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Hubert era seduto sulla sua poltrona, dimostrando decenni di abuso di carboidrati.
«Si sieda, dottoressa Brennan.»
Eseguii, aspettandomi una predica, benché non avessi idea del perché.
«Mi permetta di farle una domanda.» L’espressione sul suo volto era di perplessa delusione. «Le piace lavorare qui?»
«Che cosa?»
«È una semplice domanda.»
«Certo che mi piace.»
«È angustiata da qualche problema personale?»
«No.» E che cavolo!
«Forse attraversa un periodo di esaurimento?»
«No.» E che fottutissimo cavolo!
«Questa specie di guerra personale in cui è coinvolta potrebbe...»
«Non c’è nessuna guerra.» Sulla difensiva.
«La situazione a Chicago...» Ruotò una mano. Era così grassa che le nocche non avevano una grinza.
«È un po’ difficile far guerra a un accusatore anonimo.»
«Qualcosa influisce negativamente sul suo lavoro.»
«Stronzate.» Uscita non molto intelligente, ma ormai mi era sfuggita.
«Devo dirla tutta?»
«La prego.» La vitalità di quel mattino era svanita, cedendo il posto alla rabbia.
«Quentin Jacquème ha telefonato ripetutamente a questo ufficio dal ritrovamento degli scheletri del Lac Saint Jean. Jacquème è un detective della SQ in pensione: la sua defunta moglie era sorella di Achille Gouvrard. Tre settimane di chiamate, dottoressa Brennan. E nulla da potergli dire.»
Mi concentrai sulla respirazione, cercando di restare calma.
«Venerdì, la dottoressa Briel ha chiesto il permesso di esaminare i resti. Poiché lei era assente, gliel’ho accordato.»
«Ottimo.» Tenni gli occhi fissi nei suoi. «Adesso ha delle buone notizie per Jacquème: la sua perizia è stata affidata a una incompetente.»
«Au contraire. Gli dirò che sono pronto a chiudere il caso.»
Con un solo dito paffuto, fece scorrere un foglio dalla mia parte del tavolo.
Il referto era breve: età, sesso. La descrizione del bambino più piccolo comprendeva una trattazione dell’annerimento da tetraciclina nei molari decidui. Leggendo il paragrafo finale, lo tradussi mentalmente in inglese. Per essere sicura.
La discolorazione da tetraciclina dei secondi molari mascellare e mandibolare di destra è sufficientemente distintivo, insieme allo sviluppo scheletrico e dentario, da consentire un’identificazione certa del soggetto più giovane con Valentin Gouvrard, di anni otto.
Data la coerenza con il profilo demografico, comprendente sesso ed età dei due adulti, la condizione delle ossa e l’andamento del trauma perimortem, è mia opinione che le spoglie recuperate nelle vicinanze del Lac Saint Jean il 12 gennaio corrente anno appartengano alla famiglia Gouvrard, i cui membri erano dispersi dal 14 agosto 1967.
Marie-Andréa Briel, dm
Alzai gli occhi, ammutolita per la sorpresa. «Come può avere trascurato un elemento tanto importante, dottoressa Brennan?»
Frenai la lingua, diffidando di me stessa.
«La colorazione anomala è così evidente! La Briel l’ha vista. E l’ho vista anch’io quando mi ha mostrato il dente. La tetraciclina è citata nel diario clinico del bambino.»
Seguitai a tacere.
«Prima le falangi di Oka. Ora questo.» Hubert si passò una mano su una guancia floscia. «Eh, misére. Credo che le farebbe bene una vacanza.»
«Mi sta mettendo in congedo forzato?»
«Le sto dando un avvertimento.» Il ventre del leviatano si sollevò e ricadde, mentre il coroner sospirava profondamente. «Basta cantonate.»
«Abbiamo finito?»
Hubert parve sul punto di aggiungere qualcos’altro. Non lo fece.
Mi alzai e mi diressi verso la porta, la rabbia che emanava da me come il calore da una teiera.
Di sotto, andai direttamente ai resti del bambino. Stappate le fiale di plastica, feci scivolare i tre piccoli denti sul piano del tavolo.
