22
«Il chiamante ha informazioni confidenziali.»
Il nome di Perry Schechter era accompagnato da una sequenza di dieci cifre che cominciava con 312.
Chicago.
Forse l’avvocato di Edward Allen Jurmain aveva scoperto l’identità del bastardo che spargeva veleno su di me.
Composi il numero.
Quattro squilli, poi una voce stucchevole mi invitò a dettare nome, recapito e motivo della chiamata.
Feci come richiesto e buttai giù.
Che altro sarebbe andato storto, quel giorno?
Verificai la data e l’ora scritte a mano sul foglietto: Schechter aveva contattato il laboratorio la mattina, alle 9.15.
L’orologio segnava le 18.40.
Decisi di tentare ancora da casa.
Certo! L’avrei trovato di sicuro.
E invece no.
Provai una volta appena arrivata, due volte dopo avere condiviso un take-away thailandese con Birdie. Niente.
Mentre raccoglievo gli avanzi della cena, chiamò Vecamamma. Stava prendendo in considerazione l’intervento per la cataratta e voleva il mio parere. Le dissi di lanciarsi.
Chiesi notizie di Cukura Kundze; mi raccontò che era stato autorizzato il ritiro delle spoglie di Laszlo. I genitori avevano organizzato una funzione commemorativa e il funerale. Mia suocera, ovviamente, ci era andata. Benché affranti, Cukura Kundze e il signor Tot erano apparsi sollevati al pensiero che il ragazzo fosse finalmente in regola con Dio, almeno dal punto di vista della sepoltura. Descrisse la bara, i fiori, la musica, la cena, l’inappropriato abito magenta di Cukura Kundze e, naturalmente, l’omelia.
Conoscendo la prassi di conservazione dei campioni nei casi irrisolti di omicidio, mi domandai quanto di Lassie fosse effettivamente sceso sotto terra.
Tenni questa considerazione per me.
Chiesi a che punto era l’indagine. Vecammama non lo sapeva.
Riagganciai e, per l’ennesima volta, mi soffermai a rimuginare su che cosa potesse essere successo a Laszlo. Perché il ragazzo era stato ucciso? Dove? Da chi? Sperai che il suo caso non finisse come migliaia di altri, in una scatola dimenticata su uno scaffale in un deposito della polizia.
Alle undici andai a dormire.
Più tardi, nella notte, mi raggiunse il gatto.
Dormii fino alle otto del mattino dopo. Mentre mi dirigevo al laboratorio, tenni a me stessa un discorsetto: male l’ostilità, bene la serenità; vedere il lato positivo fa stare meglio e si campa pure di più. Bla, bla, bla.
Come prima cosa, chiamai Schechter.
La solita voce melliflua ripetè le istruzioni del giorno prima. Lasciai un secondo messaggio e posai il ricevitore. Delicatamente.
La riunione del mattino si svolse all’insegna dello stesso gelo artico del lunedì. Niente sorrisi, niente battute, nessuno che avesse voglia di trovarsi lì.
La Briel non c’era. Seppi che aveva cominciato a tenere un corso alla facoltà di Medicina di Lavai. Mentre sciamavamo fuori dalla stanza, presi da parte la Ayers e le chiesi come mai tutti sembrassero così giù. Mi liquidò sbrigativamente, farfugliando di fatica, di superlavoro e se ne andò a praticare il taglio a Y nel petto di Marilyn Keiser.
Tornata alla mia scrivania, chiamai l’ufficio del coroner. Rispose una nuova segretaria. Feci per lasciare un messaggio, m’interruppi, domandai il suo nome. Adéle.
Mi presentai. Ci scambiammo qualche amenità. La nuova me stessa.
«È arrivato il file Gouvrard?»
« Un instant, s’il vous plaît. »
Udii un suono metallico, chiavette da computer, lo spostamento d’aria mentre il ricevitore veniva portato all’orecchio.
«Oui. Ce l’ha la dottoressa Briel.»
«Che cosa?» Brusca.
Silenzio.
Inspirai profondamente. «Scusi, Adéle, ma non capisco. Perché il documento è stato inviato alla dottoressa?»
«Secondo la scheda, è lei che sta gestendo il caso.»
«È un errore.» Educatissima. «La pregherei di sostituire il suo nominativo con il mio.»
Adéle non disse nulla.
«Se ha delle perplessità, prego, si rivolga a monsieur Hubert.»
Due richieste. Due «per favore».
La donna esitò, poi: «Devo recuperare il dossier e consegnarglielo?».
«Non è necessario, grazie.»
Stavo riagganciando, quando Joe infilò la testa nel mio ufficio.
«Qualcosa per me?»
Feci per chiedere le radiografie della presunta famiglia Gouvrard, poi ricordai, sorrisi.
Attese con un’espressione neutra.
