29. Victoria

Al bancone mi accoglie una ragazza bionda. “La ragazza bionda”. Quella con cui Nath si è intrattenuto più di una volta. Quella che sembrava guardarlo con gli occhi di una che voleva mangiarselo. La stessa che lui ha lasciato alla fiera per venire a baciarmi.

Quest’ultimo pensiero dovrebbe rincuorarmi, invece non posso fare a meno di provare una fitta di gelosia. Donne! Sempre maledettamente insicure. Soprattutto quando sono innamorate. Non faccio di certo eccezione.

«Cosa mi consigli?», chiedo alla ragazza, tanto per attaccare bottone.

La biondina passa uno straccio sul bancone e dice: «Il cottage pie è la nostra specialità».

«È a base di carne, vero?».

La ragazza annuisce, poi inclina il capo da un lato e fa un mezzo sorriso. «Nath ti ha contagiato con la sua mania vegan?»

«Non è esattamente una mania», dico, poi la guardo un po’ incuriosita. «Aspetta… come fai a sapere che…».

«Che conosci Nath? Sei la scrittrice, non è così?».

Annuisco. È proprio vero: in un paese piccolo come questo è impossibile rimanere anonimi. «Sembra che sappiano tutti cosa faccio».

«Pretty Creek è un piccolo centro. Quando succede qualcosa di eccitante lo vengono a sapere tutti, in un modo o nell’altro».

«Non sapevo di essere “qualcosa di eccitante”». Devo farmelo stampare su una maglietta. Sono qualcosa di eccitante.

«Quindi niente cottage pie».

«Portami un succo d’arancia per ora». Non le dico che mi sembrerebbe di tradirlo se mangiassi della carne, ma lei sembra capirlo lo stesso.

«Io sono Katherine».

Allungo la mano sul bancone e stringo quella della ragazza. È fredda, umida e screpolata. Deve lavorare davvero duro.

«Conosci Nath da molto?», mi arrischio a chiederle e per un attimo mi pento della domanda. Se mi dicesse che hanno avuto una lunga relazione o che lei era la sua ragazza al liceo, oppure che…

«Fin da ragazzi».

Ecco.

«Siamo solo amici, tranquilla».

«Io non… non che la cosa mi riguardi». La voce viene fuori con un tono che sa di colpevolezza. Mi riguarda eccome.

«Sei arrossita come una dodicenne davanti a Justin Bieber».

Non posso fare a meno di sorridere e dichiararmi colpevole: «Beccata!». D’altra parte, perché dovrei mentire?

«Ti capisco. Nath fa questo effetto».

«Davvero? È incredibile, appena l’ho conosciuto ho pensato che fosse un arrogante, borioso, con poca pazienza e con la tendenza alla stronzaggine. Uno da evitare come la peste, insomma».

«E poi hai capito che è tutto il contrario».

«No, è esattamente arrogante, borioso, con poca pazienza e con la tendenza alla stronzaggine». Appoggio il viso su una mano e sospiro.

Katherine solleva un angolo della bocca e mi riempie un boccale di birra. «Credo che tu abbia bisogno di questa. Non dirmi che non bevi».

«Non d’abitudine. Io, con tutta quella birra, spicco il volo, ma per una volta, posso concedermi un piccolo viaggio». Sollevo il boccale. «Agli uomini stronzi!».

«Agli uomini stronzi!», ripete Katherine. «A Nath! Che ci ha fatto innamorare di lui».

Butto giù un lungo sorso di birra. È fresca, ha un gusto un po’ amaro, ma è buona. Una buona birra, davvero. Non ne bevevo da quanto? Dall’università forse. Dio, faccio schifo come essere umano. Non so più come ci si diverte.

Katherine si allontana per servire a un tavolo, poco dopo mi accorgo di non essere più sola al bancone. Mi giro per capire di chi è lo sguardo che mi sento addosso e incrocio gli occhi arrossati di Bob Sullivan. D’istinto mi sposto. Lui sorride, rivelando i denti ingialliti che trattengono uno stuzzicadenti mangiucchiato.

Tira su col naso, più volte. È strafatto. Si vede lontano un miglio.

«Come va, dolcezza? Posso offrirti qualcosa?», mi chiede il viscido.

«Sto bene così, grazie».

«Avanti, tesoro, non fare la difficile». Allunga una mano. Le nocche ruvide mi sfiorano una guancia. Lo respingo. Lui sghignazza. «Le apri solo con lui, vero? Le gambe».

«Sei disgustoso». Puzza da morire, di erba, di terra bagnata, di sudore e sporco. Ho il voltastomaco e lo stenderei con un pugno se ne avessi la forza.

«Quanto mi ti farei». Si avvicina ancora di più. Il suo ginocchio sfiora la mia gamba. Si accarezza la patta dei pantaloni e mi viene voglia di scappare. Ho il cuore in gola e d’improvviso la birra mi sembra più utile di quanto non pensassi, o meglio, il boccale che la contiene. È di vetro molto spesso. Dato in testa a qualcuno dovrebbe provocare seri danni.