E li fissai sbalordita.
Entrambi i molari da latte presentavano striature scure di colore bruno intorno alla corona.
Hubert aveva ragione: il difetto era evidente anche a un’occhiata fugace.
Il secondo molare superiore aveva anche un puntino opaco sulla cuspide prossimale. Una riparazione? L’avevo individuata?
Controllai le mie note.
Non c’era alcun accenno a un’otturazione. Mi segnai di controllare le radiografie.
Ora il calore lo sentivo nel petto.
Come avevo potuto non vedere la discolorazione? E una probabile otturazione? Il coroner aveva ragione? Ero distratta? Stavo diventando negligente?
Distratta da cosa? Da Ryan? Dalla smania di scapparmene in vacanza con Katy? Dall’ossessione di scovare l’informatore di Edward Allen Jurmain? E di archiviare il caso di Rose nella mia mente?
Le mie guance ardevano ancora, questa volta per la vergogna.
Ero lì con gli occhi fissi sui molari, quando squillò il cellulare. Stavo quasi per ignorarlo, poi lo sganciai dalla cintura.
«Oh le le, oh la la!» Ryan. «Oh yes! L’abbiamo preso!»
«Adamski.»
«No. Harry Houdini.»
«È grandioso, Ryan.» Tono piatto.
«Cerca di contenere il tuo entusiasmo.»
«Sono esaltatissima.»
«Stai male di nuovo?»
«Ho appena sostenuto un altro round con Hubert.» Feci rotolare uno dei molari qua e là sul palmo. «Dove avete inchiodato Adamski? O Lucky Labatt, o Keith, o come quel sacco di merda si faccia chiamare adesso?»
«Il genio guardava le repliche di Agenzia Rockford nell’appartamento di un suo cugino a Moncton. Nome: Denton Caffrey. La città d’origine di Adamski, il suo vero cognome. Dio, chi avrebbe pensato di controllare a casa sua? Il re della birra è più ottuso di una ciotola di fettuccine.»
«Dov’è adesso?»
«Claudel è volato a Moncton questa mattina a prelevarlo. Ce lo lavoriamo, non appena il suo culo atterra a Montréal.»
«Credi che riuscirai a farlo parlare?»
«Devo.» La sua veemenza era palpabile persino a distanza.
«Adamski è marcio, me lo sento, ma finora abbiamo solo prove indiziarie: il matrimonio con Marilyn Keiser, uno dei suoi pseudonimi sul libro contabile delle Villejoin, Florian Grellier che lo chiama in causa per le rivelazioni su Christelle, il fatto che lavorasse all’Auberge des Neiges quando la Jurmain è stata trovata morta.»
«Tante prove indiziarie fanno un’accusa.»
«Impressioni, la parola di un detenuto, la fedina penale di Adamski.» Sbuffò. «Le giurie vogliono prove materiali e, per ora, non ne abbiamo.»
«Tu le troverai.»
«Stiamo ricontrollando la baita della Keiser, chiedendo ai vicini e ai negozianti della zona se qualcuno l’ha visto comprare kerosene; facciamo il porta-a-porta a Pointe Calumet e mostriamo di nuovo in giro la sua foto. Ma la Villejoin è cadavere da un anno e mezzo, la Jurmain da più di tre. È dura.»
«E allora, spingetelo a confessare.»
«È esattamente questa l’idea, madame. Sull’aereo, Claudel lo stordirà di chiacchiere. Poi, durante l’interrogatorio, reciterà la parte del poliziotto buono. Io avrò il ruolo del picchiatore.»
«Il casting è un po’ scarso.»
«Ehi, possiamo concorrere per l’Emmy.»
Terminai la conversazione e restai seduta a fissare il molare.
Come avevo fatto a non cogliere la discolorazione?
Rimisi i tre denti nella fiala, poi mi avvicinai alla finestra e guardai giù.
Mi era sfuggito.
Stupida. Stupida. Stupida.
Guardai una chiatta scivolare silenziosamente sul fiume, senza rendermi veramente conto di ciò che vedevo.
