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Sollevando le dita, lasciai rotolare il cranio nella posizione originaria.
Il nome della cagna era Étoile: stella. Davvero appropriato.
La sepoltura era nascosta sotto sessanta centimetri di neve, ma lei l’aveva trovata ugualmente.
Ryan mi venne a prendere prima dell’alba, quel sabato. Il termometro fuori dalla finestra segnava -6.
Lungo il tragitto restammo quasi sempre in silenzio. Il volo dall’O’Hare era atterrato in ritardo, la sera prima, e solo a mezzanotte avevo varcato la soglia del mio appartamento nel Centre-Ville. Alle due ero riuscita a chiudere gli occhi. Ora viaggiavo mezza addormentata, sorseggiando il caffè fornito dal mio accompagnatore e guardando scorrere la città fuori dal finestrino.
Quell’apatia non era dovuta esclusivamente alla stanchezza: ero ancora depressa per i recenti avvenimenti di Chicago.
Schechter era ancora introvabile, con la scusa che stava raccogliendo deposizioni a Rock Island. Risultato: brancolavo ancora nel buio circa l’indentità della vipera che aveva macchiato la mia reputazione con false accuse.
La comunicazione della sorte di Lassie ai famigliari era stata penosa come previsto. Cukura Kundze non aveva smesso di piangere per tutto il tempo, quasi si fosse trattato del suo vero nipote. L’unico lato positivo era che il signor Tot aveva insistito per informare personalmente il figlio e la nuora dell’accaduto.
Come se ciò non bastasse, appena arrivata a Montréal, avevo avuto un vivace scambio di vedute con il mio nuovo vicino, Sparky Monteil. Già, Sparky. Benché abbia la conformazione di una pera, il tizio si dà un gran da fare per sembrare un duro: capelli alla Elvis, tatuaggi da gran bastardo sul collo. Secondo Winston - il custode - quello stronzetto deve avere almeno cinquantacinque anni.
Sparky si era trasferito nel complesso più o meno la primavera precedente e, prima ancora di aver disfatto i bagagli, aveva già cominciato a reclamare. Detesta i gatti. No, così non rendo l’idea. Vorrebbe che ogni felino del Pianeta fosse preso, chiuso in un sacco e gettato in mare.
D’accordo, il condominio non ha una politica esplicita in materia di animali da compagnia, ma visto che Birdie e io siamo a Charlotte per buona parte dell’anno, e che il piccoletto non mette mai il naso fuori dall’appartamento, mi era stata concessa un’autorizzazione particolare. Sparky stava facendo di tutto perché venisse revocata.
Quel mattino era uscito dall’ascensore proprio mentre aspettavo Ryan nell’atrio. L’ennesima lamentela riguardava cacche di gatto trovate nel cortile.
Spiacente, amico. Birdie non c’entra niente questa volta.
Oltre a tutto ciò, stavo di nuovo congelando.
Il riscaldamento nella jeep di Ryan non era esattamente all’ultimo grido. I finestrini erano brinati e sentivo il freddo che mi penetrava negli stivali, mi saliva lungo le gambe, mi attanagliava il bacino. Sospettai che l’unico calore, in tutta la giornata, sarebbe stato quello della tazza tra le mie mani guantate.
La nostra destinazione si trovava circa cinquanta chilometri a nord-ovest di Montréal, a Oka. Quando sento nominare quella città, penso a tre cose: mohawk, monaci e formaggio.
Le ultime due sono strettamente correlate.
Nel 1815, un gruppo di frati si stabilì in Bretagna e cominciò a produrre un formaggio chiamato Port Salut. Sei decenni più tardi, la loro creazione furoreggiava in tutta Parigi.
Ciò nonostante, nel 1880, l’esercito della Terza Repubblica francese prese l’abbazia di Bellefontaine, appartenente all’ordine, e i monaci formaggiai vennero cacciati dal Paese.
