19. Victoria
Di solito, il Natale passa quasi inosservato. Sembra un giorno come un altro nella tradizione della famiglia Stevenson. Questa volta, però, c’è stato un discreto pranzo in compagnia dei miei, con mia madre che si è affannata tutto il giorno preparando manicaretti, lei che, in tutta la vita, il massimo che si è concessa è stato quello di aprirmi le scatolette di tonno prima di correre in ospedale.
Ora è in pensione e può dedicarsi alla cucina, ha detto. E a sua figlia, ha aggiunto. Meglio tardi che mai, anche se, a questo punto, le scatolette di tonno riesco ad aprirmele da sola.
Non ho mai amato troppo il Natale. O le festività in genere. Forse perché a casa mia non si è mai celebrato davvero niente.
Non sono una di quelle che cominciano a festeggiarlo due mesi prima né a cui si illuminano gli occhi davanti alle luci che addobbano la città. Non penso ai regali. Detesto la confusione che crea. Sono un po’ come il Grinch. In questi giorni così festaioli, desidererei solo una coperta calda sulle gambe e l’ultimo libro di King da leggere.
L’ultima pietanza che mia madre porta in tavola, preceduta da un tacchino ripieno con contorno di purè e asparagi, è un ciambellone ricoperto di cioccolato fondente, quello che mi piace di più.
«Mamma, non fai il ciambellone da quando andavo alle elementari», le dico, sorpresa. Mia madre ha un’espressione soddisfatta. È sempre stata fiera dei suoi successi, sia che si trattasse del proprio lavoro, dove ha sempre dato il massimo, sia che si trattasse della vita privata, dove però, non è mai stata un granché.
«Tuo padre ne va ghiotto», dichiara, mentre guarda l’uomo che, distrattamente, consulta un libro di storia. Anche a tavola, sì. Lo ha sempre fatto che io ricordi. Mia madre non se ne è mai lamentata. Come lui non si è mai lamentato del fatto che lei trascorresse più tempo al lavoro che in casa, con noi.
Sarà per questo che ho iniziato a scrivere. Per sfuggire alla loro indifferenza. Per ritagliarmi un mondo in cui le mie parole contavano qualcosa, o per creare un’esistenza ideale, dove esiste il dramma e la pena, necessari, però, a condurmi lì dove ho sempre voluto giungere: al lieto fine. Come nelle favole. Perché nella vita non è affatto scontato e, se lo trovi, puoi dire di aver raggiunto davvero il successo.
Mia madre serve una generosa porzione di ciambellone a mio padre. Lui le sorride, ripone il libro di storia sulla libreria e torna a sedersi. Con una forchettina, taglia un pezzetto di dolce e se lo porta alla bocca, gustandolo a lungo. Non parla prima di aver ingoiato.
Mio padre è sempre stato un uomo che della buona educazione ha fatto una ragione di vita. Se ne dimentica giusto quando legge a tavola. È un gentiluomo, taciturno, onesto, che non esce di casa senza la sua giacca di tweed perfettamente stirata. Un padre che, la maggior parte delle volte, da ragazzina, mi ha fatto venire voglia di urlare per la frustrazione, quando decideva che anch’io dovevo essere perfetta, come lui.
«Victoria», comincia pulendosi le labbra che non presentano tracce di briciole, «come va con il tuo ultimo libro?». Lo chiede ogni volta che ci vediamo. È una domanda di rito. In realtà non è nemmeno certo che io stia scrivendo un nuovo romanzo. Non li ha mai letti i miei lavori. Il professor Edward Stevenson non legge niente che non tratti di storia o che si avvicini, anche lontanamente, a uno di quei best seller che le case editrici propinano a una massa di lettori ignoranti, neanche se a scriverli è sua figlia.
Stephen King per lui è un visionario. Grisham è noioso. Crichton è uno strambo. Tolkien e la sua banda di nani non sono da prendere nemmeno in considerazione.
«Bene, papà. Nel Vermont ho ritrovato un po’ dell’ispirazione che cercavo da tempo», butto lì.
La sua espressione resta imperturbabile quando chiede: «Vermont?».
Stringo le labbra, incerta su cosa dire, ma è da un pezzo che non mi importa più del consenso dei miei genitori o del loro biasimo per non essere la figlia che avrebbero sempre voluto, cioè quasi invisibile.
«Mi sono trasferita nel Vermont per un po’. Vivo con un uomo…». Attendo. «Un agricoltore». Attendo ancora. «In una fattoria che cade a pezzi. Gli pago i debiti e in cambio lui mi dà ospitalità». Niente, neppure un battito di ciglia. «Sapete? Il Vermont è il luogo ideale per scrivere. Natura selvaggia, poco traffico, brava gente. Tutta tranquillità».
Mia madre, che mangia ancora la sua fetta di ciambellone, solleva lo sguardo sul mio viso. Come mio padre, sembra non avere espressioni. A volte mi sembra di parlare con due robot.
«Il Vermont è un posto delizioso», si limita a dire.
