24. Nath
Quanto tempo era che non mi sentivo così bene? Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ho abbracciato così una donna, quanto dall’ultima volta che ho provato questa stretta al cuore che fa un po’ male e un po’ rassicura?
La guardo di sottecchi di tanto in tanto, quando penso che lei non se ne accorga. Ammiro le sue lunghe ciglia scure, i suoi occhi, spesso adombrati e qualche volta lucidi. Osservo il suo profilo imperfetto, le lentiggini che ricoprono il naso e le guance, le labbra atteggiate in qualcosa che assomiglia a un sorriso.
Guardavo così Faith tanto tempo fa? Strano che non lo ricordi più. Non rammento più l’emozione che essere innamorato di lei mi dava. Non adesso che ne provo una più intensa.
«Cosa mi stai facendo, Victoria?», domando ad alta voce, senza accorgermene.
«Cosa?», ribatte lei.
«Cosa?», replico io.
«Hai detto…».
«Lo so cosa ho detto». Sorrido e mi sento un vero idiota.
«E io ho sentito cosa mi hai chiesto». Sorride di rimando, con l’aria un po’ colpevole, un po’ compiaciuta. «Ma dovrei essere io a chiedertelo», aggiunge, stavolta con un’espressione seria e con il dubbio che le attraversa lo sguardo.
«Non lo so», dico con sincerità. «Non resta che aspettare e vedere come andrà».
«Il come andrà mi ha sempre fatto paura. Non ti puoi mai fidare del futuro. È un tempo infido», commenta lei stringendosi al mio braccio. Con questo gesto, in maniera inconsapevole, mi dà la risposta che speravo, o forse temevo. Victoria è una donna che cerca certezze, stabilità, non è certo una sprovveduta. La domanda è: gliele posso garantire? Il responso, come sempre, mi lascia una sensazione amara nel cuore. Io non posso darle un bel niente.
«Molti affermano che sia un tempo di speranza», dico, con un ottimismo che in realtà non provo affatto.
Lei mi guarda, con quegli occhi fiduciosi e lo sguardo pieno di aspettative che non voglio deludere. Accanto a me, stretta al mio braccio, con le dita esili intrecciate alle mie, c’è una donna speciale. Una di quelle con cui vorresti perderti, con cui faresti l’amore per sempre, con cui litigheresti e poi rifaresti di nuovo l’amore. In qualsiasi modo ti venga in mente: su un letto, contro un muro, sul divano del salotto, su un tappeto. Una di quelle donne speciali che ti costringono a implorarle di amarti, con gli occhi lucidi, con le mani giunte a preghiera se è necessario. Una di quelle diverse da tutte le altre, che si illuminano non appena aprono gli occhi al mattino, e che ti fanno ripetere “Ti amo, amore mio”, come un disco rotto, senza stancarti mai, come una lenta e inesorabile nenia che, sei consapevole, avrebbe il potere di straziarti il cuore e renderti l’uomo più infelice della Terra se solo non avessi l’opportunità di dirglielo sempre.
Questa è Victoria, Letterata arrivata nella mia vita con le sue ossessioni da incorniciare, le paure incomprensibili, le dolci follie, le nottate a ticchettare sulla tastiera del pc perché dalle sue dita nascano altre vite, lo sguardo perso nella meraviglia mentre osserva il lago, le gite impreviste in barca, le parole sputate senza pensare, i sorrisi, i gesti, le movenze che riesco a vedere solo in lei, forse perché i miei occhi non sono più quelli di una volta. Forse ora vedono. Lei è questa. Quella del: “Resta con me, e restaci per sempre”. Quella del: “Ti seguo in capo al mondo se me lo chiedi”. Quella da stringere e amare tutta la vita, tutti i giorni, per ogni suo pensiero. Quella da: “Ti darò tutto anche se non ho niente”, perché hai l’impressione che lei sia una di quelle che si accontenterebbero del niente pur di stare con te. O almeno ti piace crederlo perché ti fa comodo farlo, perché così ti senti meno fallito.
Se non avessi creduto che se ne fosse andata per non tornare più, non sarei mai giunto a questa conclusione, o forse ci avrei solo messo più tempo. Sta di fatto che non so se questa consapevolezza mi aiuti a vivere meglio o complichi ulteriormente la mia incasinatissima vita.
È una di quelle novità che avresti preferito fossero arrivate in un momento più roseo, per godertele appieno. Ma in questa fase della mia vita, i momenti migliori sono da cercare con il lanternino, fino a che non riuscirò a sistemare la mia situazione finanziaria, perlomeno.
«A cosa stai pensando di bello?», mi chiede all’improvviso, Victoria.
La guardo incuriosito. «Come fai a sapere che è qualcosa di bello?»
«Perché hai la faccia da pesce lesso».
Mi passo una mano sul mento ispido. «Te ne faccio passare un po’ troppe, Stevenson. Pesce lesso, a me, non lo hai mai detto nessuno».
«Sai come si dice: c’è sempre una prima volta».
Il sorriso che nasconde voltandosi dall’altra parte lo vedo lo stesso.