Su invito dei sulpiciani del Quebéc, otto esuli fecero vela per il Canada. I fratelli ospiti assegnarono ai fratelli immigrati della terra sottratta ai loro vasti possedimenti, sulla sponda nord del Lac des Deux Montagnes. Ribattezzando la proprietà La Trappe - da Soligny-la-Trappe, sede della fondazione dell’ordine nel 1662 - i nuovi arrivati vi stabilirono l’abbazia di Notre Dame du Lac.
All’apice della prosperità, il monastero vantava più di duecento monaci. Al principio del Ventunesimo secolo ne restano ormai solo ventotto, in gran parte sopra i settantanni. Oggi, l’abbazia non è più un opificio artigianale, ma funge da centro nonprofit per la conservazione del patrimonio locale.
All’epoca della traversata, i trappisti avevano portato con sé, attraverso l’Atlantico, la preziosa recette defromage e, una volta insediati sul nuovo territorio, ripresero a lavorare il latte vaccino. Come già nella madrepatria, il prodotto fu uno strepitoso successo.
A quanto mi risulta, i frati sovrintendono ancora alla produzione dell’Oka Trappist Cheese, che, col tempo, nel Nuovo Mondo, ha acquisito un carattere tutto suo.
La faccenda dei mohawk è un po’ più complicata.
Nell’estate nel 1990, la «Crisi di Oka» fece notizia anche sulla stampa internazionale. Il conflitto - essenzialmente una disputa territoriale tra la città e la comunità mohawk di Kanesatake - durò dalla metà di luglio alla fine di settembre, comportando infiniti disagi per i pendolari, un fiasco nelle relazioni pubbliche per il governo e la morte di un agente della Sûreté du Quebéc.
Ecco, in breve, come si svolsero i fatti.
La municipalità di Oka voleva espandere un campo da golf in un’area che comprendeva un terreno di sepoltura mohawk e una pineta sacra ai nativi. Questi gridarono al sacrilegio. Il loro ricorso, tuttavia, fu respinto e i lavori ebbero inizio. Membri della tribù, inferociti, bloccarono l’accesso al territorio in questione.
Niente di clamoroso: i poliziotti disperdono i contestatori ed è finita lì, giusto? Sbagliato.
Quando la SQ vietò l’ingresso a Oka e a Kanesatake, gruppi delle Prime Nazioni cominciarono ad arrivare da tutto il Canada e dagli Stati Uniti. Per solidarietà con Kanesatake, i mohawk di Kahnawake occuparono un ponte che collegava l’isola di Montréal con le periferie dalla riva meridionale, nel punto in cui attraversava il loro territorio.
Al culmine dello scontro, il Mercier Bridge e le strade 132, 138 e 207 erano tutti bloccati. Si formavano tremendi ingorghi con conseguenti scene di ordinaria follia.
Intervenne l’esercito canadese.
Alla fine, i mohawk negoziarono la conclusione della protesta con l’ufficiale responsabile di monitorare la sponda sud del fiume San Lorenzo a ovest di Montréal. Il tenente colonnello si chiamava Gagnon.
La vita ha le sue ironie. I primi monaci formaggiai avevano occupato la casa di un mugnaio in attesa che la costruzione del monastero fosse completata. Il nome del mugnaio era Gagnon.
Un altro elemento indissolubilmente legato alla zona di Oka è l’omonimo Parc National, una delle molte riserve faunistiche e località turistiche del Quebéc. Da maggio a settembre, i suoi ventiquattro chilometri quadrati ospitano camper, picnic, escursionisti, amanti della canoa e del kayak. In inverno, qualche anima audace continua a sentire il bisogno di campeggiare al gelo, ma la maggior parte dei visitatori è costituita da racchettisti o sciatori di fondo.
Niente che mi attiri, però mi piacciono le gite estive, i percorsi in bicicletta, i bagni di sole sulla spiaggia, il birdwatching sulla passerella galleggiante nella palude della Grande Baie. È innegabile: sono una pappamolla amante del caldo.
Mentre Ryan si dirigeva a nord dell’Autoroute des Laurentides e poi a ovest, sulla 640, guardai i palazzi ammassati del centrocittà cedere il posto a case di periferia identiche ed equidistanti, quindi a una campagna coperta di neve.