Le donne del Sud sono famose per sapere cosa dire, come combinare parole e frasi per mettere gli altri a proprio agio. È una qualità che ammiro, ma che - per dirla gentilmente - non possiedo. In materia di conversazione sono un disastro.
Non avendo idea dì quale potesse essere un terreno comune d’interesse tra me e Joe, mi aggrappai a quel che aveva detto il giorno prima, dopo il mio tentativo di blandirlo con il biscotto gigante al cioccolato.
«Sentiamo un po’.» Un buon inizio in stile Dixie. «Hai detto che passerai il weekend a esplorare. Mi hai incuriosito.» Palla clamorosa: ogni mio pensiero era rivolto alle ossa del Lac Saint Jean. «Esplorare che cosa?»
Joe non fuggì a gambe levate, ma nemmeno fece di tutto per incrociare il mio sguardo.
«È solo un hobby.»
Non era una risposta.
«Ma fa così freddo... Che cosa esplori?»
Alzata di spalle. «Roba.»
Sciocchino, così non mi faciliti il compito.
«Caverne? Miniere? Altre dimensioni?»
«Roba sotterranea. Si chiama drainsploring. Niente d’importante. Le sta bene che quella ragazza ficchi il naso nella sua stanza-archivio?»
Il rapido cambio di argomento mi colse di sorpresa. «Quale ragazza?»
«Una tipa sta frugando tra i suoi vecchi casi.»
Per i convenevoli poteva bastare.
«Voglio le radiografie delle vittime del Lac Saint Jean»
Scattai in piedi e raggiunsi il mio laboratorio dall’ai* tra parte del corridoio.
La «tipa» dava le spalle alla porta e stava esaminando il contenuto di una scatola. Sull’etichetta, la scritta LSJML-28723.
«Mi scusi...»
Quando si voltò, due trecce color margarina sbatacchiarono sotto una bandana triangolare annodata sulla nuca. Benché alta almeno un metro e ottanta, sembrava pesare come una ragazzina delle medie.
«Mi ha spaventata!» Mano sul petto.
Incrociai le braccia. Presi in considerazione la possibilità di battere il piede a terra, ma non lo feci. «Lei sarebbe?»
«Solange Duclos.»
Il nome non mi diceva nulla. La mia faccia lo espresse chiaramente.
«La ricercatrice della dottoressa Briel.» Quasi un sussurro.
La studentessa dell’Université de Montréal! Me n’ero completamente dimenticata.
«Chi l’ha fatta entrare?»
«La dottoressa mi ha dato una chiave.» La mostrò.
Porsi il palmo girato in su, lei ce la fece cadere sopra.
«La dottoressa mi ha suggerito di familiarizzare un po’ con la dentatura, esaminando i vecchi casi.» Portava il rossetto più rosso che avessi mai visto, di quelli che hanno nomi come Papavero appassionato o Peperoncino.
Le feci segno di uscire dalla stanzetta. Afferrò un manuale rilegato a spirale e si affrettò a eseguire, passandomi accanto, il libro stretto al seno quasi inesistente.
Dopo aver chiuso a chiave la porta, la raggiunsi.
Non prendertela con la ragazza, mi ripromisi.
«È passata dal dottor Morin?»
Annuì, le labbra cremisi storte da un lato.
«A parte “familiarizzare”, la dottoressa Briel le ha fornito ulteriori istruzioni?»
Scosse la testa.
Magnifico. La Briel aveva un’apprendista sul posto, ma non era nemmeno in sede.
La Duclos sollevò una copia consunta dell’Osteologia umana di William M. Bass.
«Mi ha dato questo. Il capitolo sulla dentatura è veramente ben fatto. Conosco i denti, naturalmente: incisivi, canini, molari, premolari. Devo solo dare una ripassata ai dettagli.» Non balbettava, ma quasi. «Sono un po’ debole sulle distinzioni mandibolare/mascellare, sinistra/destra.»
«Si sieda.» Indicai l’unica superficie nella stanza che non fosse coperta di ossa. «Lì.»
Spostò una sedia in quel punto. Mentre si accomodava, tornai nello stanzino. Con una chiavetta rotonda presa dal mio mazzo, aprii un armadio metallico e prelevai una vaschetta di plastica.
La Duclos mi guardò tornare, gli occhi tondi come due frisbee.
«Faccia pratica con questi. Li divida per categorie, poi per arcata: superiore contro inferiore.»
La vaschetta atterrò sul banco di lavoro con un piccolo tonfo sordo.
Dopo un caffè, ritentai con Schechter.
Niente.
Quindi, andai nell’ufficio della Briel. Sul suo tavolo c’era una busta grigia, indirizzo del mittente: SQ, Chicoutimi.
Eccitata, tornai nel mio laboratorio.
Ma l’euforia non durò per molto.
