26. Victoria
Riposare è quasi impossibile, nonostante senta tutte le ossa a pezzi, le gambe molli e la testa che sembra un palloncino sul punto di scoppiare.
Una volta lasciato l’ospedale, con Susan ci dirigiamo verso la centrale di polizia dove spiego per l’ennesima volta la dinamica dell’incidente. Mi chiedono se ho dei sospetti.
Faccio subito il nome di Bob Sullivan, racconto loro del perché potrebbe avercela con Nath dichiarando che il mio non è solo un sospetto. Tutto questo è opera di quel bastardo ubriacone.
Il cuore mi si spezza in due quando, dopo circa un’ora, mi ritrovo con Susan davanti a quello che rimane della fattoria di Nath: un cumulo di legna bruciata, cenere, travi annerite, fumo. Un paio di scarpe da ginnastica sformate dal calore. La stalla e il granaio hanno subìto la stessa sorte. Non è rimasto nulla. Gli animali devono essere stati portati via.
Sento una stretta al cuore all’idea di quelle povere creature spaventate, incapaci di liberarsi, preda del fuoco. Penso a quanto questo farà male a Nath. Sarà una ferita difficile da rimarginare. Amava i suoi animali più di qualsiasi altra cosa.
Susan si guarda intorno con una mano sul cuore. Non nasconde le lacrime e continua a scuotere la testa. Riconosco il dolore sul suo volto, lo strazio nel suo cuore. Sa che questo potrebbe uccidere l’anima del fratello.
«Non lo sopporterà», dice infatti. «Non ce la farà. Questa fattoria era tutta la sua vita. Ha lottato, ha tenuto duro per tirarla avanti, ha sacrificato tutto per questa stramaledetta fattoria, per salvarla dalla rovina, e ora…». Le sfugge un singhiozzo. «Ora eccola qui… A pezzi. Non è rimasto niente. Niente. Non rimarrà niente neanche di lui. Viveva per questa casa. Se solo avesse venduto… Se solo…».
Ascolto le parole di Susan in religioso silenzio. Non le servono le mie frasi fatte, non le serve consolazione, ha bisogno solo di muta comprensione.
Mi volto a guardare il lago. Luccica ancora, lui, sotto lo sguardo amorevole della luna spuntata da poco da dietro un cumulo di nuvole. Nonostante il fuoco, il fumo, la cenere, il buio, è sempre lì che risplende con i suoi diamanti di luce sulla superficie liscia. Quel poco di neve che cade ancora, gli si posa addosso come una sposa devota, e nel leggero soffio di vento che l’accompagna sembra sussurrargli: sono tua, sei mio.
Mi piego sulle ginocchia, sfioro la terra accanto ai miei piedi e per un po’ penso che sia tutto come prima. Chiudo gli occhi. Sono le 4:59 del mattino. Fra un minuto esatto, dalla radio sveglia qualcuno canterà. Nath si alzerà dal letto intonando quella canzone, alzerà la voce. Lo farà apposta perché sa che così mi sveglierò anch’io. Farà più rumore possibile, come le prime volte. Oppure, spegnerà la sveglia dopo neanche un minuto, si muoverà in silenzio, con passi lenti, per lasciarmi riposare tranquilla, come faceva ultimamente. Uscirà di casa senza sbattere la porta, si avvicinerà a Charlie che, fedele, lo aspetterà alla base delle scale del portico, in attesa della sua carezza mattutina. Caricherà il furgone di attrezzi da lavoro, e dopo essersi sgranchito le braccia con lo sguardo rivolto verso il lago, monterà sul pick-up e andrà al lavoro nei campi.
Riapro gli occhi. Il minuto è trascorso e niente è come prima. È cambiato tutto.
A un tratto, tutti i miei problemi di controllo delle emozioni, le paure, le manie, le ossessioni, il pensiero che potrei fallire come autrice, i compromessi, l’ambizione… tutto svanisce davanti a questo dolore che soffoca ogni cosa.
Rimane la solitudine. Il pensiero di un uomo che ha pagato il fatto di voler proteggere il ricordo di suo padre e di non volersi arrendere alla legge del più forte.
Trascorro le successive due settimane a fare da pendolare fra la casa di Susan che, con molta gentilezza, mi ha offerto il posto di suo marito nel letto matrimoniale, e l’ospedale della capitale, dove Nath si sta riprendendo abbastanza bene, anche se ci vorrà ancora del tempo perché torni quello di prima.
