19

 

Katy e io tornammo a Charlotte il 28 dicembre, favolose e abbronzate. O così ci piaceva pensare: ingrassate e rosse come due aragoste sarebbe stato un giudizio più realistico.

Il 29, mia figlia chiamò per invitarmi a un Natale in famiglia postdatato. Ci trovammo da Pete. La mia vecchia casa. Ora è più facile, una volta era davvero un boccone amaro da mandare giù.

Il paparino fece lo chef: costata di manzo arrosto per noi, bistecca ai ferri per Boyd, un cane pieno di spirito natalizio. Specie dopo essersi rimpinzato.

Katy ricevette una bici da corsa, il chow chow un osso in pelle naturale, io un bracciale in oro di David Yurman.

Protestai che era troppo, sbalordita. Pete liquidò le mie obiezioni con un gesto della mano.

Mi domandai se non fosse il mio regalo la ragione dell’inattesa, graditissima assenza della giovane, graziosa, superdotata Summer.

Comunque. Tenni il gioiello.

Passai la serata dell’ultimo dell’anno in compagnia di Charlie Hunt. Cena al Palm, brusio degli avventori, cappelli, balli lenti. Dopo mezzanotte, ci lasciammo con una stretta di mano e andammo ognuno per la sua strada.

Be’, non proprio una stretta di mano, ma ciascuno dei due dormì da solo, quella notte. Per lo meno, io sì.

Andrew Ryan: alto, irlandese della Nuova Scozia, capelli biondo cenere che virano al grigio, occhi fiordaliso.

Charlie Hunt: molto alto, esoticamente mélange, capelli neri, occhi color giada.

Che cosa c’era di bello in tutto questo?

Di brutto aveva le ferite del passato. E un bagaglio emotivo tanto grande da contenere i supermercati Walmart.

La sera, Ryan e io parlavamo al telefono, ma non più come un tempo. Le nostre conversazioni se ne stavano al di là del guardrail, a prudente distanza dal pericoloso terreno dei sentimenti e dei progetti per il futuro.

Parlammo di LaManche, che aveva avuto una ricaduta: un’infezione ne avrebbe ritardato il ritorno tra noi.

Riesaminammo ogni elemento a nostra conoscenza delle inchieste Keiser, Oka e Villejoin: non c’era molto da riesaminare.

Ryan aveva fatto nuovamente visita alla gente che viveva nel quartiere delle Villejoin, a Pointe Calumet. Claudel aveva setacciato il palazzo della Keiser sulla Édouard Montpetit.

Entrambi si erano fatti una cultura sulle abitudini dei vicini delle vittime: quali tenevano all’ordine e alla pulizia, quali bevevano, quali andavano in chiesa, quali fumavano erba.

Claudel aveva interrogato ancora il figliastro della Keiser, Myron Pinsker, e contattato i figli naturali nell’Alberta. Ryan aveva rintracciato Yves Renaud, l’infermiere che si era imbattuto nel corpo senza vita di Anne-Isabelle.

Tutti eseguivano controlli. Nessuno forniva nuovi elementi.

Ryan aveva anche interrogato Florian Grellier, l’informatore che li aveva indirizzati alla fossa di Oka, sperando di spremergli qualche informazione in più. La sua storia restava spiacevolmente coerente: la soffiata gli veniva da un anonimo compagno di bevute e altro non sapeva.

Il 12 gennaio, il «Journal de Montréal» pubblicò un breve articolo sulle circostanze della scomparsa di Marilyn Keiser, ricordando ai lettori il caso di Christelle Villejoin. Seguì un mare di segnalazioni e ammissioni di colpa. Si andava da «Le ho uccise per prelevare gli organi» a «Le ho viste a Key West con un tipo nero alto». Un elegantone, si precisava.

Una sensitiva giurò che la Villejoin era ancora nel Quebéc, in uno spazio piccolo e buio. Non aveva visioni sulla Keiser.

L’inverno è la stagione meno impegnativa, per me, su al Nord. I corsi d’acqua gelano e la neve nasconde il terreno. I ragazzini sono a scuola, sportivi e campeggiatori lasciano i loro armamentari in deposito e agguantano il telecomando.

I cadaveri miracolosamente rinvenuti in esterno arrivano integri come carcasse di cervo appese in una cella frigorifera. In quei casi è protagonista il patologo: scongelare, praticare incisione a Y.

Eppure, l’epoca dei raffreddori produce sempre almeno qualche caso per l’antropologo. Gente che muore nel suo letto e vien trovata decomposta; gente che pompa al massimo il riscaldamento o accende fuochi, finendo per bruciare la casa; gente che la fa finita in granai, vasche da bagno, seminterrati.