«Ha ragione tua madre. Il Vermont è un posto delizioso. Ricordo di esserci stato una volta, con i miei genitori, quando ero molto giovane…». Mio padre si lancia in un racconto sul suo soggiorno di un paio di giorni nella capitale del Vermont. Il resoconto è interessante tanto quanto stare a guardare l’acqua che bolle nella pentola. Dimentica il mio romanzo, dimentica ogni cosa che gli ho detto oppure, semplicemente, non gli interessa.
Mi sale l’ansia, procurata dall’insoddisfazione. Alla mia età dovrei averla superata la delusione per la loro freddezza, ma ogni volta che mi ritrovo in situazioni simili, mi viene voglia di fare qualcosa di folle. Non so… Sollevare il tavolo e scaraventare tutto sul pavimento, compreso il loro fottuto ciambellone, solo per generare una reazione, per provare a me stessa che anche loro, in fondo, sono esseri umani.
Mi viene da pensare che, se si ritrovassero davanti Nath, o dovessero vivere nella sua fatiscente fattoria, sarebbero come due delicate rose in mezzo a un campo di fiori selvatici e gramigna.
L’ansia di colpo allenta la sua gelida presa. Nath. Solo lui riesce a calmarmi. Ripenso al suo modo di affrontarmi, ogni volta. Vivo, forte, coinvolgente. Non c’è niente che mi faccia pensare alla freddezza in lui. Lo preferisco all’atteggiamento dei miei, persino quando è scontroso e arrogante. Sempre meglio dell’assoluto disinteresse.
Di colpo sento la necessità di averlo qui, accanto a me. Pagherei per vederlo mettere in difficoltà i miei genitori con la sua aria spavalda. Mi viene da ridere se ripenso a quando si è denudato davanti a me con tutta la calma del mondo. Mi sale il rossore sulle guance. Mi dimentico dell’ansia e stringo le mani l’una nell’altra quando il respiro mi viene fuori con un singhiozzo. Sorrido ancora. Mi alzo dalla sedia, mentre mio padre racconta la sua avventura nel Vermont, qualcosa che riguarda una gomma bucata e un procione, e mi dileguo. Forse neppure se ne accorgono.
Mia madre mi raggiunge solo quando sto indossando il cappotto per andarmene. Mi pianta in mano un sacchetto con del ciambellone avanzato e dice: «È stato bello rivederti, tesoro. Speriamo di rifarlo presto».
«Quando vuoi, mamma», rispondo senza troppe illusioni.
«Magari ti chiamo io, va bene? Io e tuo padre abbiamo programmato una serie di viaggi nei prossimi mesi e… Sai… Ora che siamo in pensione…».
Mio padre ci raggiunge, mi sorride e appoggia una mano sulle spalle di mia madre. Come lei, sembra volersi scusare.
«Va bene, mamma, non preoccuparti», le dico con sincerità. Non è colpa loro se sono fatti così. Loro sono di quelle coppie in cui uno basta all’altra. Non avevano il desiderio di avere figli, ma sono arrivata. Quello che posso fare è essergli grata di non essersi liberati di me quando potevano.
Saluto entrambi con un bacio e qualche secondo dopo mi ritrovo per le vie di Chicago.
Il vento è quasi la regola, qui, nella Windy City. Freddo e sferzante, mi spazza via i capelli e il cappotto che subito abbottono e stringo in vita con la cintura. Non si ferma un taxi neanche a pagarlo oro e, come se non bastasse, sono parecchio lontana dalla stazione della metro.
Nevica da un po’. Sembro essere l’unica deficiente che, il giorno di Natale, va a spasso per la città. Da sola.
Attraverso le finestre delle case o le vetrine dei ristoranti, vedo le famiglie americane festeggiare attorno a tavole imbandite, oppure davanti al camino, accanto agli alberi di Natale, a scartare i regali.
Scenari da cartolina anni Cinquanta, mi dico. All’improvviso realizzo che vorrei una festa in famiglia, proprio io che non avevo mai considerato la cosa, oppure, forse, vorrei solo che la mia famiglia fosse lui. Ce ne staremmo seduti sul dondolo sotto il portico, abbracciati, con la mia testa che combacia perfettamente con la curva del suo collo, a guardare la neve cadere sul bosco di aceri.
Dio, mi sto innamorando e mi sto innamorando, come non mi era mai successo, dell’unico uomo di cui non avrei mai creduto possibile innamorarmi.
Nath è uno che va dritto al cuore, uno che ti lascia senza fiato. Non sa di averlo fatto con me.
Noi due siamo così diversi, come cielo e terra. Io sono la terra, arida per certi aspetti, incolta, bisognosa di cure. Lui è il cielo che contiene la pioggia che mi fa rinascere. E io ho bisogno di lui, come la terra secca ha bisogno di tutta la pioggia del cielo.
