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Buttai giù una Red Bull nella saletta delle pause, mentre aspettavo che il caffè fosse pronto. Pensai a qualche argomento efficace da usare con Justine. Per esempio il motivo per cui mi avrebbe dovuto perdonare il mio incontro d’addio non premeditato con Colleen.
Sono umano. Mi dispiace. Non potrebbe spiacermi di più.
Perché non avrebbe dovuto perdonarmi?
Andai in ufficio e avviai il computer portatile. Aprii i file nella cartella COLLEEN e rivisitai i fatti che lei non mi aveva raccontato.
Fatto: appena uscita dal liceo, Colleen aveva sposato un uomo di nome Kevin Molloy. Il matrimonio era stato annullato sei mesi dopo, ma lei aveva conservato il cognome da sposata. Nell’anno in cui io e lei ci eravamo frequentati, non aveva nominato l’ex marito neppure una volta.
E se Molloy l’avesse seguita a Los Angeles?
L’amava ancora?
Fatto: a pagare il volo di Colleen dall’Irlanda agli Stati Uniti nel 2009 era stato un uomo d’affari di nome Sean McGough, che si trovava ancora a Dublino e non aveva lasciato il proprio paese negli ultimi tre anni.
Chi era quest’uomo per Colleen?
E perché non mi aveva parlato neanche di lui?
Fatto: Mike Donahue – aveva detto Colleen – per lei era come uno zio. Come per Molloy e McGough, avevo esaminato a fondo anche la vita di Mike. Donahue aveva ottenuto la cittadinanza americana nel 2002. Era stato fermato per guida in stato di ebbrezza, due volte a Los Angeles e una volta a Seattle. In questa città manteneva un bambino di sette anni, di cui non aveva sposato la madre.
Se Donahue avesse voluto uccidere Colleen, avrebbe avuto vita facile. Lei si fidava di lui. Eppure non avevo mai avuto la sensazione che ci fosse stata una storia tra loro o che Mike fosse geloso di ciò che lei provava per me. Insomma, nulla lasciava sospettare che fosse stato per Colleen qualcosa di più del proprietario di un pub irlandese che lei frequentava quando abitava a Los Feliz.
Vicolo cieco.
Un’altra cartella. Avevo raccolto tutte le email personali che Colleen e io ci eravamo scambiati da quando ci eravamo baciati la prima volta. Per un po’ viaggiai nel tempo, perdendomi nella rilettura delle sue parole e delle mie, ricordando la storia che si sviluppava in ufficio giorno dopo giorno e tutte le volte che avevamo fatto l’amore nel suo cottage coperto di rose.
E mi ricordai di quando Donahue mi aveva chiamato per dirmi che lei era in ospedale. «Devi andarci subito.» Per vedere Colleen con le bende insanguinate ai polsi, sapere che cos’aveva fatto a se stessa dopo che le avevo detto che tra noi era finita.
Mi alzai, camminai avanti e indietro in corridoio, guardai dalla finestra verso la Figueroa. La pioggia si era spostata. Tornai alla scrivania e aprii la cartella dei video.
Li avevo visti tutti, tranne quello girato da Mo-bot mentre Tandy e Ziegler mi trascinavano fino alla loro macchina. Stavolta mi costrinsi ad aprirlo e a guardare me stesso, visto dal primo piano. Eccomi lì, strappato alla riunione della Private Worldwide, a barcollare tra i due sbirri sotto il sole abbagliante. I giornalisti urlavano domande e io procedevo a testa bassa.
Guardai ogni fotogramma e notai qualcosa che quel giorno mi era sfuggito. Rettifica. Notai qualcuno. Clay Harris.
Era un avanzo della famiglia Morgan. Quasi una maledizione della famiglia Morgan.
Non poteva essere una coincidenza.
Harris viveva a Santa Clarita, trenta chilometri fuori città, eppure eccolo lì, in piedi dietro la folla di giornalisti, in un punto da cui poteva vedermi bene.
Che cosa ci faceva davanti alla Private proprio nel momento in cui venivo arrestato per l’assassinio di Colleen? Sorrideva. E credevo di sapere perché.