La Briel l’aveva notato.
Molecole di un’idea cominciarono ad aggregarsi: corpi dispersi, Lac Saint Jean, fiume San Lorenzo.
Dodici piani più in basso, l’acqua appariva grigia e minacciosa. Profonda.
Imperscrutabile.
L’idea prese forma.
Il cadavere di Adamski non era mai stato trovato.
I Gouvrard non erano mai stati trovati.
C’erano altri che giacevano dimenticati in gelide tombe subacquee?
Andai al computer, consultai Wikipedia.
Appresi che il Saint Jean è un lago di origine vulcanica, situato sulle alture laurenziane, duecento chilometri a nord del fiume San Lorenzo. Questo ne riceve le acque attraverso il Saguenay. Il bacino è vasto circa mille chilometri quadrati e, nel punto di maggiore profondità, arriva a sessantatré metri.
Una immensa quantità d’acqua.
Cercai un numero.
Lo composi.
Mi addentrai faticosamente nei meandri di una complicata gerarchia di opzioni vocali.
Quando, infine, rispose una signora gentile, posi la mia domanda. Lei mi chiese di attendere.
Attesi.
Dopo un po’, la donna tornò in linea.
Avevano una fonte che, forse, poteva fare al caso mio.
Con scarso ottimismo, uscii.
Montréal vanta numerose biblioteche, di lingua inglese e francese. La Bibliotheque et Archives nationales du Quebéc o Grande Bibliotheque è la più recente, inaugurata nell’aprile 2005. Situata in Boulevard de Maisonneuve, vicino al campus dell’Université du Quebéc, «l’imponente struttura in vetro e acciaio ospita la più ampia raccolta di edizioni antiche, rare e recenti, documenti multimediali, materiali di consultazione, carte geografiche e stampe. Auditorium. Sala esposizioni. Caffetteria. Boutique, bien sûr! Tutto questo e molto di più vi attende alla BAnQ».
Seguendo le istruzioni telefoniche della signora gentile, salii al primo piano, raggiunsi l’ala nord e oltrepassai due porte con la scritta «Colléction nationale». Appoggiandomi a un bancone, chiesi assistenza.
Le mani sui fianchi ossuti, una signora un po’ meno gentile ascoltò la mia richiesta, il solco sulla fronte che si faceva più profondo a ogni parola. Quando ebbi finito, mi disse che per accedere alla consultazione dovevo innanzi tutto iscrivermi e, quando tornai con la mia tessera, indicò una serie di lettori microfilm, invitandomi ad attendere.
Dieci minuti dopo, riapparve con un vassoio pieno di scatoline grigie e gialle. Con un’espressione di gotica tetraggine, mi domandò se sapevo sbobinare.
Le assicurai che era stata praticamente la mia prima materia all’università.
Lei m’informò che la documentazione disponibile risaliva fino al 1897 e uscì di scena.
Guardai le etichette. Le date andavano dal 1948 al 1964, anno in cui era cessata la pubblicazione del «Progrès du Saguenay».
Decisi di iniziare dalle edizioni più recenti del giornale e cominciai a svolgere la prima bobina. La pellicola scricchiolò piano, mentre giravo la manovella, tornando indietro nel tempo: 1964,1963,1962.
Le immagini in bianco e nero scorrevano una dopo l’altra sotto la messa a fuoco. Dapprima procedetti lentamente, controllando ogni pagina, poi, via via che acquistavo dimestichezza con l’apparecchio, riuscii a far scorrere rapidamente gli articoli irrilevanti, soffermandomi solo su cronaca e necrologi.
Dopo un’ora avvertii una fitta dolorosa a un occhio, dopo due, un tamburo mi rimbombava nella testa.
Guardai il vassoio: solo un milione di microfilm da esaminare.
Era un’idea folle?
Forse, ma dovevo tentare. Dovevo poter dire a me stessa che avevo fatto il possibile.
Infilai la linguetta di una nuova pellicola e cominciai a girare, svolgendo i primi sei mesi del 1958.
Poco dopo la metà, trovai quello che cercavo.