Forse Hubert aveva ancora il dente avvelenato per quella faccenda delle falangi, forse la tundra era stranamente calma: la prima parte di gennaio passò senza una chiamata per me da Montréal.

Mentre mi godevo il tiepido sole e i quindici gradi di Charlotte, feci tre perizie per l’ufficio del medico legale della contea di Mecklenburg, collaborai a una ricerca sovvenzionata, ripulii gli armadi, intonacai e ridipinsi un muro pieno di crepe che avevo sotto gli occhi da anni.

Tra un’incombenza professionale e una domestica, passai del tempo con mia figlia. Scontenta del suo lavoro nell’ufficio della difesa pubblica, Katy stava prendendo in considerazione un cambiamento, magari la facoltà di Legge, o una specializzazione postlaurea. Io ascoltai lamentele e considerazioni, offrii solidarietà nei momenti appropriati, fornii opinioni quando richieste.

Vidi anche, parecchio, Charlie Hunt. Insieme, andammo a cena, al cinema e a una partita dei Bobcat. Giocammo due volte a tennis. Anche se l’acqua nella pentola bolliva, aspettavo a togliere il coperchio: qualche sbaciucchio, come diciamo noi al Sud, poi di corsa a casa, a letto con il gatto.

Passarono le settimane.

La donna di Oka rimaneva inconnue. Sconosciuta.

Marilyn Keiser rimaneva disparite. Scomparsa.

 

Sabato 26 gennaio, mentre tagliavo le unghie a Birdie suonò il cellulare.

Emily Santangelo.

Posate le forbicine, con una mano misi in vivavoce, mentre con l’altra mi stringevo Bird al petto. Lui cominciò a divincolarsi selvaggiamente.

«Che c’è di nuovo?» domandai, serrando le braccia.

Il gatto miagolò tutta la sua indignazione.

«Eri a letto per caso?» chiese la Santangelo.

«Per niente.»

Birdie prese a morsicarmi le nocche.

«Piantala.» Secca.

«Va tutto bene?»

«Benissimo. Il coroner ha qualche grana per me?»

«Non ti chiamo per un caso.»

Sorpresa, riflettei un momento.

«Sono arrivati i miei risultati sul DNA di Oka?»

«No.»

«Hanno localizzato i famigliari delle Villejoin nella Beauce?»

«Non che io sappia.»

Mi si gelò il sangue nelle vene.

«LaManche!»

«No, no, il capo sta bene. Insomma, relativamente. Risponde agli antibiotici, ma resterà in malattia per altre sei settimane.»

Inconsciamente, rilassai le braccia: Birdie si liberò, dimenandosi, si lanciò dalle mie ginocchia e uscì a razzo dalla stanza.

«Non è la stessa cosa senza il vecchio.» Il sollievo mi induceva a ciarlare. «Presente quando ti giri e lui è lì? Come fa un uomo così imponente a muoversi senza il minimo rumore?»

La Santangelo ignorò le chiacchiere.

«Hubert ti ha contattato ieri?»

«No.» Spazzolandomi via peli di gatto dalla camicetta. «Perché?»

Un suono esitante le uscì dalla gola.

«Emily?»

«Ti sto chiamando in via ufficiosa.»

Un minuscolo segnale d’allarme mi risuonò nella testa.

«Okay.»

«Vieni a Montréal, Tempe.»

«Hai detto che nessuno ha bisogno di me, al momento.» Risi. «Dev’essere la congiunzione astrale, l’allineamento dei pianeti. Forse Giove va d’accordo con Venere e tutto il Quebéc trabocca di amore fraterno. Credo non fosse mai successo...»

«Prendi un aereo e vieni qui.»

Di nuovo il trillo dell’allarme.

Esclusi il vivavoce e mi accostai il telefono all’orecchio.

«Hubert è ancora arrabbiato per quelle falangi?»

Un lungo, lungo silenzio rotolò a valle dal gelido Nord.

«Dimmi» la esortai. «So gestire Hubert.»

«Le ha lui.»

«Cosa?» La mano intenta a spazzare i peli mi si paralizzò sul petto.

«Ha le falangi.»

«Come...»

«Joe è tornato a Oka. Con la Briel.»

«Come diavolo è potuto succedere?»

«La Briel si è offerta di andarci per fare esperienza. Ha detto che avrebbe lavorato di sabato per recuperare le ore perse.» La voce della Santangelo era monotona, nascondeva significati reconditi. «Ha detto che Joe sapeva cosa fare, visto che era già stato presente all’esumazione. Hubert si è lasciato persuadere. Uno dei due ha trovato le falangi setacciando.»

«Quando è stato?»