Parla a fatica per le labbra tumefatte. La mandibola ha subìto diversi traumi, così l’occhio destro. Niente che non possa essere recuperato con tanta pazienza e cura. L’addome e la schiena sono cosparsi di lividi giallognoli e violacei e muoversi gli costa molto dolore.
È stato interrogato dalla polizia. Si prosegue con le indagini per l’incendio e l’aggressione subita. Neanche a dirlo, il primo sospettato è Bob Sullivan che, come immaginavamo tutti, si dichiara innocente.
Non c’è stato modo di parlare da sola con Nath, anche se lo avrei voluto con tutta me stessa. Le visite durano relativamente poco e con noi c’è sempre sua sorella Susan che si preoccupa di sprimacciargli il cuscino, aiutarlo a mangiare, coccolarlo in maniera ossessiva.
Non la biasimo.
Una sera, dopo aver messo i bambini a letto, mentre siamo a tavola, Susan mi racconta di come Nath sia sempre stato un testardo, di come non si sia mai arreso davanti a niente, ma che stavolta ha l’impressione che non sarà così.
Stavolta le sembra che abbia esaurito le forze, soprattutto dopo aver saputo della fine che hanno fatto i suoi adorati animali e la fattoria. Ero presente quando Susan gli ha comunicato la notizia, un paio di giorni dopo che si è risvegliato.
Sebbene la sorella abbia usato tutto il tatto possibile, la reazione di Nath è stata spropositata. Ha tentato di strapparsi l’ago della flebo sul dorso della mano. Voleva scendere dal letto, nonostante non avesse la forza per farlo, e gemiti di rabbia gli risalivano in gola. Si è arreso solo dopo qualche minuto, stremato, senza fiato, abbandonandosi a lacrime che mi hanno fatto capire ancora di più la grandezza del cuore di quest’uomo.
Susan mi confessa che la preoccupano di più le ferite morali, piuttosto che quelle fisiche. Ammetto che la sua preoccupazione è anche la mia. Ma ho fiducia in Nath, nella sua voglia di vincere, nel suo orgoglio che più volte mi ha dimostrato di possedere in misura, direi, quasi esagerata.
Faccio presto a ricredermi. Circa tre settimane dopo, Nath viene dimesso dall’ospedale. Sta meglio. Le ferite sono rimarginate, il volto ha un aspetto più umano, le labbra e gli occhi non sono più gonfi, anche se i lividi persistono, ma sono stati scongiurati danni interni.
Susan lo ospita, com’è normale che sia. Gli lascia il letto matrimoniale. Ha bisogno di riposo e di spazio, dice. Lei si trasferisce nella camera dei figli. Cerca di sistemarmi sul divano in salotto, ma io insisto per trovare un posto in qualche pensioncina o in un bed & breakfast. Pretty Creek ne avrà pure uno.
Sono fortunata a quanto pare. Poco distante dalla piazza, a circa un miglio dall’abitazione di Susan, c’è la locanda di Trudy Birgenson, rammenta Nath alla sorella quando quest’ultima insiste perché io rimanga a casa con loro, nonostante non possa offrirmi un letto comodo.
Lo fa presente a pranzo, mentre mangiamo un dolce alla soia, che sa poco di dolce e molto di soia. Non sollevo lo sguardo su di lui. Non gli faccio vedere che il suo commento, pronunciato con un tono sterile, privo di qualsiasi emozione, ha lasciato un gusto amaro nei miei pensieri.
Mi viene il sospetto che non mi voglia fra i piedi. Non è che questo dubbio mi sia venuto in questo momento, dopo il suo velato invito a levare le tende. È solo la naturale conseguenza del suo comportamento degli ultimi tempi.
È scostante, freddo. Se ne sta rinchiuso per la maggior parte del tempo in camera da letto, o in giardino a sfogliare il quotidiano in compagnia del papero Charlie. Parla di rado e, se lo fa, pronuncia quasi sempre monosillabi, tranne adesso, quando riesce a dire tutto d’un fiato che la locanda di Trudy Birgenson è disponibile a poca distanza da qui.
Gliela faccio passare solo perché è stato pestato a sangue, perché è evidente che sta soffrendo – e un uomo che soffre è come un leone con una spina nella zampa – e perché ha bisogno di tempo per superare la perdita.
Ma non posso fare a meno di pensare che prima di tutto questo era pronto a fare l’amore con me. E io ero pronta per lui.
Dopo pranzo raccolgo in fretta le mie cose – non ne ho molte, ho imparato la lezione – e, salutata Susan e i suoi pargoli travestiti da tre porcellini con delle maschere fatte in casa dalla loro madre, esco di casa trascinandomi dietro il trolley.
