5. Nath

Quando arriviamo alla fattoria, è ormai sera. Il cielo si è dipinto di riflessi aranciati e l’aria è molto più fresca. A novembre, le temperature nel Vermont si abbassano di parecchio. Sento nell’aria quasi l’odore del ghiaccio. Può darsi che presto arrivi la neve.

Victoria Stevenson si stringe nella mantellina grigia che indossa mentre saliamo i gradini del porticato. Davvero poca cosa contro il freddo.

Non so dire se me la immaginassi così, la ragazza. Ha uno sguardo curioso, fin troppo. Occhi chiari, capelli scuri, lunghi, scomodi. Il naso pieno di lentiggini. Manie ossessivo-compulsive. È nervosa e si veste in maniera poco adeguata al clima. Mondana fino al midollo.

A dirla tutta sì, me la immaginavo proprio così.

Se ne sta zitta zitta e rabbrividisce.

«Vivi da solo in mezzo a un bosco?», mi chiede mentre osserva la foresta di aceri dietro casa.

«La sera sembra sempre peggio. Di giorno ti sembrerà molto più accogliente. Più in là c’è un laghetto».

La vedo guardarsi le spalle. La luce della luna si riflette sul pelo dell’acqua. Annuisce.

«L’ambientazione adatta per un thriller», dice.

«Ma tu non scrivi thriller, mi pare di aver capito».

Scuote il capo. «Scrivo romanzi contemporanei».

«Roba tipo melassa che cola?». Apro la porta d’ingresso e la invito a entrare con un piccolo cenno. Mentre mi passa accanto solleva lo sguardo su di me.

«Non è roba tipo melassa che cola. È roba tipo… Ah! Ci rinuncio: non capiresti». Si avvia all’interno della casa. Richiudo la porta e la seguo.

«Devo darti ragione: non capirei».

Sento dei rumori familiari. Fra poco ci sarà da ridere.

Prima c’è il battito d’ali, poi lo starnazzare furioso, infine l’attacco. Charlie si lancia contro la nuova arrivata con la furia di un leone. Volano piume e beccate.

Victoria lancia un urletto terrorizzato e tenta di nascondersi dietro di me.

«Buono, Charlie, buono». Afferro delicatamente l’animale e gli accarezzo la testa per calmarlo. Le mie mani scivolano sulle sue piume candide. Charlie si rilassa.

Victoria si scosta da me e osserva la scena con occhi sgranati. «È… È un papero?».

Annuisco continuando ad accarezzare il piumaggio del mio amico a due zampe.

«Dio! Credevo fosse un pitbull!».

«In effetti credo che anche lui pensi di esserlo». Charlie muove la coda e cerca ancora carezze. «È aggressivo solo all’inizio con chi non conosce, ma poi… Se sai come trattarlo…». Afferro una mano di Victoria e la costringo a piegarsi. Le indico come fare per accarezzarlo. Oppone qualche secondo di resistenza.

«Se mi stacca la mano, lo faccio arrosto».

«È un papero, non un grizzly».

Victoria posa delicatamente le dita sulla piccola testa dell’animale e comincia ad accarezzarla. Charlie si irrigidisce, ma lo tengo fermo. Quando lo sento rilassato, mi allontano un po’. Dopo qualche secondo, lo vedo strusciarsi contro la mano della donna.

«Ora sei nelle sue grazie. Ti ha accettata».

Victoria fa una smorfia. «Felice che sia così». Continua ad accarezzare l’animale che, ora, si è appollaiato sui suoi piedi. «È caldo, morbido», prosegue lei. «Sto pensando di farne un giubbotto».

Mi guarda seria per un attimo, infine sorride. «Sto scherzando». Un secondo dopo tira fuori dalla borsa una boccetta di igienizzante per le mani e se le sfrega con forza.

