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Quando arrivammo al mio appartamento, sapevamo ormai che Caffrey/Keith/O’Keefe - Adamski? - non si trovava a casa, né al lavoro.

Ryan emanò un comunicato di allerta. Quasi non ero scesa dalla jeep, che ripartì sgommando, le mani strette sul volante.

Quella sera chiamò verso le venti.

«È uscito dalla porta di servizio.»

«Lo prenderai.»

«Dannazione, lo avevo.» La sua voce era tesa, carica di frustrazione. «Avevamo già in pugno quel figlio di puttana.»

«I vicini che cosa ti hanno detto?»

«È gente che si fa gli affari suoi. E che non si confida con la polizia.»

«Alla stazione di servizio?»

«Non si è più visto da mercoledì.»

Il giorno in cui lo avevamo interrogato. Non lo dissi.

«Ho faxato la sua foto segnaletica a Trois Rivières. L’hanno mostrata in giro al camping di La Tuque dove Adamski si era fermato nel 2000, all’epoca del tragico incidente. È lo stesso tizio. E lo stesso campeggio.»

«No!»

«La struttura che ha organizzato la caccia all’orso di Bud Keith.»

«Bel lavoro, detective.»

Sbuffò, caustico. «Tranne che per aver lasciato andare via il bastardo senza nemmeno voltarsi.»

«Non arriverà lontano.»

«Nel 2000 è sparito, morto per il mondo fino a due anni fa. E non abbiamo una fottuta idea di dove sia stato per tutto il tempo.»

Vero. Non dissi neanche questo.

«Era vero che il cadavere di Adamski non è mai stato trovato?»

«Sì.» Suonava esausto. «Sembra sia uscito in barca da solo, una mattina presto. Hanno trovato l’imbarcazione capovolta; lui non c’era. Hanno dragato il lago in lungo e in largo per una settimana, recuperando il cappello, il portafoglio, l’attrezzatura da pesca, ma del corpo neanche l’ombra.»

«E alla polizia locale non è sembrato strano?»

«A quanto pare, capita. In certi punti il lago arriva quasi a trenta metri di profondità.»

Flash improvviso: le vittime del Lac Saint Jean abbandonate nel mio laboratorio. Fu il mio turno di sentirmi in colpa: Quentin Jacquème attendeva da quarantanni una risposta sulla sorte di suo cognato Achille e dell’intera famiglia Gouvrard.

Lunedì. Come prima cosa. Niente distrazioni.

«... devo ammetterlo, per oggi do forfait.»

Lo immaginai che si arruffava freneticamente i capelli: mi pareva di vedere le ciocche sparate in ogni direzione.

Aprii la bocca.

Esitai.

Al diavolo!

«Vuoi venire qui?»

«Grazie, Tempe, davvero, ma ho promesso a Lily che sarei passato a prenderla domattina presto. Non posso fare casini: sarà meglio che me ne vada a letto.»

«Capisco» dissi. Non capivo.

«Sai dove vorrei essere. È solo...» Per favore, richiedimelo.

«Certo.» Avevo il petto in fiamme. Dovevo riagganciare.

Birdie e io guardammo Pretty Woman, poi crollammo.

Domenica fu una giornata che avrebbe reso Alexander Graham Bell molto felice. O molto ricco. La prima a telefonare fu Harry, mentre leggevo il «Gazette». Passò venti minuti a farmi il resoconto sulla sua ultima conquista, quindi mi chiese come stavo.

Descrissi la mia avventura con l’insalata di prosciutto.

Lei domandò se avessi identificato il bastardo anonimo che sputava veleno su di me. Dissi di no. Suggerì un trattamento radicale per i suoi genitali, poi chiese come andasse con Ryan. Per evitare l’argomento, parlai dell’atmosfera acida in laboratorio, descrissi la performance televisiva della Briel e riferii la mia conversazione con la Santangelo.

Mi ordinò una giornata di riposo totale, citando chissà quale teoria strampalata su germi, stress, karma e longevità. Certo, dissi. Senza troppa convinzione.

Insistè, mi fece promettere. Alla fine, l’accontentai. Conoscevo mia sorella: avrebbe chiamato ogni due ore per verificare se ero in casa.

Poi fu la volta di Katy. Usciva con un musicista di nome Smooth, trentadue anni, di Pittsburgh, che suonava in una band chiamata Erezione polare. Inutile dire che le notizie di mia figlia mandarono a quel paese il regime di rilassamento karmico di Harry.

