bile dell’augusto e invidioso cugino.

“Vittorino”, l’epiteto più usato, era stato coniato due anni prima, dopo la battaglia di Argentoratum, quando il Cesare delle Gallie aveva inviato a corte un resoconto dettagliato della vittoria sugli Alemanni. Il documento era stato recapitato da un messaggero particolare, ovvero Cnodomario in catene.

Il resoconto stilato dal Cesare delle Gallie diceva che alla fine di quella dura giornata erano rimasti sul campo duecentoquarantatré soldati romani e quattro alti ufficiali, tra cui l’eroico Bainobaude. Sul fronte degli Alemanni, la conta delle perdite ammontava a oltre seimila uomini. Impossibile stabilire quanti altri germani si fosse portato via il Reno, nelle fasi successive alla battaglia. Erano pochi, infatti, quelli approdati incolumi sulla sponda opposta.

Per tutta risposta, l’imperatore aveva fatto emanare un bollettino che celebrava la sua grande vittoria sulle tribù germaniche. Nel testo si esaltava l’impresa descrivendo nel dettaglio come lui, Augusto Flavio Giulio Costanzo, avesse personalmente guidato gli uomini in battaglia con la spada in pugno, mentre la guardia imperiale lo tratteneva a fatica dall’andare da solo a far strage di Germani. Non mancavano i particolari della resa finale di Cnodomario, che nella versione imperiale si era prostrato supplice ai piedi dell’Augusto. Gigas non aveva modo di negare l’autenticità del racconto, prigioniero com’era in una segreta dei castra peregrina di Roma.

L’unico particolare mancante, nel documento imperiale, era la presenza sul campo di Claudio Flavio Giuliano, il Cesare delle Gallie.

Il mondo apprese dunque di come Costanzo stesso avesse liberato la Gallia dai Germani. Anche gli ufficiali e i soldati di Giuliano ne vennero a conoscenza e si recarono dal Cesare a protestare, indignati. Il principe stentò a sedare gli animi, ed esortò gli ufficiali a punire i soldati che insistevano a osannarlo come imperatore.

Argentoratum era stato solo l’inizio.

Vinta la battaglia, Giuliano seppe intuire che era il momento di infliggere una lezione ancora più dura, e di cogliere una vittoria decisiva. Non era sufficiente una battaglia, bisognava vincere la guerra.

Mentre i prigionieri e il bottino venivano condotti a Metz, il Cesare era sbarcato con il suo esercito sulla riva destra del Reno. Le popolazioni oltre il grande fiume, che non si aspettavano un’invasione, furono colte totalmente alla sprovvista. I vessilli dell’impero tornarono a sventolare a oriente del Reno, seminando morte e distruzione. Il Cesare ricordò ai suoi soldati le incursioni, i massacri e i tradimenti perpetrati per anni dai “barbari” e li incitò a vendicarli.

Le legioni marciarono inarrestabili a oriente, bruciando fattorie e villaggi, razziando raccolti e bestiame. I fuggiaschi furono uccisi o tratti in schiavitù a migliaia, e dispersi ai quattro angoli dell’impero. I Romani violentarono, uccisero e torturarono, in un’orgia di massacri, fino a quando i capiclan, sgomenti, non implorarono la pace.

Il Cesare diede l’alt al suo esercito, ma dettò ai vinti condizioni durissime. Fece redigere dai superstiti delle città galliche distrutte dai Germani liste dei nomi di tutti i loro famigliari rapiti dagli Alemanni, e le presentò ai capiclan. Se volevano la pace, dovevano consegnare i prigionieri e risarcire i parenti. In questo modo circa ventimila Galli furono liberati.

Lo spettro della guerra e della schiavitù era finalmente debellato, ma la Gallia era in ginocchio. I prigionieri tornati a casa avevano trovato solo macerie, e le scorte di cibo sequestrate oltre il Reno non potevano scongiurare la minaccia della fame.

Ci voleva una soluzione degna di un grande sovrano. Il Cesare ordinò alle sue truppe di lasciare la spada del soldato per l’ascia del taglialegna. Fu disboscato un ampio tratto di foresta lungo il fiume e con il legname le legioni costruirono una flotta di ottocento navi in grado di navigare il fiume fino al mare, per poi raggiungere la Britannia. L’isola, che viveva da tempo in pace, era ricca e prospera, e le regioni del Meridione erano in grado di fornire il grano necessario a sfamare le Gallie.