Le cartelle dei Gouvrard facevano sembrare esauriente il dossier Villejoin. Non c’era una radiografia. I dati medici e odontoiatrici erano insignificanti.
I rapporti, battuti a macchina, erano sbiaditi e macchiati, probabilmente per effetto della carta copiativa. Gli appunti scritti a mano erano a malapena leggibili.
Dopo tre ore e mezza passate con gli occhi strizzati e la lente d’ingrandimento a tradurre dal francese colloquiale, ne sapevo come prima di cominciare.
Achille, il padre, aveva sofferto di ipertensione ed eczema: disturbi per cui assumeva dei farmaci. Di statura misurava uno e settantaquattro (inutile: non avevo ossa lunghe complete). A trentasette anni, si era rotto tre dita del piede in un incidente sul lavoro (non avevo dita dei piedi). L’assenza di cartelle odontoiatriche induceva a pensare che paparino non si sottoponesse a controlli regolari dal dentista.
Vivienne, la madre, non presentava alcuna patologia in grado di alterare lo scheletro. Aveva problemi di quello che oggi chiameremmo reflusso gastroesofageo, soffriva di emicrania, aveva perso un bambino al secondo mese di gravidanza tre anni prima della nascita del suo primogenito. La cartella non riportava alcuna indicazione della statura.
Mammina aveva subito la devitalizzazione del primo e secondo molare inferiore di destra. Entrambi erano andati perduti dopo il decesso.
Serge, il più grande dei due fratellini, si era fratturato l’ulna destra a sei anni: l’osso non era tra quelli recuperati. Aveva avuto il morbillo a sette e la varicella a nove. Il giorno del suo undicesimo compleanno aveva riportato una leggera commozione, cadendo da un albero.
Il ragazzo era stato più volte da un dentista per problemi di carie, ma non avevo alcuno dei suoi denti.
Guardai l’orologio: l’1.10.
Dall’altra parte del laboratorio, Solange era ancora intenta a classificare incisivi e canini. Quelle labbra al neon mi fecero pensare all’impronta che avrebbero lasciato su un vetro.
Tentai di nuovo con Schechter, lasciai un terzo messaggio, poi me ne andai a pranzo.
In mensa c’era Natalie Ayers. M’indicò una sedia vuota di fronte a sé. Sedetti. Memore di come mi aveva liquidato in precedenza, evitai l’argomento del malumore generale.
«Finito con la Keiser?»
Annuì, i denti conficcati in un sandwich con insalata e uova sode.
«Era la Keiser, suppongo.»
«Sì. A causa di decomposizione e combustione, faccia e denti erano andati. Per fortuna aveva un ponte: quello è sopravvissuto. Abbiamo le cartelle odontoiatriche antemortem: c’era corrispondenza.»
«Che cosa l’ha uccisa?»
«Chi lo sa? Gli organi interni erano ridotti in poltiglia, le radiografie non mostravano fratture, proiettili o corpi estranei. Ho mandato dei campioni per l’analisi tossicologica, ma non sono ottimista.»
«Hai trovato fumo nei polmoni o in trachea?»
Fece ondeggiare una mano: forse sì, forse no. Dunque non era chiaro se la Keiser fosse viva quando era divampato l’incendio.
«Era una fumatrice?»
«Stando a Claudel, sì.»
Attaccò con l’altra metà del panino. Io finii i resti della mia insalata, poi passai a un altro argomento.
«La studente della Briel è qui, ma la Briel è a Lavai a istruire le giovani menti.»
Emise uno sbuffo d’aria dal naso. «Nossignora. La nostra Wunderkind è di sotto a istruire se stessa.»
«Oh?»
«È arrivata mentre me ne stavo andando e ha chiesto se poteva studiare la Keiser. Per fare esperienza.»
«È un fenomeno» risi.
«Già.» Nessuna traccia d’ilarità.
Girò il caffè, batté il cucchiaino sull’orlo della tazza, lo posò. «Scusa per prima.»
«Nessun problema» dissi.
«Hai ragione: l’atmosfera nella nostra sezione è diventata uno schifo.»
«Perché manca LaManche?»
Ci rifletté. «No. Non è questo.»
«Per quale motivo allora?»
«Non voglio spettegolare, ma ti dico che le tensioni in questo ufficio sono la ragione per cui la Santangelo ha lasciato il posto.»
«Che cosa intendi?»
Scosse il capo. «Chiedilo a Emily.»
«Mi ha chiamato nel fine settimana per avvertirmi che la Briel e Joe se n’erano tornati a Oka. Mi ha spinto a venire qui di corsa, ma non ha mai accennato all’intenzione di mollare il laboratorio.»
«Parlale.»
Mi ripromisi di farlo appena possibile.
Poi gli eventi cominciarono a precipitare e il mondo sembrò deviare dalla sua orbita.