Sbaffi di giallo chiazzavano l’orizzonte, poi il cielo virò lentamente dal nero al grigio.
Quarantacinque minuti dopo aver lasciato il mio appartamento, Ryan svoltava sul Chemin d’Oka. Il sole era ormai un basso disco bianco. Alberi spogli proiettavano lunghe ombre sfilacciate sui campi e sull’asfalto.
Pochi istanti più tardi oltrepassammo l’ingresso principale del parco. Appena superato il cancello, una piccola costruzione in pietra annunciava il Poste d’accueil, il centro di accoglienza del camping. Un cartello romboidale giallo raffigurava una tartaruga, una lucertola, una rana e un serpente dalla nera silhouette.
Venti metri oltre l’entrata, un’auto della SQ era parcheggiata con il motore acceso dall’altra parte della strada, il fumo che usciva a sbuffi dal tubo di scappamento.
Ryan compì un’inversione a U e si fermò. L’occupante della vettura posò un bicchiere di plastica sul cruscotto, infilò dei guanti e si issò fuori dal veicolo. Portava un giaccone verde oliva con collo nero di pelliccia, una sciarpa dello stesso colore e un cappello con le alette laterali legate sopra la testa. La targhetta con il nome sul suo petto diceva «Halton».
Ryan abbassò il finestrino, mostrò il distintivo. Halton lo guardò di sfuggita, poi si chinò a osservare me.
Esibii la mia tessera dell’LSJML.
Quello sventolò una mano in direzione dei boschi, poi parlò in francese. «Prendete la strada di servizio che costeggia il margine del parco. Il party è in riva al fiume.»
«Che fiume?» domandai.
«La Rivière aux Serpents.» Fece un ampio sorriso. «I bastardelli dovrebbero essere in letargo in questo periodo dell’anno.»
Ryan invertì il senso di marcia e ripartì, la ghiaia gelata che scricchiolava sotto i pneumatici. Dietro di noi, dall’altra parte dell’autostrada, il Calvaire d’Oka dominava il paesaggio. Una volta mi ero fatta a piedi il sentiero fino in cima, una sorta di Via Crucis tra i boschi: la stradina si inerpica per cinque chilometri, fino a raggiungere un gruppo di cappelle della metà del Settecento. La vista era pazzesca. E così pure la vite americana: mi era rimasto il prurito per settimane.
«C’è il pericolo attraversamento rettili?» L’umorismo fiacco del detective denotava nervosismo.
«E anfibi» dissi. Mi guardò.
«Il cartello raffigura erpetofauna. Che comprende anche gli anfibi.» Era un tantino presto per una lezione di biologia.
«Qual è la differenza?»
«Le uova amniotiche.»
«Preferisco strapazzate.»
«I rettili possono riprodursi fuori dall’acqua.»
«Un momento fondamentale della storia. Quando avvenne?»
«Più di trecento milioni di anni fa.»
«A quest’ora dovrebbero essere esperti di traffico, no?»
Preferii non rispondere.
Percorremmo una strada stretta, orlata da monticelli di neve spazzata. Gli alberi si levavano intorno a noi come alte, nude sentinelle.
La discesa si faceva più ripida via via che ci avvicinavamo al fiume. Ben presto avvistai la spiaggia, e gli immancabili veicoli parcheggiati: una seconda autopattuglia, un furgone nero, un autocarro da recupero blu della Scientifica.
Un agente della SQ in uniforme agitò una mano verso di noi per intimarci l’alt. Il suo badge riportava il nome «Naveau».
Ci identificammo. L’uomo disse a Ryan di parcheggiare sul retro di un rustico in legno, probabilmente un punto di ristoro per gli sciatori di fondo.
Il detective eseguì, poi ci infilammo entrambi il berretto e scendemmo dalla jeep. Il sole era più alto, ormai, e proiettava le ombre frastagliate di alberi, tronchi e rami. L’aria era così fredda che pareva fatta di cristalli.