Sorrido, mentre la neve aumenta di intensità. Me ne accorgo solo ora: lui è stata la mia ispirazione fin dall’inizio. In un modo del tutto imprevisto, prima facendosi detestare, infine facendosi amare, mi ha portato a scrivere quello che sto vivendo. Sofia, la ragazza stramba che dipinge, sono io. James, il ragazzo in bicicletta, scostante e a volte gentile, forte e caparbio, orgoglioso e determinato, è diventato Nath.
Ripenso a ogni capitolo, ogni frase che lo descrive e so che è così.
Non era questa la storia che avevo in mente, ma dal Vermont in poi lo è diventata.
Adocchio un taxi che sembra vuoto. Sollevo un braccio per richiamare l’attenzione del conducente. L’auto si ferma accanto a me. Sollevata, salgo in macchina e dico all’autista l’indirizzo da raggiungere.
Una decina di minuti dopo sono in ascensore, diretta al venticinquesimo piano, dove si trova il mio appartamento. Non bado al tizio sudaticcio dietro di me, con una scatola di ali di pollo fritte in mano – un altro sfigato come me, mi dico – né alla coppia di ragazzi che si sbaciucchia come se non ci fosse un domani, né alla vecchietta che si porta dietro una borsa piena di regali. «Per i miei nipotini», mi dice, quasi giustificandosi.
Le faccio un cenno di saluto quando arrivo al mio piano. Percorro in fretta il corridoio illuminato a giorno dalle lampade al neon, un tocco di modernità in questo palazzo edificato più di cento anni fa, sulle cui pareti c’è ancora la carta da parati originale – verde, con dei motivi floreali stilizzati, bianchi –, e raggiungo il mio appartamento.
Mi libero del cappotto, appendendolo con cura all’attaccapanni. Dopotutto, non riesco a liberarmi delle mie sane abitudini. Mi accingo ad accendere il camino. Quando un vigoroso fuoco riscalda il salotto, volo sotto la doccia.
Cinque minuti appena e sono in pigiama. Torno in salotto. Appoggio una tazza di tè sul bordo in marmo del camino e sistemo la coperta sul divano foderato di stoffa rossa. Nath sarebbe orgoglioso del fatto che non ho un divano in pelle.
Mi metto comoda. Non leggo Stephen King, non stasera. Stasera ho altro da fare.
Penso a Nath. Penso a come starà passando il Natale. Me lo chiedo da un po’, da quando ho chiamato sua sorella per farle gli auguri e ho scoperto che è andata con la sua famiglia a Disneyworld. Un regalo del marito che non vedeva da mesi e che per l’occasione ha ottenuto una licenza.
Se telefonassi anche a lui? Potrebbe non rispondere. Non ci siamo lasciati troppo bene l’ultima volta.
Sono troppo codarda per rischiare, ma troppo curiosa per non sapere, quindi opto per una via di mezzo e gli mando un messaggio via WhatsApp.
Lui e il suo cellulare non si frequentano molto, infatti, l’ultimo accesso all’applicazione risale a tre giorni fa.
Ci provo comunque. È tarda sera. Se conosco le sue abitudini, a quest’ora starà leggendo il giornale seduto sul divano, con Charlie che gli sonnecchia accanto.
victoria: Salve, Nath, volevo augurarti buon Natale. Spero tu lo abbia passato bene.
Formale quanto basta. Forse troppo. Ma così non rischio di essere mandata al diavolo.
Resto in attesa. Guardo in continuazione la barra superiore dell’applicazione, quella che mi dirà quando sarà online.
Appare dopo circa tre minuti. Li ho contati.
Nath Owens sta scrivendo…
Il cuore fa un capitombolo. L’ansia sale. La sua foto profilo con l’immagine del papero Charlie sembra prendersi gioco di me.
nath: Salve, Victoria, buon Natale anche a te.
Basta. Nient’altro. Reprimo il moto di delusione che rischia di farmi desistere e continuo.
victoria: Lo hai passato bene?
Immagino una risposta del tipo: Sono affari miei. Invece…
nath: Non male.
Una conversazione calda quanto un iceberg.
victoria: Non vedo l’ora di tornare alla routine a cui ero abituata.
nath: Da quella non scapperai, almeno.
Avverto dell’astio in questa frase. Capisco anche perché.
victoria: Mi dispiace essermene andata in modo così frettoloso. Eri arrabbiato e io ero arrabbiata quanto te, forse.
nath: È stata una tua scelta, Victoria. Non è un problema per me.
Doccia gelata.
victoria: Allora… ti lascio alle tue cose. Mi ha fatto piacere sentirti di nuovo. Buonanotte, Nath.
nath: Buonanotte.
Ho voglia di scaraventare il telefono contro il muro, ma dovrei avere la forza di sollevare il braccio, invece ho solo voglia di seppellirmi sotto le coperte. Sensazione che dura l’arco di un secondo. Non ho intenzione di cedere e, due minuti dopo, sto facendo le valigie per tornare nel Vermont. Domani o dopodomani al massimo rivedrò Nath, che lui lo voglia o no.