Il viscido tira fuori la lingua e la muove su e giù. La sua mano si appoggia su un mio ginocchio. Con un gesto violento la scosto. Lo sgabello su cui sono seduta traballa e perdo l’equilibrio. È lo stesso Bob ad afferrarmi per non farmi cadere, ma ne approfitta per avvicinarmi a lui e con una mano sfiorarmi il seno. Lo respingo un’altra volta, pronta a colpirlo e a darmela a gambe se necessario, oppure a urlare. Ma non ho il tempo di fare nulla.

Due secondi dopo vedo la sua testa cozzare con forza contro il bancone del locale. Sollevo lo sguardo e incontro quello furioso di Nath. Quando è entrato? Ero così occupata a scansare Bob Sullivan che non l’ho visto arrivare.

«Te l’ho detto già una volta e te lo ripeto: le devi stare lontano!». Nath ha afferrato Bob per il bavero della giacca e lo ha quasi sollevato da terra. Il naso dell’uomo gocciola sangue sul pavimento del locale. Tutti intorno a noi sono ammutoliti, nessuno osa muoversi.

Lo sguardo di Nath incontra il mio, ha la mascella serrata. Bob ghigna di nuovo, nonostante la sua faccia non stia per niente bene in questo momento.

«Stai meglio, Nath?», commenta l’uomo. «Ho sentito in giro che qualcuno ti ha conciato per le feste».

Nath sorride. Un sorriso che mi spaventa, mi mette a disagio. Sembra pronto a uccidere Bob. Ho paura che lo faccia davvero.

«Potresti subire lo stesso trattamento», lo minaccia. «Senza pistole, mazze da baseball e compari non dovrei avere difficoltà a ridurti a un colabrodo, bastardo».

Bob strabuzza gli occhi, ma lo fa con enfasi, come se stesse prendendo in giro Nath. «Non so di cosa parli, Owens».

«Lo sai benissimo». Nath lo spinge contro il bancone. La schiena dell’uomo si piega contro il bordo. «Sei stato tu, vero? E hai anche dato fuoco alla mia casa… Ai miei… Ai miei animali». Spinge ancora di più Bob contro il bancone. Lo sento gemere di dolore. Qualcuno dal fondo del locale dice: «Lascia perdere, Owens, non ne vale la pena», ma Nath sembra pensarla diversamente. I suoi occhi dicono che non vede l’ora di spaccare la faccia a questo bastardo, e non posso che essere d’accordo.

La voce tonante di una donna spezza la tensione. «Fuori! Fuori dal mio locale!». Un’anziana minuta, che si asciuga con forza le mani sul grembiule, raggiunge Nath e Bob e tenta di spingerli via. Nath non si fa pregare e trascina Sullivan oltre la porta d’ingresso, sul marciapiede e infine in mezzo alla strada. Corro da loro, Katherine mi segue, così alcuni dei presenti nel locale. Altri rimangono a guardare da dietro le vetrate.

Nath non perde tempo e spinge Bob contro un palo della luce. L’uomo geme e tenta di liberarsi dopo essersi ripreso dallo stordimento, ma Nath non glielo permette e lo colpisce con un pugno dritto sul naso, così forte da mandarlo a terra. Lo solleva e lo colpisce di nuovo e ancora. Ancora. Ancora. Bob Sullivan casca di nuovo a terra. Si tira su a fatica, in ginocchio, la testa ciondolante. «Figlio di puttana», esce dalla sua bocca insanguinata.

Nath si avvicina. Penso che voglia infierire. La sua espressione promette solo vendetta. Ma si passa le mani fra i capelli, si stropiccia la faccia e con un grido rabbioso dà un calcio al palo della luce.

Ha il respiro affannoso. È stanco. Bob si solleva in piedi, pulisce il sangue da naso e labbra con la manica della giacca.

«Ti beccheranno, Bob. Alla fine verrà fuori che sei stato tu», gli dice Nath.

«Puoi andare a farti fottere, Owens».

«Non quanto fotteranno te in galera, bastardo».

Bob si allontana barcollando. Botte e droga non sono un buon connubio. Raggiungo Nath, in piedi vicino al palo della luce. Non gli chiedo niente, lo abbraccio e basta, d’istinto, senza preoccuparmi di quello che penserà la gente.

Lui resta fermo per un po’, poi mi accoglie fra le sue braccia, stringendomi forte.

Penso che finalmente tutto andrà a posto. Sistemeremo ogni cosa. Insieme. L’attimo dopo, quando lui si è allontanato da me e mi guarda come se niente potesse mai più riaggiustarsi, penso che sono facile alle illusioni. Mi è bastato un abbraccio per crederci.