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«Impressioni?» chiese Ryan,
«Sento il bisogno di una doccia.»
«Lui ha detto che eri tutta un fuoco.»
«Hai visto che bei capelli?»
«Sììì, l’ho notato. Abiti di Walmart, taglio da Wall Street.»
Erano le due passate e la mensa era deserta. Ryan e io prendemmo solo un paio di sandwich alla macchinetta. Il mio, all’insalata di prosciutto, pareva fatto ai tempi dell’offensiva del Têt
«Personalità mutevole.»
«Concordo. Quel tizio è il distacco in persona, poi, d’improvviso, perde le staffe.»
«Credi sia marcio?»
Posò la sua valigetta su un tavolo vicino al distributore, tirò fuori una cartellina, l’aprì. «Su una cosa ha detto la verità: O’Keefe non ha precedenti violenti. Ci sono alcuni reati minorili coperti dalla privacy (se serve potrei appurare di che si tratta). Il primo arresto è stato nel 1968: scippo. Libertà vigilata.» Sfogliò le pagine. «Arrestato nel 1972 per spaccio di banconote false, altra libertà vigilata. Si è fatto la prima galera a Bordeaux dal ‘75 al ‘78: frode con carte di credito.» Continuò a scartabellare. «Un secondo periodo di detenzione verso la fine degli anni Ottanta a Halifax e poi di nuovo all’inizio dei Novanta a Edmonton. Carte di credito in entrambi i casi. L’ultima condanna l’ha scontata di nuovo qui in Quebéc, dal ‘96 al ‘97.»
«Di dov’è?»
«Moncton. Il suo vero nome è Caffrey.»
«Che fa quando non è al fresco?»
«Un po’ di tutto: uomo di fatica, lavori interinali, turni in fabbrica. Collabora con ditte locali di traslochi. Occasionalmente trova impieghi part-time, come quello alla stazione di servizio. Ha messo la testa a posto.» Facendo il verso a O’Keefe.
«Figurati.»
Ci venne la stessa idea contemporaneamente.
«Verificherò se qualcuno si è trasferito nel quartiere delle Villejoin all’epoca dell’aggressione» disse Ryan. «O ha traslocato altrove.»
«O ha fatto imbiancare la casa.»
«Riparare il tetto.»
«M. Keith.» Ci dirigemmo agli ascensori. «Non è un nome così comune in Quebéc.»
«No, non lo è. Sto pensando di far circolare la foto di O’Keefe a Pointe Calumet, per vedere se qualche vicino delle Villejoin si ricorda di lui.»
Riferii a Ryan della mia conversazione con la Ayers.
«Questa Briel è davvero così brava?» Prima le falangi, ora la traccia del proiettile. Non lo disse.
«Con le ossa del Lac Saintjean ha sbagliato alla grande.»
«Come va, a proposito?»
«Ho intenzione di finire il bambino più piccolo tout de suite.»
Mentre pigiavo il tasto per chiamare uno degli ascensori, mi venne in mente una domanda.
«Hai detto che le Villejoin avevano un conto con i risparmi...»
Ryan annuì.
«Come pagavano le spese registrate sul libro dei conti?»
«Posso informarmi. Perché?»
«Sappiamo che per effettuare i loro prelievi non usavano mai il bancomat, né tantomeno Internet: magari tenevano i contanti in casa.»
«Va’ avanti.»
«Diciamo che assumono un uomo di fatica, lo pagano. Lui vede il rotolo di banconote nel vaso dei biscotti, decide di tornare più tardi a fare il pieno. Una delle due sorelle lo sorprende, la situazione degenera...»
Lasciai il resto all’immaginazione.
La parvenza di un sorriso gli increspò le labbra.
«Non male, Brennan.»
Era come se gli dei stessero cospirando contro di me. O, per lo meno, uno di loro doveva avere parecchia ruggine nei miei confronti.
Arrivando di sopra, trovai la Duclos mentre sfogliava pigramente il manuale di osteologia nel mio laboratorio. Quel giorno i suoi capelli più biondi del biondo erano raccolti in due codini ai lati della testa. Il rossetto era color malva.