Nel complesso, però, me la presi comoda sul serio: scrissi qualche relazione, riuscii faticosamente a smistare le e-mail ancora inevase, lessi, giocai col gatto. Risposi a tutte le chiamate di mia sorella, giurando che non mi ero sottratta agli arresti domiciliari.

Per tutto il tempo non smisi di aspettare novità sulla cattura di Adamski.

Verso le quattro telefonò Chris Corcoran.

Piazzare un microfono tra i detenuti di Statesville aveva pagato: il compagno di cella della «talpa», tale Antoine «Pooter» Brown, aveva fornito particolari sufficienti a farsi appioppare l’omicidio di Laszlo Tot. In cambio di un trattamento di favore, aveva ammesso di essere stato effettivamente presente all’uccisione e si era convinto a vuotare il sacco sul suo complice.

Pooter e un genio che si faceva chiamare Slappy avevano adocchiato Laszlo in una sala giochi. L’avevano seguito fino alla macchina, per poi cercare di rubargliela con la forza. Laszlo aveva reagito.

Slappy aveva accoltellato Lassie sotto gli occhi impotenti di Brown, che non aveva avuto il tempo di fermarlo.

Come no.

In seguito, i due avevano vuotato le tasche del ragazzo e ficcato il cadavere nel bagagliaio della sua stessa auto. Avevano girato senza meta, discutendo sulla prossima mossa. Pooter era di Thornton e pensò alla cava.

Dopo essersi sbarazzati del corpo, avevano abbandonato la macchina nel parcheggio di un centro commerciale di periferia e preso un treno per tornare in città. Con i soldi del morto.

Al momento dell’arresto, Slappy aveva dichiarato che era Pooter l’uomo con il coltello. Molto originale.

Ryan chiamò alle sei. Il suo umore non era proprio alle stelle, ma pur sempre un milione di chilometri più su della sera prima.

«Tira fuori lo champagne.»

«L’avete preso?»

«Siamo sulle sue tracce.»

«Oh yeah!»

«L’hai detto veramente?»

«Dov’è?»

«Circa alle quattro del pomeriggio di giovedì, un uomo corrispondente alla descrizione di Adamski ha noleggiato una Hyundai Accent al Budget di Boulevard Décarie. Non indovinerai mai il nome di quel signore.»

«Miller Moosehead.»

«Carina. Con l’allitterazione. Ma no: Lucky Labatt.»

«Lucky?»

«Lucky Lager.»

«Mai sentita.»

«La beveva Jack Nicholson in Cinque pezzi facili.»

«Per noleggiare un’auto ci vuole la patente, la prova d’assicurazione. Come fa Adamski a rispuntare così in fretta con una nuova identità?»

«I documenti falsi sono una delle sue specialità. Non ci avrà messo molto a procurarsene di nuovi. Diavolo, probabilmente ne teneva qualcuno di riserva nel cassetto della biancheria intima. Ho diramato un comunicato di allerta, qui e a livello nazionale, tramite il CPIC, Canadian police information center. Ho anche trasmesso i dati ai ragazzi del confine. Lo prenderanno. Vai in laboratorio domani?»

«Be’, certo! Hubert mi starà addosso come il verde a Kermit.»

«Prima “yeah”, ora una metafora sulle rane. Sei tornata scattante.»

«Una similitudine.»

«Eh?»

«La similitudine pone a confronto due idee tramite la parola “come”. La metafora associa direttamente due termini apparentemente non correlati.»

«Sì, è di nuovo tra noi.»

«Le ossa del Lac Saint Jean mi aspettano da mercoledì.»

«Non sono i Gouvrard?»

«Probabilmente sì.»

«Hai altre possibilità?»

«No.»

Sentii una voce femminile sullo sfondo e un rumore attutito, come se il ricevitore fosse stato coperto o premuto contro il petto. Qualche secondo e Ryan era di nuovo in linea.

«Devo riportare Lily a casa.»

«Avete passato una buona giornata?»

«Meglio non poteva andare.»

«È ancora arrabbiata?»

«Come un’ape in una bottiglia. Similitudine.» «Tienimi al corrente su Adamski in tempo reale.» «Passo e chiudo, Signora-informata-dei-fatti.»

 

Il lunedì scattai in piedi sprizzando energie da tutti i pori: mi sentivo come se avessi potuto rimboschire da sola l’intera Amazzonia.

