21
«La Keiser aveva un rifugio.» Tipico di Claudel: andava dritto al punto. Niente «Bonjour», niente «Comment ça va?».
Sorpresa, posai la vertebra che stavo esaminando con una lente.
«Il custode del palazzo è un tizio di nome Luigi Castiglione Lu per gli amici. Ieri sono andato a interrogarlo per verificare la sua versione e, per tutta la durata del colloquio, c’era qualcosa che mi disturbava, come se avesse un aspetto diverso da come lo ricordavo. Per non parlare del fatto che era nervosissimo. Calco un po’ la mano e lo stronzo si lascia sfuggire che è appena tornato da un soggiorno di sei mesi nel Paese d’origine.»
Rapido calcolo: da luglio a gennaio. Il che collocava Lu in Italia all’epoca della scomparsa e fin dopo l’inizio delle indagini.
Feci per porre una domanda. Il sergent alzò una mano curata.
«Così gli chiedo: com’è che era contemporaneamente qui ad aggiustare tubature e dall’altra parte dell’oceano? Ammette di avere un gemello: Eddie. Ci credi? Eddie e Lu: pare una coppia d’avanspettacolo.»
Evitai di interrompere.
«Questo modello di virtù non vuole perdere il posto solo perché si è preso una vacanza, così, piazza il fratello a fare il custode durante la sua assenza. Il trucco riesce: nessuno si accorge dello scambio. Il fatto è che Lu lavora nel palazzo da ventidue anni, probabilmente usando la sua parlantina per spremere mance. A ogni modo, conosce bene i condomini, sa tutto di loro. Eddie, invece, non sa un tubo.»
Capito. Lu doveva aver rivelato qualcosa di cui Eddie, a suo tempo, non era al corrente. Quindi nuova ricerca. Tombola!
«Dov’era lei?» chiesi.
Claudel scosse la testa, come sorpreso dall’eccentricità del genere umano.
«Si scopre che la vecchia aveva una sorta di rifugio vicino al Lac Memphrémagog.»
Sorvolai sull’appellativo poco rispettoso. «Ci andava a dipingere...»
Abbassò il mento. «Sì. In origine era il capanno da caccia del suo terzo marito.»
«Terzo?»
«Sì, i figli Otto e Mona mi hanno raccontato tutta la vita sentimentale della mamma. Un’accoppiata grandiosa! A proposito: devo tornare a trovarli.»
«Oh?»
«Solo una sensazione. Il problema è che erano tutti e due a chilometri da Montréal quando la mamma è scomparsa dal radar. Non ci sono prove di un ammanco. Comunque, sto esaminando i loro dati finanziari, cercando conti segreti, trasferimenti o prelievi sospetti, debiti ingenti, grandi acquisti. Qualunque comportamento indicativo negli ultimi tre mesi. Mutamenti di routine, abitudini nelle spese, reddito. È un tentativo un po’ alla disperata, ma non abbiamo altre piste. Sto anche verificando la possibilità dell’esistenza di qualche vizio: tossicodipendenza, gioco... le solite cose. Lo stesso faccio per il figliastro, Myron Pinsker.»
«E i tre mariti?»
«Il numero uno era Uri Keiser. Si sono sposati nel 1958, divorziati nel 1978. Nel 1979 lui si è risposato, nel 1982 si è trasferito a Brooklyn. Tra lui e l’ex moglie non correva buon sangue: da allora è sempre rimasto a New York. Poi è venuto Pinsker. Convolati a nozze nel 1984. E morto di aneurisma nel ‘96.»
«Sarebbe il padre di Myron?»
«Sì. E gli ha pure dato il nome. Perché appioppare a un povero bambino una condanna simile? È una cosa ebrea?»
«Non credo proprio.»
«Il terzo maritino era Samuel Adamski. La Keiser l’ha sposato nel 1998. Tra l’altro c’è un aspetto interessante: era quattordici anni più giovane della sposa. Lei ne aveva sessantuno, lui quarantasette.»
«È ancora in circolazione?»
«Morto in un incidente nautico nel 2000. Niente lacrime, almeno da parte di Otto e Mona. I due sostengono che l’uomo era un parassita, e infido come una serpe.»
«Quando Adamski comprò la tenuta, la moglie provvide a far mettere tubature ed elettricità al capanno da caccia. Tenne la faccenda segreta. La proprietà è ancora intestata al terzo marito: per questo è passata inosservata.»
«I figli non ne sapevano niente? E il figliastro?»
«Stando alle dichiarazioni, nessuno sapeva niente.»