Posai il sandwich mangiato a metà.
«Dov’è la dottoressa Briel?»
«A prepararsi per l’intervista.» Forse in segno di rispetto per l’imminente apparizione del suo diretto superiore su una emittente anglofona, la ragazza si era messa a parlare inglese.
«Due parole, signorina Duclos: efficienza e autonomia.»
Sguardo totalmente inebetito.
«Non c’è qualcosa che dovrebbe fare?»
«Oh.» Risatina nervosa. «I denti sono nello stanzino. Non potevo prenderli.»
Vero. Anche se nessuno dava un soldo bucato per la raccolta di campioni dentari di Bergeron, lui insisteva a tenerli sotto chiave. Solo Joe e io avevamo il privilegio di accedere al tesoro. E il permesso di prelevarlo, qualora un suo studente ne avesse avuto bisogno.
Frugai nella borsa e andai nello stanzino a prendere la vaschetta.
La Duclos mi guardò in attesa di istruzioni.
«Confronti i denti da latte con quelli permanenti.» Stringata. La ragazza non era sotto la mia responsabilità: doverle fare da mentore mi rendeva irritabile.
«I molari infantili hanno corone bulbose e radici sottili, divergenti.» Parlava come se recitasse a memoria.
«Sì.» Tolsi un esempio dalla vaschetta e glielo porsi.
Puntando la corona a nord e le radici a sud, fece «arrampicare» il dente nell’aria. «Whisky il ragnetto sale la grondaia.» La filastrocca per bambini suonava strana nel suo inglese dal forte accento.
Finii quel che restava del sandwich, appallottolai il cellophane.
«Il margine inferiore dei denti davanti ha il bordo seghettato, giusto?»
Scossi la testa, chiedendomi che condimento avessero usato nel panino.
«Non sempre.» Picchiettai il dito sul testo di Bass.
«Non si disturbi. Lo cerco.»
Mi dedicai al più piccolo dei bambini del Lac Saint Jean.
Ennesimo intoppo: Joe aveva fatto le radiografie delle ossa, ma non quelle dei denti. Dopo venti minuti di ricerche, lo trovai in sala caffè, fuori dall’obitorio.
Probabilmente fui troppo brusca. Che cavolo! Era tardi e non avevo ancora combinato niente.
Accettò di scattare le apicali. Gelido.
Tornai al dodicesimo piano. La Duclos e io lavorammo fianco a fianco in silenzio. Ogni tanto il mio stomaco brontolava. Una volta mi offrì una gomma. Rifiutai.
Alcuni soffrono di mal di testa, altri di allergie, altri di disturbi gastrici. A me capitano occasionalmente episodi del primo e del secondo tipo, mai del terzo. Così, i sintomi della cattiva digestione mi colgono del tutto impreparata.
Decisi che dovevo prendere qualcosa.
Tentai con la Ayers, le segretarie, la receptionist; infine, scroccai un antiacido a Morin. Insistè per descrivermi l’autopsia che aveva appena terminato. Erano le 15.10 quando finalmente tornai alle vittime del lago.
Joe non aveva ancora ritirato i denti da radiografare.
Mi sentivo in colpa per i miei modi bruschi e glieli preparai. Li disposi nelle bacinelle, suddivisi per persona. Dodici per la donna adulta, tutti dell’arcata inferiore, ventuno per il maschio adulto, taluni in frammenti mandibolari, taluni in frammenti mascellari, nessuno per il ragazzino più grande, tre, isolati, per quello più piccolo.
Ecco, avevo fatto trentuno, risparmiato a Joe dieci minuti di lavoro.
Stavo sfilando le radiografie dello scheletro dalla loro busta, quando mi suonò il cellulare. Prefisso di Chicago. Risposi.
«Tempe, sono Chris Corcoran.»
«Ehi.» Ormai il sandwich cominciava davvero a farsi sentire. Cercai di reprimere un rutto: venne fuori come il verso di un porcellino d’India.
«Tutto okay?»