Claudio Flavio Giuliano cominciò a essere venerato come un salvatore. Il goffo ragazzo partito da Mediolanum con trecentottanta uomini era un sovrano, alla testa di un paese e di un esercito addestrato e fedele. Consapevole della sua forza, il Cesare stava contrastando in modo sempre più netto il prefetto Florenzio e la sua gestione del fisco.

La lettera sotto gli occhi di Costanzo era appunto l’ennesima mossa del duello a distanza sulla politica tributaria tra Giuliano, che si era stabilito a Lutezia, e Florenzio, ancora avvolto negli agi del bel palazzo di Vienne. L’oggetto del contendere era la capitatio, un’imposta che costava ai già tartassati Galli la bella somma di venticinque solidi a famiglia.

Nell’anno successivo alla battaglia di Argentoratum e alla campagna oltre il Reno, Florenzio aveva lamentato un minor gettito fiscale e imposto quella tassa supplementare. Il provvedimento doveva essere formalmente avvallato dal Cesare, che si era però rifiutato. Mai avrebbe acconsentito a spremere ancora di più i suoi sudditi. Florenzio si era lagnato con l’imperatore del comportamento del Cesare, e il Divino Augusto aveva risposto, con mielose lodi del prefetto, che era sempre stato degno dell’alto compito, eccetera. Giuliano aveva prontamente fornito all’Augusto cugino una dimostrazione, con tanto di numeri, che i contributi riscossi erano in teoria sufficienti alle necessità della provincia, ma gravavano solo sui piccoli contribuenti, mentre i ricchi proprietari erano esentati dal pagarli. Un’ingiustizia da sanare.

La battaglia epistolare si protrasse per mesi. Fino al giorno in cui un nuovo rapporto di Giuliano non attirò l’attenzione dell’imperatore. Il Cesare dimostrava infatti come i funzionari locali, prima di versare i tributi nelle casse dell’erario, ne intascassero una buona parte. Ovvio che le entrate, pur aumentando la tassazione, non bastavano mai.

Costanzo aveva dovuto autorizzare Giuliano a sovrintendere personalmente all’esazione delle imposte di una provincia della Gallia orientale.

«Vittorino ne ha indovinata un’altra» brontolò l’imperatore sventolando la lettera, già impregnata del dolciastro profumo usato da Eusebio.

«Smettila di chiamarlo in quel modo» disse stancamente l’imperatrice Eusebia, tamponandosi la fronte con una pezzuola umida.

L’Augusto sbuffò irritato, comportamento poco consono al suo elevato status regale. «Le tasse che ha raccolto nella Belgica sono più del necessario. E senza bisogno di aumenti, né di esigere gli arretrati.»

L’imperatrice si lasciò sfuggire un mezzo sorriso, che infranse per un attimo il velo di tristezza. «Dunque aveva ragione il Cesare.»

«Può essere che i dati siano mendaci» suggerì mellifluo Eusebio, tra il frusciar di sete.

«I dati non sono mendaci!» Costanzo era furioso. «Il dramma è che sono circondato solo da ladri, bugiardi e incapaci!»

«Tuttavia» proseguì imperterrito Eusebio «Flavio Giuliano ha dimostrato di essere un buon amministratore, oltre che un buon soldato. Perché non dargli fiducia, mio Divino Augusto?»

«Fiducia?» L’imperatore scagliò via la lettera. «Il paese intero non fa che parlare di lui, il suo esercito lo chiama “imperatore”. È giunto il momento di togliergli potere, non di dargliene altro!»

«I soldati amano i generali vittoriosi» suggerì Eusebia.

«I nostri osservatori» disse l’eunuco «riferiscono di comportamenti allarmanti, da parte dei soldati.»

«Vuoi dire le spie, di cui lo avete circondato» replicò Eusebia, accalorandosi. «Il Cesare si sta comportando in modo ineccepibile, e ha fatto di tutto per eseguire il suo compito. Ho saputo che la flotta fluviale ha ripreso a pattugliare il fiume, e che ovunque sorgono mercati.»

La voce femminea del gran ciambellano si accodò subito alle parole dell’imperatrice. «Certamente, nobilissima signora. E poiché il Cesare delle Gallie ha svolto egregiamente il compito affidatogli dal Divino Augusto, è forse il caso di farlo tornare a corte. Temo che il nobilissimo Giuliano si sia sobbarcato un lavoro troppo oneroso per una sola persona.»

Costanzo annuì, ma l’imperatrice non pareva intenzionata a demordere dalla sua arringa. «E vorrei rammentarti che sta attraversando un momento difficile. Sua moglie, tua sorella Elena, ha di nuovo perso un bambino, ed è prostrata.»

«Io sono l’imperatore. L’imperatore non ha sorelle né fratelli. Io servo il Signore, e servo lo stato.»