Susan insiste nel volermi accompagnare, ma io preferisco fare una bella passeggiata di un miglio, quel tanto che basta per schiarirmi le idee.
La donna desiste davanti alla mia risolutezza e, dopo avermi abbracciata con forza, mi lascia andare.
Nath è in giardino. Se ne sta in piedi davanti allo steccato. Charlie zampetta lì intorno beccando qualche vermiciattolo.
Sono certa che è qui perché vuole salutarmi come Dio comanda. O forse no. Comunque sia, sono felice di stare un po’ da sola con lui, fosse anche per un minuto.
Lo affianco. Sospiro. Metto le mani nelle tasche del giaccone. Le sue sono in quelle dei jeans.
«Eccoci qui», dico.
Eccoci qui?
Lui non mi guarda. Continua a tenere gli occhi bassi.
«Allora… io vado».
Lui annuisce, senza dire altro.
Reprimo il moto di delusione, ma non mi do per vinta.
«Nath…», comincio, «il minimo che tu possa dire a una con cui stavi per fare l’amore, perché è quello che sarebbe successo se non ti avessero conciato per le feste, è: “Ciao, stammi bene”».
Finalmente solleva lo sguardo sul mio. Di scatto. E ha il buongusto di arrossire.
«Ciao, stammi bene», pronuncia. Ha un’aria sconfitta e mi dico che, forse, è il caso di lasciar perdere. Quest’uomo ne ha subite troppe negli ultimi tempi. Non gli servono altri argomenti per sentirsi in colpa.
Afferro il mio trolley e tentando di simulare un’aria sicura, quando invece mi sento sul punto di urlare, percorro il viale del giardino fino a ritrovarmi sul marciapiede, diretta a un dannato miglio da qui.
Lui non si muove. Non mi guarda. Non parla.
Ho appena svoltato l’angolo dello steccato, sto per attraversare la stradina costeggiata da un lato e dall’altro da imponenti aceri che fanno quasi da arco sopra di me, quando lo sento pronunciare il mio nome a voce alta.
Non mi fermo subito. Lo costringo a ripeterlo ancora. Un po’ perché mi piace udirlo dalla sua voce, un po’ perché non voglio rendergli le cose troppo facili.
Mi volto al terzo richiamo, quando lui è già abbastanza vicino. Un secondo dopo è più vicino. Il secondo dopo ancora, le sue mani mi circondano il viso. La sua bocca è sulla mia. Mi bacia. E ancora. E ancora, come se avessero dato l’annuncio di un’apocalisse imminente e lui non volesse perdere l’occasione di un ultimo bacio.
Le mani lasciano il viso per raggiungere i miei fianchi, cingerli e premerli contro i suoi. Poi si stringono sull’incavo della mia schiena, scendono più giù, per stringermi ancora.
Le sue labbra sono calde sulle mie. Le accarezza, le mordicchia, si insinua nella mia bocca e lo fa con una foga tale che, a un certo punto, credo che voglia fare l’amore qui, in mezzo alla strada.
In un mondo ideale, in un posto immaginifico, nel mio universo, glielo lascerei fare. Anzi, lo sta già facendo. Lo stiamo facendo.
Mi lascia andare sul più bello per riprendere fiato. Le sue mani tornano sul mio volto mentre quello che prima era un vortice che mi risucchiava, torna a essere quasi calma piatta.
Mi posa la bocca sulla fronte. La bacia. Poi più in su, sulla testa. La bacia. Infine si sposta sulla guancia. La bacia. Torna sulla bocca. La bacia e dice: «Ciao, stammi bene». Mi abbraccia stretta, così stretta che mi pare di sentirgli il cuore battere pur non avendo l’orecchio appoggiato al suo petto. Trema per qualche secondo e all’improvviso ho paura.
Ho paura di quello che può significare questo abbraccio. Il suo non sorridere. Il suo non parlare. Ha tutto il sapore dell’addio. È come il suo maledetto dolce alla soia. È un dolce non dolce.
Mi lascia per tornare al suo steccato. Mi lascia percorrendo il marciapiede con le mani in tasca. Si volta quelle due, tre volte. Anche questo ha il sapore dell’addio.
Supera lo steccato e, nascosto dal viale alberato, non lo vedo più.
Con il mio trolley, le mie inquietudini e il mio desiderio crescente di Nath, un passo alla volta, percorro il miglio di distanza che mi separerà da qui. Da lui. Un miglio lungo una vita.
Temo che soffrirò e non potrò fare niente per evitarlo.