«Mmm.»
«Sembri strana.»
«Sto bene.» Sentendo una fitta, mi premetti una mano sulla pancia.
«Buone notizie. La polizia pensa di avere una pista nel caso Tot.»
«Oh?» Mi sentii in colpa per non essermi più interessata. Era una settimana che avevo intenzione di chiamare.
«Un detenuto di Stateville sta cercando di trattare per ottenere il trasferimento a Pontiac.» Si riferiva a due dei più grossi istituti penitenziari dell’Illinois.
«Che ha Pontiac di così allettante?» Brusca.
«Ma sei sicura di sentirti bene?»
«Scusa. Sono un po’ stanca.» Deglutii. «Va’ avanti.»
«Secondo questo tizio, il suo compagno di cella si vanta di avere accoltellato un ragazzo insieme a un complice e gettato il corpo in una cava.»
«Quando?»
Dalla finestra vidi la Briel che marciava a tutto vapore lungo il corridoio ed entrava nel suo ufficio. La Duclos scattò in piedi e si precipitò fuori.
«L’uomo non vuole fare domande per paura di destare sospetti. Per ora si è limitato ad ascoltare, ma ha accettato di nascondersi addosso un microfono.»
«Per che cosa è dentro il compagno di cella?»
«Rapina a mano armata.»
Squillò il telefono sulla mia scrivania.
«Devo andare, Chris. Tienimi informata.»
Chiusi una chiamata, risposi all’altra.
«Brennan.»
«Ci hai preso. Il ragazzo che tagliava il prato e spalava la neve per le Villejoin dice che pagavano sempre in contanti. Dice che tenevano i soldi nella dispensa.»
«Molti soldi?» Avvertii un’improvvisa vampata di calore e mi portai la mano alla guancia.
«Il ragazzo non lo sapeva.»
«Quanti anni ha?» Spostai la mano: la mia fronte era umida.
«Quindici.»
«Dunque ne aveva, quanti... dodici, all’epoca dell’omicidio? Troppo giovane, probabilmente.»
«E per di più è alto come un suricate Di quelli piccoli. Non poteva avere la forza necessaria.»
«Né il mezzo per arrivare a un bancomat nella zona est di Montréal, o a Oka» concordai. «Piuttosto, c’è stata qualche squadra di traslocatori o imbianchini nel quartiere in quella settimana?»
«Su quel versante niente novità per ora, ma sto verificando con le agenzie interinali. Il padre del ragazzo ha detto che, nel vicinato, prendono per lo più la persona che, occasionalmente, si presenta porta a porta in cerca di lavoretti. Sto andando ora a portare la foto di O’Keefe a Pointe Calumet. Vuoi aggregarti?»
Il mio stomaco produsse un rumore impossibile da descrivere.
«Ti senti bene?» domandai a Ryan.
«Benissimo. Che sandwich hai preso alla macchinetta?»
«Formaggio.»
«Io salto il turno. Fammi sapere se hai fortuna con la foto.»
Mi buttai in bocca un altro antiacido e piazzai le prime radiografie sul visore, senza sapere bene nemmeno io cosa sperassi di trovare. Le cartelle antemortem dei Gouvrard non riportavano alcuna affezione o lesione in grado di alterare lo scheletro o, per lo meno, le ossa di cui disponevo.
Avevo esaminato la metà delle lastre, quando il mio stomaco si fece sentire di nuovo. Altro che fitta, quello era un crampo in piena regola.
Il mio sguardo andò a posarsi sulle bacinelle che avevo preparato per Joe.
Guardai l’orologio: le 16.35. Se n’era andato senza fare le radiografie
«Joe» chiamai, girato l’angolo.
Eccheccacchio.
«Joe!» latrai.
Il cucuzzolo mi partì all’indietro e lo stomaco mi balzò in gola.
Guardai i denti, le ossa, le radiografie inutili.
Quella gente era morta da decenni. Poteva aspettare un altro giorno.
Spensi il visore, chiusi a chiave e mi diressi verso l’uscita.