«Eccetto Lu.»
«Da non credere, eh? Comunque, appena Castiglioni ha vuotato il sacco, ho trascinato le chiappe in campagna. Dall’esterno il posto sembra splendido. Dentro è un’altra storia.»
Claudel ha l’abitudine di sollevarsi sulle punte quando arriva al passaggio decisivo. Lo fece in quel momento. Poi si riabbassò.
«All’interno c’è un’unica stanza, più un sottotetto-zona notte nella parte posteriore. Nell’angolo di sinistra, accanto a una stufa a legna, c’erano tappeto, parete e divano completamente bruciati. E un corpo.»
Déjà-vu: un fuoco che divampa rapidamente, finisce il combustibile, si spegne. Una stanza può essere carbonizzata, mentre l’altra rimanere intatta.
«Dov’era il cadavere?»
«Sul divano, metà su e metà giù.»
«Sicuro che sia la Keiser?»
«Noooo, io ho scommesso su Hillary Clinton.»
Ignorai il sarcasmo. «L’hai detto ai figli?»
Annuì. «Nessuno dei due ha lasciato intendere che si sarebbe precipitato a prenotare un volo. Pinsker sta venendo qui adesso.» Le labbra sottili si assottigliarono ulteriormente. «A meno di una coincidenza veramente madornale, è la Keiser.»
Pensai a Rose Jurmain, alle sorelle Villejoin.
«Qualche motivo per sospettare un’azione criminosa?»
«Oddio, gli assegni della pensione incassati. E la borsa ritrovata in un cassonetto a un milione di chilometri dalla tenuta. Ma non c’erano segni di effrazione alla baita, se è ciò che intendi. Il posto non è stato messo sottosopra. Niente sangue. La vittima era completamente vestita.»
«Traumi evidenti? Ferite d’arma da fuoco? Colpi in testa?»
«Sono un investigatore, non un patologo.»
Spesso l’arroganza di Claudel mi provoca oltre il limite. Considerati gli eventi della giornata, rimasi sul ciglio, aggrappata con le dita dei piedi. Ma aveva ragione, la mia domanda era stupida.
E anche quello mi rendeva irritabile.
«Mentre investigavi, qualcosa ti ha indotto a sospettare che la Keiser potesse essere morta altrove?»
«Giaceva a faccia in giù. Il contatto con il pavimento ha conservato la carne su ventre e torace. Il livor sembrava congruo.»
Si riferiva al terzo dei fenomeni consecutivi al decesso. Rigor mortis: irrigidimento dei muscoli. Algor mortis: raffreddamento dei tessuti. Livor mortis: il sangue filtra verso il basso per effetto della gravità.
Ed ecco, in breve, il livor. Quando il cuore smette di battere e di pompare il sangue in circolo, la gravità fa precipitare i globuli rossi, più pesanti, attraverso il siero, più leggero, ed essi si depositano nelle parti declivi del cadavere. Ne deriva, in queste zone, la formazione di chiazze rosso-violacee che costituiscono, appunto, il livor sulla parte più «bassa» del corpo.
Come i suoi colleghi rigor e algor, il livor lavora con una tempistica precisa, intervenendo da venti minuti a tre ore dopo il decesso, e rapprendendosi nei capillari in quattro-cinque ore. Il livor massimo si raggiunge entro sei-dodici ore.
Così, oltre a essere utile nella stima dell’intervallo postmortem, consente di stabilire se un corpo è stato spostato.
Nella fattispecie: se la Keiser fosse stata in posizione prona con un sedere violaceo al vento, se ne sarebbe dedotto che era stata girata dopo la morte; petto e ventre chiazzati di scuro erano, invece, coerenti con l’ipotesi che fosse morta a faccia in giù.
«La macchina?»
«Parcheggiata sotto una rimessa sul retro.»
Cercai di visualizzare il quadro. Boschi, la baita, la rimessa.
«La proprietà è così isolata?»
«Le abitazioni più vicine stanno a ottocento metri di distanza, ma i villeggianti se ne sono andati fin da settembre.»
«Chi si occupa dell’autopsia?»
«La Ayers.» Scostò un costosissimo polsino per consultare un costosissimo orologio. «Pinsker dovrebbe arrivare a momenti. Darà un’occhiata agli abiti... a quel che ne rimane.»
Mi alzai. «Scendo con te.»
Meschino, ma non potevo farne a meno. La fobia di Claudel è parte della leggenda.