Costanzo scoccò uno sguardo gelido alla consorte. «Puoi andare, mia nobile Eusebia. Sei affaticata, e hai bisogno di riposare.»

Subito il praepositus sacri cubiculi batté due volte le mani, per chiamare le dame di compagnia.

Eusebia chinò il capo e obbedì al marito, l’uomo più potente della terra.

«Non volevo contraddire la tua nobile sposa, mio Augusto,» disse ossequioso Eusebio, quando tutte le donne furono uscite dalla sala, «tuttavia hai ragione, per il bene dell’impero non possiamo permettere che si accresca troppo la fama del tuo nobile cugino. Gli uomini di stanza in Gallia gli sono così devoti che ha potuto volgere contro di noi il nostro piano dello scorso anno.»

«Intendi la tua idea di non far arrivare le paghe delle truppe?»

Eusebio si strinse nelle spalle, lo sguardo mesto. «Pareva che ciò avesse esacerbato gli animi dei soldati contro di lui, tant’è che ci sono stati disordini, ma poi il Cesare ha accusato noi del mancato pagamento, e purtroppo gli hanno creduto. E ciò spiega come mai ora lo acclamino come “Augusto”, atto inammissibile più volte confermato dai miei informatori. A mio umile parere, questo potrebbe portare a un’accusa per alto tradimento.»

«E a decapitarlo ancora prima della sentenza, come suo fratello?»

Eusebio abbassò lo sguardo, sotto il tono irato dell’imperatore.

«Niente esecuzioni sommarie. Che se ne stia pure a Lutezia, ma senza più poteri, se non formali.»

«Forse» suggerì l’eunuco «il primo passo è allontanare da lui Flavio Sallustio, mio Augusto. È strano che un giovane, inesperto e dedito alla filosofia abbia ottenuto tanto. A mio parere, il generale Sallustio ha fortemente ispirato il suo agire. Il giovane Cesare è il volto, e il vecchio Sallustio la mente. Senza la sua influenza, il Cesare ritroverà un ruolo più… adeguato, rispetto alla tua primaria grandezza.» Costanzo squadrò l’eunuco, e si adagiò nuovamente sul triclinio, mordicchiando un dolce al miele. «Mettiamolo a capo di una lontana provincia orientale. Il vecchio Sallustio non si opporrà.»

«Ottima idea, mio Augusto.»

«E poi, in vista della campagna orientale contro la Persia, dovrò richiamare gran parte dell’esercito delle Gallie.»

Il responsabile della sacra camera da letto annuì.

«Voglio una lista dei suoi fedeli, e che siano controllati. Al momento opportuno, il Cesare dovrà avere intorno solo uomini nostri. Gli ordini ai reparti saranno inviati direttamente ai comandanti, ignorando il Cesare, perché capiscano bene qual è il peso del ragazzo nella gerarchia imperiale. E che l’esercito non sia più sotto la sua guida. Voglio che sia diviso tra diversi generali, non in contatto tra loro. E per finire, i reparti che più si sono distinti nella guerra contro gli Alemanni saranno allontanati dalla difesa delle Gallie.»

«Come desideri, mio Augusto.»

Costanzo fece un cenno, e un servitore accorse con una coppa di vino.

«Lascio a te i dettagli, Eusebio. Tu sai come fare.»

Paolo Catena entrò furioso nell’elegante studio di Eusebio.

«Non ne posso più di contare i danni che mi ha procurato la Scimmia imporporata!»

«Stai tranquillo, la Scimmia ha i giorni contati.»

«Ha destituito funzionari in mezza Gallia. E a parte gli affari, non ho più il controllo di…»

Eusebio alzò una mano grassoccia. «Calmati, ti prego. Il Re dei re, Sapore di Persia, sta venendo in nostro aiuto.»

Paolo Catena si mise a sedere, incuriosito.

«La scorsa primavera, i Sasanidi hanno sconfinato nei nostri territori. Alcune città si sono arrese, ma la fortezza di Amida, sotto il comando del generale Ursicino, ha resistito.»

«Ursicino… una vecchia conoscenza, utile quando abbiamo dovuto sistemare Claudio Silvano» ghignò Catena.

«Amida ha resistito settantatré giorni, e le guarnigioni vicine hanno avuto il tempo di ripiegare a occidente. Poi Ursicino è scappato, e ha lasciato i suoi alla mercé dei Persiani. Ho fornito io stesso all’Augusto le informazioni perché possa destituire il generale.»

«La sua fine era scritta da tempo.»