Scuoto la testa e le mostro il resto della casa, partendo dalla cucina. Le indico un mobile a muro e dico: «Dispensa. Ci troverai dentro pane, cereali, legumi, pesche sciroppate, farina, sciroppo d’acero e… Insomma, guardaci». Le indico il frigo. Lo apro ed è un po’ meno desolato rispetto a stamattina. «Serviti quando vuoi, intesi? Non chiedermi nulla che tu non riesca a trovare da sola. Meno tempo mi fai perdere, meglio è». Mi accarezzo il mento pensieroso prima di chiederle: «Sei allergica a qualche alimento?»

«Non che io sappia».

«Bene. Qui c’è del succo d’arancia, limonata, formaggio di soia, cotolette di soia, latte di soia e di riso».

«Aspetta un secondo». Victoria si schiarisce la voce mentre richiudo il frigo. «Soia? Non hai del latte o del formaggio vero?»

«Il latte di soia è vero».

«Mi stai forse dicendo che sei vegetariano?». Le sue labbra tremano leggermente.

«Vegetariano non è esatto. Sono vegano».

«Scusa… Io…». Non riesce a trattenersi e si lascia andare a una risata.

Sollevo lo sguardo al cielo. «È evidente che tu non lo sei. Doveva capitare proprio a me l’unica tipa di città poco alternativa».

«Perdonami… È che…». Victoria tenta di ricomporsi. «Insomma, un fattore vegetariano… No, peggio, vegano, non lo avevo mai davvero sentito. Voglio dire… Ti immaginavo la mattina a buttare giù bicchieri di uova crude o davanti a distese di bacon fritto».

«Hai una fantasia iperattiva», rispondo infastidito da queste immagini.

«Come fai a… mantenere alto il livello di energia se non mangi carne?»

«Domanda stupida. La carne non è l’unica fonte di proteine. Ci sono i legumi. Inoltre faccio scorpacciate di carboidrati e bevo litri di caffè. Ti basta?». Non la lascio rispondere e le faccio cenno di seguirmi di sopra. «Chiariamo un paio di punti…».

«E finora cosa abbiamo fatto?».

A quanto pare è una che ama avere l’ultima parola. Sarà divertente, mi dico.

«Chiariamo un paio di punti», ripeto. «Non ti farò da servo anche se sei mia ospite».

«Ospite? Ti pago l’affitto di una stanza che non ho ancora visto».

Come volevasi dimostrare.

«Non pensare che io ti prepari colazione, pranzo e cena. Provvederai alle tue necessità da sola. Non ti accompagnerò in alcun posto. Se dovrai andare da qualche parte, mi chiederai di poter usare il pick-up e sarò felice di lasciartelo, a patto che in quel momento non serva a me». La prendo per le spalle e la faccio girare verso una porta su un lato del corridoio al piano di sopra. «Quello è il bagno. In comune. Il bagno per gli ospiti ha le tubature distrutte. Se apri l’acqua rischi di allagare casa. Rispetta gli orari. Io mi alzo molto presto per dare da mangiare agli animali e lavorare ai campi e nella serra. Diciamo verso le cinque del mattino, minuto più minuto meno. Che non ti venga in mente di farti trovare in bagno a quell’ora. Se ti scappa alle cinque e un minuto, trattienila fino alle cinque e trenta circa, ora in cui esco di casa. Non farmi trovare le tue cose da femmina nel mobiletto del bagno: sarebbe imbarazzante. Oh! Cosa importante. Non criticare il modo in cui lo tengo. Non ho sempre tempo di pulirlo. Se ti fa schifo la tavoletta del cesso alzata, abbassatela da sola».

La guido verso la porta accanto a quella del bagno e la apro. «Lavanderia. Anche qui, poche e semplici regole: lavo io, non lavi tu. Lavi tu, non lavo io. Non usare troppo ammorbidente: non è gratis». Richiudo con un tonfo.

La spingo verso una porta sull’altro lato del corridoio. È socchiusa, quindi la apro con una spintarella. «Questa è la tua camera da letto».

Victoria si sporge oltre l’uscio per guardarci dentro. Non ha un’espressione soddisfatta. Forse si aspettava una suite cinque stelle.