Quell’uomo può tranquillamente esaminare qualunque scena del crimine. Lenzuola inzuppate di sangue? Nessun problema. Cervello spiaccicato sulle pareti? A volontà. Tappeti imbrattati di feci? Perfetto. Per lui la scena del crimine è un insieme di momenti rivelatori congelati nel tempo: violenti, sì, ma remoti, tessere utili per la composizione del mosaico. Secondo la sua visione, ogni scena è un enigma, un puzzle da ricomporre. Sangue e budella parlano: bisogna solo ascoltare attentamente.
Ma piazzate un cadavere sull’acciaio inox e Claudel si ritrova gelatina nelle gambe. Sì: l’amico non sopporta corpi freddi e obitori.
«L’identificazione della salma da parte di Pinsker è una formalità.» Piegò la testa da un lato, il naso aquilino proiettò un’ombra sulla sua guancia. «È la Keiser. Devo rimettermi in movimento.»
Guardai il posteriore di Claudel scomparire oltre la porta, nei pantaloni perfettamente stirati.
Un’ora dopo, ecco Ryan.
«Sono i resti del Lac Saint Jean?» Osservando le ossa disposte davanti a me.
Annuii.
«Sembra roba vecchia.»
«Lo è.»
«Quanto vecchia?»
«Si può tranquillamente affermare che questa gente non ha appeso la calza al camino il Natale scorso.»
«Una quarantina d’anni?»
Lo guardai interrogativa.
«Un Cessna 310 è scomparso nel 1967, mentre era in volo da Chicoutimi a Quebéc. Famiglia Gouvrard: i genitori e due bambini. L’ultimo avvistamento era stato effettuato nelle vicinanze del Lac Saint Jean, perciò si era pensato che il velivolo fosse caduto in acqua, ma non è mai stato trovato alcun relitto.»
Mi porse un foglio. Diedi un’occhiata. Vi erano elencati nomi ed età di quattro individui.
Achille Gouvrard, 48
Vivienne Gouvrard, 42
Serge Gouvrard, 12
Valentin Gouvrard, 8
«Qualche possibilità che esista documentazione antemortem dopo tutti questi anni?»
«Il file è in arrivo.»
«Sei bravo, detective.»
«Sì, immagino che si possa dire così.»
«Sono in debito.»
«A buon rendere.» Sopracciglio esasperatamente inarcato.
Ci fu un rimescolio da qualche parte nella mia regione meridionale.
Lo ignorai.
«Perché il Lac Saint Jean ti ha fatto suonare un campanello?»
«La sorella di Gouvrard era sposata con uno della polizia, Quentin Jacquème. Per anni Jacquème ha diramato un comunicato a ogni anniversario dell’incidente: se fosse emerso qualche nuovo elemento, voleva esserne informato.»
«Una caparbietà da ammirare.»
«Caparbietà. Bella parola. I promemoria cessarono poco dopo che io sono salito a bordo, quando Jacquème è andato in pensione. Essendo un ex SQ, non è stato difficile da rintracciare.»
«Di qui l’esistenza e la reperibilità di un dossier vecchio di quarant’anni.»
«Di qui.»
«Triste la fine della Keiser» dissi.
«Sì» replicò Ryan, «ma annunciata.»
«Già» concordai.
Quando se ne fu andato, terminai l’analisi. Anche se ogni scheletro era frammentato e gran parte delle ossa erosa e danneggiata, c’erano dati sufficienti a stabilire che il profilo della famiglia collimava.
Nessuno dei soggetti mostrava problemi medici o dentari evidenti.
Che dire degli zigomi ampi e del dente scavato del papà? Probabilmente una variazione nella norma.
Nondimeno, avrei fatto meglio a chiedere ragguagli a Jacquème circa le origini di suo cognato.
Alle 16.20 telefonai a Hubert per riferire la scoperta di Ryan.
«Millenovecentosessantasette.» Sentii tendersi il cuoio, mentre il coroner si agitava sulla sua poltrona.
«Dunque il referto della dottoressa Briel diventa irrilevante. A proposito, com’era andata?»
«Sei meno meno.»
Emise uno dei suoi suoni indecifrabili.
«Non posso sottoscrivere un’identificazione sulla base di quel che ho» dissi. «La documentazione antemortem è in arrivo, ma non sono ottimista. Ho pochissimi denti, nessuno del bambino più piccolo.»
«DNA?»
«Mitocondriale, forse, ma è una possibilità estremamente aleatoria. La qualità delle ossa è assai scadente. Quante probabilità ci sono di rintracciare i parenti materni?»