«Già. Intanto Sapore si è chiuso nella fortezza conquistata, e il nostro amatissimo Augusto ha arginato il problema per il momento, schierando laggiù i reparti più vicini.»

L’astuto Catena lo guardò di sbieco. «Ma non bastano per passare all’offensiva.»

«Purtroppo no» proseguì compunto l’eunuco. «Occorre un grande esercito, composto dai reparti orientali e soprattutto dai vincitori delle Gallie.»

Il capo dello spionaggio ghignò. «Quindi la Scimmia andrà a crepare in Persia?»

«No, in Persia ci andrà il suo esercito. L’imperatore vuole il successo tutto a suo nome, quindi la Scimmia se ne starà a Lutezia, in compagnia di qualche servitore. Tutti i suoi soldati se li prenderà il nostro amato Augusto.»

«È pericoloso. Quelli stravedono per lui» disse il torturatore.

«I soldati sono comandati da ufficiali, e gli ufficiali si comprano. Lo abbiamo già fatto.»

«No.» Catena scosse il capo. «È da tempo che lo faccio spiare, e non ho mai scoperto un punto debole. La Scimmia è un puro, uno che non corrompe e odia chi si fa corrompere. Non insegue le ricchezze, sembra anzi che disprezzi il denaro. Vive come i suoi soldati, mangia quello che mangiano loro e sta al freddo anche in inverno. Mai una donna che non sia quella racchia della sua nobilissima moglie, non è un sodomita… e quelli che ha intorno si sono adeguati a lui. I suoi uomini lo servono per convinzione ed essere un suo pari non significa godere di privilegi, ma fatica e sacrificio. E se lo chiamano “Augusto” non è per leccargli i piedi, ma perché vogliono sul serio che prenda il posto del nostro Costanzo.»

«Brillante analisi, mio caro Paolo, ma quando comanderà solo il suo cavallo, il “puro” tornerà a essere quello che era, un filosofo di provincia, che studia teologia e rimpiange un passato che non c’è più. Ti ricordo che il paese è in fermento. Dopo il concilio di Ariminum e quello di Seleucia, la Chiesa ha riconosciuto come supremo sovrano l’imperatore e ora regna con lui, in nome della lotta a un nemico comune: gli antichi culti.»

Catena fece una smorfia. «Non illuderti, Eusebio, i cristiani non hanno ancora il controllo dell’impero. In Gallia i vecchi culti sono vivi e vegeti. I soldati adorano Mitra, il dio guerriero, e gli sacrificano animali in ogni occasione. Ti ricordi di Apodemio? Se non ci fosse stato Marcello, lo avrebbero messo al rogo.»

«Credo che Giuliano fosse un po’ arrabbiato con il nostro agens in rebus, dal momento che gli aveva fatto ammazzare il draconarius. Peccato, tra l’altro, perché era uno dei migliori, tra i nostri referendari.»

«Già, ma era passato dalla parte del Cesare, e come lui ce ne sono molti, in Gallia, disposti a farsi ammazzare per la Scimmia. Tra poco non avremo più nessuno, a controllarlo. No, Eusebio. Dobbiamo risolvere il problema alla radice.»

Il gran ciambellano lo scrutò. «Sii più esplicito.»

«Niente Scimmia, niente capo. I soldati verseranno una lacrima, poi ubbidiranno al nuovo capo.» Catena abbassò la voce a un bisbiglio: «Se il “puro” dovesse mai diventare imperatore…».

«Ma cosa ti viene in mente?»

«È solo un ipotesi. Ma nel caso, come pensi che si regolerebbe, con gente come noi?»

Eusebio non rispose. Il suo pallore era più che eloquente.

«Dobbiamo farlo fuori, se non vogliamo rischiare che ci faccia fuori lui.»

Parole che potevano significare una condanna a morte, per entrambi.

«L’imperatore è stato chiaro. Non vuole che si ripetano episodi come quello del fratello del Cesare.»

«L’imperatore sarà esaudito, Eusebio. Nessuno potrà accusarlo di nulla. Ci basta qualcuno che si trovi al posto giusto nel momento giusto.»

Eusebio accarezzò un prezioso anello di rubini che portava al mignolo. «Credo di averlo io, questo qualcuno.»

Gli occhi di Catena si assottigliarono. «Chi è?»

«Non ha importanza.»

«Ma è fidato?»

«È un devoto cristiano» disse Eusebio. «Capisci, il gesto di un fanatico, di questi tempi non c’è da stupirsi…»

Paolo Catena era dubbioso. «Ma siamo sicuri che non ci tradirà, il tuo cristiano?»

«Più che sicuri» rispose il gran ciambellano «perché anche lui morirà.»