«Il lampadario non funziona, ma l’abat-jour fa abbastanza luce», le dico entrando nella stanza buia. Accendo il fungo sul comodino e lascio che si renda conto del fatto che il lampadario non serve.

«C’è un’altra presa della corrente da qualche parte? Vorrei poter collegare il mio portatile».

Mi dirigo verso la finestra e sposto il piccolo scrittoio posto lì di fronte. Sul muro, sotto il davanzale interno, le indico la presa della corrente.

«Bene», annuisce. «E per quanto riguarda la connessione internet?»

«Semplice: nessuna connessione. Non ho internet».

Mi guarda basita, come se venissi da un altro pianeta. «Scherzi, vero?». Sorride, sembra certa che io la stia prendendo in giro. «Insomma, è un po’ come dire che non hai la tv».

«Non ho la tv».

Il suo silenzio è carico di vaffanculo.

«Non so perché resto ancora qui», dice, lanciando la borsa sul letto. «Oh mio Dio!», esclama quando vede la coperta con la principessa Disney. «Che tipo di turbe psichiche hai?».

Serro la mascella e tiro un profondo respiro. «È opera di mia sorella. Era l’unica che aveva ed era convinta che potesse piacerti. Ha detto – testuali parole – “Scrive romanzi contemporanei: quelle come lei adorano queste cose. Barbara Cartland si vestiva di rosa per ogni evento mondano”. Non che io sappia chi era questa tizia».

Victoria solleva gli occhi verso il soffitto e mette le mani sui fianchi. Infine si passa una mano sulla fronte. «Sento che sta per venirmi un altro mal di testa». Si siede sul bordo del letto con espressione sconfitta.

Sto godendo come un riccio. Sto godendo proprio.

«Quindi, se ho ben capito, se resto qui, non mangerò carne, dovrò dividere il bagno con te, usare meno ammorbidente possibile, non potrò usufruire di internet per le mie ricerche…».

«Ricerche… Andiamo…».

«Il mio lavoro prevede ricerche approfondite, ma non mi illudo che tu lo comprenda».

Sollevo le spalle con aria indifferente e la lascio continuare.

«Non potrò nemmeno guardare la tv. Sono finita all’inferno».

Sospiro davanti a tanta ingiustificata tristezza. «Se questo lo consideri l’inferno, allora non ho idea di come pensi che sia il paradiso».

«Un posto dove ci siano la tv e una connessione internet».

«Quanto la fai lunga. Abbiamo una biblioteca molto fornita in paese per qualsiasi tipo di ricerca vorrai fare», le dico sbuffando. «Se questo è tutto, io andrei. Ti lascio riposare. Se hai fame, serviti pure di sotto».

Sto per lasciare la stanza quando lei si alza in piedi e mi raggiunge. «Adesso te li chiarisco io un paio di punti… Nath. Detesto questa situazione quanto te, arrogante buzzurro, ma mi sto dando una possibilità, per il bene del mio lavoro. Questo, però, non significa che starò qui a subire i tuoi attacchi verbali senza colpo ferire. Avrò pure un sacco di difetti, ma tu, mio caro represso, mi batti alla grande. Questa situazione conviene più a te che a me. Sono io che ti salvo il culo dal fallimento, quindi, a meno che tu non ti voglia trovare a dormir per boschi, ti consiglio di trattarmi con più gentilezza. Mi auguro che domani mattina, quegli unici due neuroni impazziti che ti ritrovi in testa, tornino a funzionare come si deve. Ora, se vuoi scusarmi, vorrei riposare». Mi indica la porta e aspetta che io sia uscito per chiudersela alle spalle con un tonfo.

Odio doverlo ammettere, ma mi ha lasciato senza parole, muto come un baccalà sotto sale. Mi gratto la testa confuso. Forse ho sbagliato a crederla la solita snob con la puzza sotto al naso e senza spina dorsale. Questo complica le cose. Questa è una dichiarazione di guerra in piena regola, e non sarò io a deporre le armi per primo.