Buone notizie. Una tenda di plastica era stata montata nel punto segnalato dal cane poliziotto. Neve spalata di fresco giaceva ammonticchiata da un lato.
Ricordavo quel genere di allestimento da un’esumazione effettuata anni prima in una riserva innu, vicino alla città di Sept-Iles. In quell’occasione la temperatura aveva raggiunto -34°C. Sapevo che, dentro, uno scaldatore portatile pompava aria attraverso un tubo flessibile, diffondendo calore all’interno e sciogliendo il terreno ghiacciato.
Accanto alla tenda c’erano quattro uomini. Due indossavano tute integrali e giacconi con lo stesso logo dell’autocarro. Service de l’identité judiciaire. Division des scènes de crime.
Un terzo portava un parka nero Kanuk non molto diverso dal mio. Con la giacca a vento superimbottita, Joe Bonnet, il mio nuovo tecnico di laboratorio, pareva un marshmallow infilzato su un bastoncino. Grazie a Dio la testa era coperta da un berretto di lana: lui credeva che i capelli platino sparati in alto fossero molto punk, a me parevano piuttosto da sfigato, specie su un tizio che stava dicendo bye bye agli «enta».
Ma mi guardavo bene dal farglielo notare: benché decisamente competente nel suo lavoro, Joe aveva una personalità fragile, bisognosa di conferme. Non bastava evitare le critiche, occorreva costantemente lodare e rassicurare. Io sono piuttosto scarsa in questo genere di cose; la gente per lo più lo sa e lo accetta. Lui proprio non ci arrivava.
Inutile dire che c’erano state scenate e bronci. Suoi, non miei. E anche nei periodi di cessate-il-fuoco, Bonnet e io restavamo due animali estranei in convivenza forzata, due cani mollati a casa della nonna durante le vacanze. Sempre all’erta, sempre a fiutare l’umore uno dell’altra.
In parte era colpa mia: due anni e non avevo ancora elaborato il lutto per la perdita del mio assistente storico, Denis. E comunque, che diavolo era andato in pensione a fare?
Il quarto uomo portava un cappotto che si allacciava a stento sul davanti. Jean-Claude Hubert, coroner capo della provincia del Quebéc.
Venne verso di noi, dondolando, il volto paonazzo e screpolato.
«Detective Ryan. Dottoressa Brennan.» Il suo accento Io collocava a monte del fiume, forse a Quebéc città.
«Grazie per essere venuti a quest’ora del mattino.»
«Come si sono svolti i fatti?» A grandi linee li conoscevo già, ma volevo la versione di Hubert.
«Un canarino in gabbia ha cantato di una donna scomparsa due anni fa.»
«Florian Grellier» disse Ryan.
Hubert annuì. Tre menti s’incresparono sopra la sua sciarpa. «La vittima era Christelle Villejoin. Grellier dice che è stata uccisa e sepolta qui.»
«Uccisa da chi?» domandò Ryan.
«Sostiene di non saperlo.»
«E come ha avuto questa informazione, monsieur Grellier?»
«Dice di avere incontrato non so che tizio in un bar. Giura di non averne mai afferrato il nome. Non l’ha più visto dopo la bevuta di quella sera.»
«Quando?» chiese Ryan.
«L’estate scorsa. Grellier è un po’ vago su questo.»
«L’avete portato qui?»
«No, ma ha fornito riferimenti validi: la strada, la casetta in legno, il fiume. Abbiamo sguinzagliato un cane, che ha allertato.» Hubert accennò in direzione della tenda con un pollice guantato. «Secondo l’addestratore c’è un novanta per cento di possibilità che qualcuno sia davvero sparito là sotto.»
«Mappatura piuttosto dettagliata» osservai, «per essere il ricordo di un ubriaco.»
«Già.» Il coroner soffiò fuori l’aria attraverso le labbra, che avevano un disperato bisogno di burrocacao.
«Che avete fatto finora?»