Quando riuscii ad arrivare a casa, la crudele insalata di prosciutto risaliva con il passo dell’oca il mio esofago, sbraitando minacce di morte e distruzione.
Entrai in cucina solo per riempire il piattino di Birdie, quindi mi spogliai, infilai una camicia da notte e crollai nel letto. Pochi minuti dopo stavo correndo a balzi verso il bagno.
I conati continuarono ben oltre lo svuotamento dello stomaco. Quando cessarono, la mia bocca sapeva di bile, i muscoli intercostali e addominali erano indolenziti per lo sforzo.
Mi sentii meglio.
Ma non per molto.
I microbi assunsero il comando e mi fecero funzionare a cicli di venti minuti. Scarica, riprenditi, nausea, scarica.
Alle dieci ero ormai prosciugata. Letteralmente. E scossa dai tremiti. I miei termoregolatori si erano arresi da tempo, lasciando l’organismo a decidere da solo se sudare o rabbrividire. A volte faceva le due cose insieme.
Stavo strisciando sotto le coperte dopo l’ultimo tête-à-tête con la tazza, quando mi cadde l’occhio sulla sveglia accanto al letto. Le 23.25.
Il mio cervello pulsante riuscì a produrre un ricordo dal richiamo irresistibile.
La Briel.
Ghermii il telecomando, accesi il televisore e trovai il canale.
L’intervista era inserita in un programma di approfondimento, uno di quei lunghi servizi in cui si presenta una professione inusuale. L’intervistatore aveva una giacca di tweed e sembrava appena uscito dal liceo. Forse lo era.
Giacca di tweed presentò la Briel come Nostra Signora dell’indagine scientifica e forse disse proprio così: stavo talmente male che, a ripensarci adesso, non saprei.
Lei indossava una camicetta di cotone bianco e pantaloni neri che lasciavano vedere troppa caviglia. I capelli erano raccolti e legati con un nastro, le rughette sulla fronte saldamente al loro posto.
Se il sandwich non mi avesse già steso, ci avrebbe pensato l’esibizionismo della mia collega. Con Giacca di tweed che le serviva domande all’acqua di rose, parlò della sua breve ma sfolgorante carriera.
Un’esumazione in Francia, un misterioso caso di avvelenamento, la sfuggente causa della morte di Marilyn Keiser. Anche se l’espressione del volto restava neutra, il tono era di compiaciuta soddisfazione.
Con mio orrore, verso il finale, la discussione approdò a Christelle Villejoin e alle falangi mancanti.
«Conosce la dottoressa Temperance Brennan?» domandò Giacca di tweed.
«Siamo colleghe.»
«La sua formazione è in antropologia, esatto?»
«Come la mia.»
Mi tirai su di scatto.
«Un corso accelerato! Hai fatto un fottutissimo corso accelerato!»
«Non è lei, in genere, la responsabile delle esumazioni richieste dal coroner?»
«Sì.» Giusto una leggerissima esitazione, le sopracciglia che scendono. Studiatamente? «La dottoressa Brennan ha condotto il recupero iniziale a Oka. Le falangi sono state tralasciate.»
Benché gelata e scossa dai brividi, sentii il mio volto avvampare.
Era davvero così? Non avevo visto le falangi? Evidentemente sì, ma come?
Il mio cervello nauseato racimolò un’immagine della tenda, della fossa, delle ossa chiazzate.
«... formazione specialistica in antropologia forense. Ciò che occorre in situazioni simili è un approccio d’équipe, l’impiego di esperti in metodologie di scavo, tafonomia e decomposizione, anatomia dei tessuti molli e della struttura ossea, patologia.»
«Esistono team del genere in Quebéc?»
«Uno: un’azienda privata di nome Body Find. Corps découvert. Io sono...»
Le mie budella avvelenate arrivarono al termine del ciclo.
Traballando sulle gambe malferme, arrivai in bagno.
Quando i conati cessarono, tornai a letto barcollando.
Scossa da un tremito incontrollabile, spensi la TV e la luce, e mi tirai le coperte fino al naso.