«Venerdì.»

«Che diavolo ci faceva una patologa a dissotterrare ossa?»

«A quanto pare ha fatto un corso postdottorato di antropologia forense quand’era in Francia.»

Considerai la possibilità di sbattere il telefono sul tavolo oppure di lanciarlo. Invece lo passai nella sinistra.

«Hubert pensava di dirmelo, prima o poi?»

«Magari non lo sa. Hanno finito tardi. Io l’ho scoperto solo perché ero nel mio ufficio a scrivere referti quando sono rientrati al laboratorio.»

Una profana che oltrepassava il confine.

Inspirai a fondo, per calmarmi.

Espirai.

«Sarò lì lunedì.»

Quella sera rividi Charlie Hunt. Sushi. Sayonara.

Charlie sapeva che ero stata scottata da Ryan. E da Pete. Come già in occasione dei nostri precedenti «non appuntamenti», non cercò di forzare la mano. Lo apprezzai.

Perché ci andavo con i piedi di piombo?

Non volevo ripetere la figuraccia ad alto tasso alcolico dell’ottobre precedente. Né l’imbarazzante pomiciata sui sedili posteriori ai tempi del liceo.

Ma era davvero tutto lì? Io ero libera, lui anche. Non eravamo ragazzini che si ritrovano a lottare con gli ormoni sulla Buick di papà. Ripensai alla frase che aveva scatenato le ire di Vecamamma: le donne hanno le loro necessità.

Giusto, Cukura Kundze!

Perché, allora, la trafila puritana?

Per Ryan?

Chissà.

Una cosa era certa: se tenevo Ryan a distanza, Charlie lo tenevo da qualche parte ai confini della Via Lattea.

 

Lunedì mattina, 28 gennaio. Di nuovo a Montréal e, grazie a Birdie, in ritardo.

Ancora seccato per essere stato preso a tradimento, impasticcato di dramamina, schiaffato nel trasportino e spedito per via aerea la sera prima, il tonto aveva infilato la porta aperta mentre inserivo l’allarme. Mi ci erano voluti dieci minuti di ricerche in portineria con tanto di spostamento mobili, per trovarlo.

Come non bastasse, il mio vicino, Sparky Monteil, era passato proprio mentre recuperavo il fuggitivo da dietro il divano dell’atrio. Alla vista del felino, aveva cominciato una tirata su igiene e pericolo di malattie, e sul rubare l’aria ai neonati.

Vedendo che rischiavo di perdermi l’inizio della riunione del mattino, e irritata con Birdie, non ero riuscita a gestire la situazione con l’aplomb che avrebbe richiesto. Erano volati gli insulti e Sparky aveva giurato vendetta, minacciando di farmi sfrattare e lasciando intendere che, un bel giorno, la mia bestiola avrebbe anche potuto scomparire.

Meno male che lo stronzo è anglofono. O forse no? Posso essere un vero scaricatore di porto nella mia lingua madre.

Al Wilfrid-Derome, andai dritta nel mio ufficio per lasciare il giaccone e prendere carta e penna.

Mentre aprivo la porta, vidi Lisa dall’altra parte del corridoio, nel laboratorio di istologia. Lisa è un tecnico di autopsia con il sole tra i capelli e tette di proporzioni bibliche. I poliziotti che presenziano alle autopsie sperano sempre di ritrovarsi un giorno tra le sue mani almeno da cadaveri.

In quel momento, parlava concitatamente con Joe, il mio assistente. Nessuno dei due sorrideva.

Poi mi videro attraverso la finestrella della porta e tacquero entrambi.

Agitai la mano.

Lisa rispose con un cenno rapido e non molto convinto della sua.

Joe riprese a catalogare campioni.

Tensione sessuale?

Vai a sapere.

Scaraventai il parka in direzione della scrivania e mi fiondai in sala riunioni.

Stessi muri verdi, stesso tavolo, stesso elenco di vittime della crudeltà, della malinconia, della follia o della malasorte.

Morin fece gli onori di casa.

Uno spacciatore, trattenuto e colpito ripetutamente da due rivali, era crollato sul marciapiede e non si era più rialzato. Probabile omicidio per rotazione e iperestensione della testa.

Un uomo si era infilato al collo un cappio fissato a un albero e aveva pigiato l’acceleratore del suo pickup. Probabile suicidio per autodecapitazione.

Un tossico con dipendenza da metamfetamina aveva dormito nudo sul balcone, morendo assiderato. Probabile incidente per suprema stupidità.

Mentre Morin parlava, la Briel batteva rapidi colpetti sulla sua copia del ruolino, le rughette sulla fronte che tentavano di stabilire un nuovo record personale.