«Recintato l’area, scattato le fotografie, spalato la neve, montato la tenda. Il riscaldamento è in funzione da ieri, perciò il suolo dovrebbe essersi scongelato.»
«Bon» dissi. «Procediamo.»
Hubert aveva ragione. Il terreno era abbastanza morbido da consentirci di scavare. E un’altra cosa giocava a nostro favore: la natura umana. Pigro o nervoso, l’artefice del crimine aveva sepolto la vittima a soli quarantacinque centimetri di profondità.
All’una, Bonnet e io avevamo già esposto l’intero scheletro: lasciammo gran parte delle ossa in situ e chiudemmo in bustine ermetiche trasparenti le parti trovate setacciando la terra. Io avevo fatto un inventario, elencando dettagliatamente tutti gli elementi tranne le falangi. Quelle, mi ero limitata a contarle.
Un cranio con le sue ventuno ossa più le sei dell’orecchio interno. Una mandibola, uno ioide, uno sterno, due clavicole, due scapole, ventiquattro coste, ventiquattro vertebre, un sacro, un coccige, sei ossa degli arti superiori, sei di quelli inferiori, due ossa innominate, due rotule, sedici ossa carpali, dieci metacarpali, quattordici tarsali, dieci metatarsali. E cinquantasei falangi.
Duecentosei ossa. Diamine, eravamo bravi.
Risultò che il riscaldamento contemplava solo due modalità: spento e Tropico del Cancro. Benché avessimo aperto un lembo della tenda, la temperatura all’interno era salita a circa 32°C. Bonnet e io ci eravamo tolti uno strato dopo l’altro, finendo a lavorare in jeans e maglietta.
Nel corso dell’esumazione, Ryan e Hubert avevano continuato ad andare avanti e indietro. Ora, mentre prendevo appunti e Joe scattava fotografie, si affacciarono sull’orlo della buca. I loro volti erano arrossati, l’attaccatura dei capelli madida di sudore.
La vittima giaceva adagiata su un fianco, indossava reggiseno e mutandine, con braccia e gambe piegate verso destra. Una frattura serpeggiava lungo la parte posteriore del cranio.
«Eh, misère.» Hubert aveva pronunciato l’imprecazione almeno venti volte.
«Considerazioni sulla posizione del corpo?» mi chiese Ryan.
«Solo preliminari.»
Annuì.
«Sono incline a supporre che la donna sia stata colpita da dietro. Poi è caduta o è stata spinta nella fossa.»
«Colpita da che?» Teso.
«A giudicare dalla forma della depressione, direi qualcosa di piatto, con un rilievo centrale.»
«Colpita?» Hubert aveva colto il mio uso del femminile.
«Sì.»
«Per la biancheria?»
«Per le caratteristiche craniali e pelviche.»
«Gli altri indumenti si saranno disgregati con la decomposizione?»
«Ne dubito. Certo, l’intimo è di poliestere e le fibre sintetiche durano più di quelle naturali, come cotone e lino, ma avrei trovato zip, bottoni, ganci, qualcosa. Credo non indossasse altro.»
«E niente scarpe, né calze» osservò Ryan.
«No» confermai.
«Età?» domandò Hubert.
Mi accovacciai, sollevai il cranio.
Erano presenti solo otto denti ingialliti, le cuspidi appiattite dall’uso. Le cavità alveolari erano levigate da rimodellamento osseo.
Le suture craniche erano saldate. Articolazioni temporomandibolari e condili occipitali erano nodosi per l’artrosi.
«Anziana» dissi, evitando che la mia voce comunicasse di più.
«Deve essere la Villejoin. Quante nonnine spariscono da queste parti?»
Immaginai la scena. Una vecchia terrorizzata, costretta a spogliarsi e ad affrontare la morte sull’orlo della sua tomba.
Aveva implorato pietà? E, rendendosi conto che non ve ne sarebbe stata, aveva chiuso gli occhi? Ascoltato il vento tra gli alberi? Il canto degli uccelli? Aveva udito il sibilo dell’arma che le calava sulla testa?
All’improvviso, dovevo uscire da quella tenda.