Ormai siamo vicini al mio pick-up, parcheggiato in una zona periferica abbastanza lontana dalla piazza.
Svoltiamo in un vicolo piuttosto isolato e mi accorgo che, appoggiati al cofano del mio furgone, ci sono tre uomini vestiti di scuro, con lo sguardo abbassato.
Capisco che c’è qualcosa che non va quando mi rendo conto che uno dei tre impugna una mazza da baseball e un altro un piede di porco. L’istinto mi porta a mettermi davanti a Victoria che si blocca di fronte a una simile scena.
«Stai tranquilla», le dico, ma in realtà c’è poco da stare tranquilli.
I tre tizi sono di spalle, con il volto nascosto in parte dal cappuccio del giaccone, così non li riconosco. Mi risulta ancora più difficile quando, al cenno di uno di loro, coprono il viso con dei passamontagna scuri. Solo allora si girano verso di noi.
Più li osservo, più sono sicuro di riconoscere in uno di loro Bob Sullivan. Può coprire la sua faccia quanto gli pare, ma il suo modo di muoversi, un po’ dinoccolato e incerto, lo riconoscerei ovunque.
È lui quello che tiene in mano il piede di porco, è lui che sferra il primo colpo al furgone, andando a colpire, con chirurgica precisione per uno che è ubriaco la maggior parte del tempo, uno dei fari. Colpisce anche l’altro, mentre il secondo uomo sfoga la sua furia contro il parabrezza, ridotto in men che non si dica a una ragnatela di vetro incrinato, fino a che non lo sfonda del tutto. Infine passa a una delle fiancate.
Stanno distruggendo l’unico mezzo che ho per spostarmi. Peggio: stanno distruggendo l’unico mezzo che mi permette di lavorare.
«Resta qui», dico a Victoria.
«Dove diavolo vai? Sei impazzito?».
Non la ascolto e con passo spedito mi dirigo verso i tre delinquenti, mentre a gran voce urlo: «Ehi! Ehi voi?». La mia voce risuona cupa nel vicolo, sembra rimbalzare sulle pareti, così come il suono del legno e del ferro che si abbattono con ferocia sul mio furgone. Sto attento a non avvicinarmi troppo: sono in minoranza e non sono tanto spavaldo da affrontare quei tre da solo.
Fingo di cercare il cellulare nella tasca del giaccone, ma il telefono è rimasto a casa, come sempre. Allora guardo Victoria, ma sembra avermi preceduto perché è già col cellulare all’orecchio.
Uno dei tre, quello che presumo sia Bob, si accorge di quanto sta succedendo. Lascia cadere il piede di porco ed estrae una pistola.
La impugna e la punta ora contro di me, ora contro Victoria. «Molla quel telefono», dice con la voce ovattata. «Mollalo!», urla.
Sollevo le mani e faccio un cenno a Victoria. Lei, con movimenti lenti, appoggia il cellulare sull’asfalto nel vicolo.
«Lancialo verso di me», le ordina l’uomo, mentre gli altri due osservano la scena restando comunque in guardia.
Victoria fa come le è stato detto, e con un leggero calcio, spinge il cellulare verso il farabutto. Pochi attimi più tardi, il telefono è ridotto a un cumulo di pezzi sparsi qua e là, dopo il volo contro il muro.
La pistola è ancora puntata contro Victoria. L’uomo si avvicina sempre di più. Il vicolo è deserto, come la strada che lo incrocia. Sono tutti alla fiera.
«Sta’ calmo, amico».
«Fatti da parte, Owens».
Mi ha chiamato per nome. Non ho dubbi che sia Bob.
«Perché non te ne vai, puttana?».
Victoria indietreggia. Le sue labbra tremano mentre sussurra il mio nome in cerca di aiuto. Devo smascherare Sullivan e devo fargli sapere che l’ho riconosciuto.
«Bob, questo scherzo ti costerà caro, te lo garantisco».
Lui si blocca. Sembra inciampare sui suoi passi colto alla sprovvista. Ne approfitto per estrarre un mazzo di chiavi dal giaccone e glielo lancio dritto sulla testa.
Non si rende bene conto di cosa sia e si scansa per evitarlo. Nel mentre riesco a raggiungerlo, lo spingo contro il muro del vecchio negozio di dolci e riesco a fargli perdere la pistola. Faccio in tempo ad allontanarla con un calcio, poi vengo colpito da un pugno sulla schiena. Mi piego all’indietro, con un rantolo.
Sento solo le urla di Victoria: «Fermi! Lasciatelo stare!». Poco dopo mi investe una raffica di calci e pugni che mi tolgono il respiro. I tre si accaniscono su di me con spietata rabbia, fino a quando, stanchi, mi lasciano inerme disteso sull’asfalto, con il volto gonfio e ogni parte del corpo dolorante. Ho paura che possano fare del male a Victoria, ma fuggono, spaventati dal suono insistente del clacson di un’auto di passaggio.
L’ultima cosa che riesco a vedere, con gli occhi tumefatti, annebbiati dal sangue, è il volto pallido di Victoria che si piega su di me. Sta dicendo qualcosa. Forse piange. Forse…