Gli assassini di Laszlo erano dietro le sbarre a Chicago. Adamski sarebbe presto finito nel sacco.

Io ero guarita. La vita era bella.

E così il tempo: cielo azzurro, sole accecante. Si prevedeva che la temperatura avrebbe raggiunto un confortante +2°C.

Visto che, ormai, le strade erano sgombre, optai per l’auto. Tutto andò bene fino all’arrivo al Wilfrid-Derome. A causa dei quintali di neve che ancora occupavano lo spazio accanto al cordolo, posteggiare nelle vie adiacenti all’edificio restava un incubo.

Dopo venti minuti di giri a vuoto, allungai il contante ed entrai nel parcheggio. Niente di grave: sono solo soldi.

Salii al dodicesimo piano con poliziotti e dipendenti dell’LSJML che si scambiavano pettegolezzi e si raccontavano aneddoti sul weekend appena trascorso. La Briel sedeva nel suo ufficio. Morin e Ayers non c’erano ancora. Nemmeno Joe c’era.

Nel mio laboratorio, le vittime del Lac Saint Jean giacevano disseminate sui tavoli e sul banco di lavoro. Il dossier della famiglia Gouvrard attendeva sulla scrivania. In ufficio il telefono lampeggiava furiosamente.

Stabilii un piano d’azione: prima la segreteria, poi la documentazione antemortem del piccolo Valentin, infine le ossa del bambino da identificare.

Nessuno dei messaggi conteneva richieste particolarmente urgenti. Misi da parte il promemoria che avevo scarabocchiato, mi diressi in laboratorio e aprii la cartella dei Gouvrard.

Pochi minuti e avevo individuato una voce che riaccese le mie speranze.

La tetraciclina è un potente antibiotico, capace di uccidere un ampio spettro di batteri. Purtroppo, se assunta all’epoca dello sviluppo dentario, resta calcificata nello smalto. Ne deriva la discolorazione totale permanente della corona - che si presenta grigia o brunastra - o la formazione di striature orizzontali di intensità variabile.

Negli anni Cinquanta, era prescritta con tale frequenza che il difetto era ampiamente diffuso. E ancora nel 1980, capitava che venisse somministrata a bambini e donne gravide.

Cattive notizie per il vostro sorriso, buone per la vostra identificazione forense.

Stando alla sua cartella, Valentin Gouvrard aveva contratto un’infezione da streptococco all’età di sette mesi. Gli era stata somministrata tetraciclina per tre settimane.

Volai alla libreria, afferrai un manuale, consultai una tabella.

I secondi molari da latte cominciano a calcificarsi tra le sedici e le ventiquattro settimane in utero per i mascellari, tra le diciassette e le venti per la mandibola. Il completamento della corona avviene intorno agli undici mesi per i mascellari, ai dieci per la mandibola.

Rapido ragionamento deduttivo.

Premessa. Valentin Gouvrard ha assunto la tetraciclina quando i secondi molari decidui si stavano formando.

Premessa. I premolari permanenti sostituiscono i secondi molari da latte tra gli undici e i dodici anni. Il bambino sul mio tavolo è morto tra i sei e gli otto, pertanto, all’epoca del decesso aveva ancora i secondi molari dell’età infantile.

Deduzione: se il bambino sul mio tavolo era Valentin, quei molari dovevano essere scoloriti.

Verificai l’inventario. Erano stati recuperati un primo molare permanente e due secondi molari da latte. Benché avessi guardato solo di sfuggita i due decidui - stilando l’inventario e poi disponendoli nelle bacinelle per Joe - avevo riscontrato al massimo un possibile puntolino opaco sullo smalto di quello superiore.

Mentre mi fiondavo a controllare i resti, squillò il telefono.

«Dottoressa Brennan.»

«Monsieur Hubert.»

«Mi dicono che non è stata bene.»

«Ora sono in piena forma.»

«Ottimo. Venga cortesemente nel mio ufficio.»

«Ho appena scoperto un elemento che potrebbe dimostrarsi risolutivo nel caso Lac Saint Jean. Forse...»

«Scenda, per favore.» Brusco. «Subito.»

«C’è qualcosa che non va?»

«Sì.» Il tono del coroner avrebbe rianimato una lattuga avvizzita. «Il mio staff è composto da un branco di incompetenti.»