La Santangelo si alternava tra il bere da una bottiglietta di acqua naturale e il raschiarne via l’etichetta con l’unghia del pollice.

La Ayers sedeva mezza voltata, concentrando l’attenzione su un punto a metà strada tra la finestra e la lavagna.

Morin si prese l’omicidio, la Santangelo il suicidio. Il tizio sciroccato toccò alla Ayers. La Briel saltò il turno.

Osservai i miei colleghi, mentre richiedevano i rispettivi incartamenti.

Facce tirate, voci tese, sguardi elusivi.

Prima Lisa e Joe. Ora questo.

Che diavolo?

Certo, Babbi Natale ed elfi erano un ricordo, febbraio e marzo incombevano, lunghi e tetri, ma percepivo qualcosa di più del semplice malumore postfestività.

Apprensione per LaManche? Forse. Per i tagli al budget? Forse.

Potevo entrarci io? Ero furente per la seconda spedizione a Oka. Chi mi stava intorno avvertiva le vibrazioni negative?

Morin si voltò verso di me.

«Immagino ti sia giunta voce del recupero di ulteriori restia Oka.

La Briel roteò gli occhi.

«Sì.» Glaciale.

«Il coroner vuole sapere se adesso è possibile un’identificazione o un’esclusione.»

«Gli parlerò.» Nient’altro. Avevo deciso di presentare le mie lagnanze direttamente a Hubert.

Non potevo fare a meno di chiedermi perché Joe avesse acconsentito ad accompagnare la Briel. Sapeva che sarei andata su tutte le furie. Tornare a Oka era il suo modo di rimproverarmi qualcosa?

Quando Morin chiese se ci fosse altro, la Santangelo si schiarì la gola.

«In effetti, qualcosa ci sarebbe...»

Tutti riappoggiammo il sedere sulla sedia.

«Ho accettato un posto al Bureau du coroner.» Gli occhi di Emily facevano la spola tra Morin, la Ayers e me, indugiando appena una manciata di secondi su ciascuno per poi ripartire. «Comincio il 1° febbraio.»

Sconvolti, ci limitammo a fissarla. Era all’LSJML da quindici anni.

Alla mia destra, la Briel s’immobilizzò brevemente, poi ricominciò a fare scarabocchi.

«So che può sembrare improvviso.» Emily appiccicò i brandelli di etichetta uno sull’altro. «Non lo è. Da un po’ sentivo il bisogno di cambiare.»

I suoi occhi si posarono su di me. Li trattenni nei miei.

Perché non dirmelo quando mi aveva telefonato a Charlotte? Era quella la ragione per cui mi aveva spinto a tornare a Montréal? Non feci alcuna domanda.

Lei distolse lo sguardo.

«Wow.» La Ayers si appoggiò pesantemente allo schienale.

«So che il momento è pessimo. State ancora formando il nuovo personale.» Il tono della Santangelo era neutro. Evasivo? «Farò di tutto per rendere il passaggio delle consegne il più indolore possibile.»

La Ayers e Morin si scambiarono una rapida occhiata, in cui intravidi un mese di confabulazioni.

«Sicura della tua scelta?» La preoccupazione incupiva gli occhi già scuri di Morin. Forse la stanchezza, anche: le dimissioni della Santangelo significavano ricominciare da capo con l’interminabile trafila di un’assunzione.

«Sì.» Emily attaccò sul suo mucchietto un frammento solitario.

«Ci mancherai» dissi.

«Oh, ma ci vedremo ancora.» Cercava di farla sembrare una cosa da niente. Non funzionava granché. «Sarò al piano di sotto.»

Uscimmo tutti in fila indiana. Niente battute. Niente frecciate.

Caffè, poi di nuovo in ufficio. Appesi il parka all’attaccapanni, controllai i messaggi in segreteria, feci qualche telefonata.

Mentre riagganciavo, mi cadde l’occhio su una lettera che era riuscita a emergere dal cumulo di posta inevasa. La piccola busta bianca recava l’indirizzo dell’LSJML, scritto a mano e con la dicitura «personale». La presi con curiosità e scollai il lembo superiore, passandoci il dito.

Un unico foglio, su cui era scribacchiato un messaggio di una riga.

«Va-t ‘en chez toi inaudite Américaine!!»

Tornatene a casa tua, maledetta americana.

Ovviamente il mittente non aveva apposto alcuna firma.

Controllai la busta. Timbro locale. Niente indirizzo di ritorno.

«Grazie del pensiero, cagasotto.»

Rispedii il biglietto e la sua busta nel mucchio, poi mi diressi al mio laboratorio, dall’altra parte del corridoio.

E mi fermai, impietrita.