«Tabarnac. Quante famiglie vuole che ci siano in fondo a un lago?»
Mi tornarono in mente le sue parole accanto alla fossa di Christelle Villejoin: «Quante nonnine spariscono da queste parti?». Non dissi nulla.
«Inoltre, quell’incidente aereo è storia antica.»
«La storia antica può avere ripercussioni negative. Se si tratta della famiglia Gouvrard, potrebbero esserci istanze legali pendenti: eredità, assicurazione, debiti.»
«Madame Keiser è di sotto.» Cambiare argomento: ecco la procedura standard di Hubert quando voleva svicolare. «La Ayers farà l’autopsia come prima cosa domani mattina.»
Attesi.
«Forse la Keiser ha perso il lume della ragione e si è data fuoco.»
«Non c’è alcuna storia di demenza.»
«Be’, la merda capita.»
Trascorsi altre due ore con le ossa del Lac Saint Jean, elencando particolari che avrebbero potuto rivelarsi utili all’arrivo delle cartelle antemortem. Hubert, probabilmente, aveva ragione. Mamma, papà e due figli... Quante probabilità c’erano che non fossero loro? Eppure, dovevo avere le prove.
Le caratteristiche pelviche mi rivelarono che l’uomo e la donna dovevano avere circa trentacinque e cinquantanni.
La valutazione del sesso è approssimativa con lo scheletro dei preadolescenti. Di uno avevo solo frammenti, dell’altro mi mancava tutto il bacino, perciò si trattava di un’impresa disperata.
Non c’erano la mandibola e gran parte della testa del ragazzino più grande, ma lo sviluppo osseo di braccia e gambe suggeriva un’età di dieci-dodici anni.
Il più giovane era rappresentato da due vertebre, tre ossa lunghe parziali, un calcagno, una manciata di frammenti cranici. Il grado di maturità delle epifisi femorali faceva pensare a un soggetto tra i sei e gli otto anni. Avevo anche tre molari isolati, due da latte e uno permanente. La presenza di faccette da usura indicava per tutti una completa eruzione, il grado di chiusura delle radici induceva a ipotizzare sei-otto anni d’età.
Perché restava così poco del cranio dei bambini? Nulla di inquietante: le singole ossa che compongono la volta infantile sono separate o saldate solo parzialmente. Quando cede il tessuto molle, spesso si disgiungono in corrispondenza delle suture, le arzigogolate linee lungo cui si articolano.
Tutti e quattro gli individui presentavano fratture craniche e toraciche, il maschio adulto anche qualche trauma agli arti inferiori. La levigatura dei margini rendeva impossibile distinguere le lesioni perimortem da quelle postmortem.
La famille Gouvrard?
Rilessi i miei appunti.
Sesso degli adulti: coerente.
Età di adulti e bambini: coerente.
Trauma scheletrico: coerente con un incidente aereo. Le lesioni agli arti inferiori dell’uomo erano quelle che mi sarei aspettata nella persona seduta ai comandi.
Coerente.
Non era abbastanza: gli zigomi e l’incisivo scavato mi disturbavano ancora.
Mi guardai intorno nel laboratorio deserto: la stampante silenziosa, la spia lampeggiante dei messaggi sul telefono di Joe, l’immagine sullo screen saver che si muoveva all’infinito sul suo computer.
Di solito diceva «Au revoir» prima di staccare: quel giorno se n’era andato senza una parola. Evidentemente, un solo biscotto al cioccolato non bastava. Ma perché il broncio? Era la strigliata che avevo dato alla Briel? Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a pensare a niente di più grave che potessi aver fatto per meritare il gelo.
Demoralizzata, lasciai vagare lo sguardo fino alla finestra. Dodici piani più giù, il traffico scorreva in rivoli di minuscoli puntini rossi. Riflessa nel vetro, una donna sottile, i tratti indistinti, impossibili da decifrare. La tensione delle spalle indicava frustrazione.
Era ora di andare.
Dopo aver riposto i calibri in un cassetto e chiuso la porta del laboratorio, tornai nel mio ufficio.
Con il nuovo sistema telefonico dell’LSJML, le chiamate arrivavano direttamente ai singoli interni; se nessuno rispondeva, passavano alla casella vocale. Occasionalmente, i messaggi venivano trascritti.
Stavo chiudendo la lampo del mio parka, quando notai un foglietto rosa dall’aspetto obsoleto nella confusione di carte del mio tavolo.
Lo presi, lo lessi.
Sììì!
Agguantai la cornetta.