7. Victoria

Uno strano rumore mi desta dal sonno. Ritmico e insistente. Apro gli occhi. Mi guardo intorno. Ci metto qualche secondo per rendermi conto di dove mi trovo e ricordare quello che è successo poche ore prima: il rospo, la caduta, la canzone ad alto volume.

Mi massaggio le tempie come d’abitudine, ma non ho mal di testa. Strano, dopo una notte così… Tempestosa.

Lo stomaco brontola. Non mangio da non so quanto. Dovrei mettere qualcosa sotto i denti, ma se penso al formaggio di soia, mi viene il voltastomaco.

Non appena sarò pronta, andrò a fare un po’ di spesa e comprerò qualcosa di commestibile.

Scendo dal letto e sbircio dalla finestra. Il padrone di casa è già di ritorno, con il furgone carico di legna. Nath posa i ceppi uno a uno su un grosso tronco e con colpi secchi li divide in due. Non indossa un maglione o una giacca, nonostante il freddo, ma solo una camicia azzurra, con le maniche arrotolate, aperta sul davanti. Sotto porta una maglietta grigia. I jeans gli fasciano le gambe e un notevole didietro. I muscoli del corpo si tendono a ogni colpo dato con estrema forza. Buzzurro, ma appetibile. Un vero duro, insomma. I capelli biondi sono disordinati come al solito. Sulle tempie e sulla fronte sono più scuri per il sudore che li impregna.

Mi dico, con un mezzo sorriso e mesta ironia, che se dovessi descrivere un personaggio maschile per il genere di romanzo che mi hanno richiesto alla Pearson & Sons, lo descriverei esattamente così.

Sollevo lo sguardo, ed è lì che i miei occhi incontrano lo scenario di cui mi innamoro all’istante. Un colpo di fulmine. Di quelli che spaccano il cuore.

Il sole si leva sul lago di fronte a casa. Dipinge di un chiarore dorato il cielo. L’acqua scintilla, come se piccoli diamanti fossero sparsi sulla superfice. Le pennellate di rosso degli aceri, del verde degli abeti, del giallo e del marrone, si mischiano su una tavolozza naturale e si riflettono nello specchio del lago, creando un’immagine speculare, come un mondo a parte.

Questa è un’opera d’arte.

Sospiro davanti a tanta bellezza. Per un attimo mi commuove e le parole tornano a invadere la mia mente con la potenza di un tornado. Le sento fluire in me, in ogni pensiero. Cercano una via d’uscita.

Le trattengo per il tempo che mi serve ad accendere il portatile. Mi siedo e scrivo.

Da lassù, dalla cima del mondo che era la sua mansarda, Sofia lo guardava passare. Lui percorreva quel tratto di strada in bicicletta. Indossava una giacca di feltro marrone e i capelli, schiariti dal sole, gli accarezzavano le gote in modo disordinato. Dicevano che era un pugile e ne aveva l’aspetto. Alto, muscoloso, con un paio di cicatrici sul volto.

“È solo un ragazzo”, si diceva, ma lo aspettava ogni giorno come se fosse un dio. Lo aveva incontrato in chiesa un paio di volte, in compagnia della madre. Le loro famiglie si erano presentate perché vicine di casa. Sofia non aveva smesso di guardarlo un solo minuto, tanto che la sorella aveva dovuto darle di gomito perché la smettesse di farlo.

Il padre, invece, Giuseppe Mantico, aveva guardato male il ragazzo. «Pugile», aveva detto con disprezzo una volta a casa, dopo la messa domenicale. Che razza di sport è quello dove si guadagna sputando sangue? Sofia aveva pensato che fosse lo sport più bello del mondo, così una sera, molto tardi, aveva convinto la sorella e il fidanzato di lei, Salvatore, ad assistere a un incontro di pugilato in una palestra in città. Sapeva che si teneva un incontro e che James era uno dei partecipanti. L’avversario era un irlandese rosso di capelli e paonazzo in volto. Il premio in palio era di cinquanta dollari.

James combatté come un leone sul ring. Sofia lo guardava incantata, come se fosse un angelo e volteggiasse nell’aria. Sua sorella lanciava urletti a ogni colpo che prendeva, Salvatore incitava come un ossesso. Fortuna che c’erano loro, altrimenti suo padre non le avrebbe permesso di uscire così tardi.

Alla fine dell’incontro, quando i due contendenti scesero dal ring, Sofia si avvicinò al vincitore e, senza esitare, gli passò un fazzoletto. Un fazzoletto bianco sul quale erano ricamate le sue iniziali. James lo prese. Sembrava confuso e stordito, forse dai colpi presi, forse dal suo atteggiamento troppo espansivo. Stava per fargli i complimenti, quando una ragazza con una scollatura procace, bionda come il sole, con gli occhi azzurri come il cielo, praticamente perfetta, gli si fiondò addosso e lo baciò sulla bocca. Lo baciò infilandogli la lingua in bocca. Sofia arrossì e distolse lo sguardo. Salvatore la tirò via con forza. «Cosa fai? Vieni, è ora di tornare a casa».

Non riuscì nemmeno a salutarlo. Lo lasciò lì, con la ragazza che lo baciava ancora e con lui che stringeva il suo fazzoletto bianco in una mano.

Quella stessa sera, Sofia si affacciò all’oblò della mansarda e attese il ritorno a casa di James. Da lassù vedeva bene la porta d’ingresso dell’abitazione del ragazzo e quando lo vide arrivare, uscì con la scusa di voler prendere un po’ d’aria e lo raggiunse sul portico prima che entrasse.

«Ciao», disse. Non conosceva bene la lingua degli americani. Solo qualche parola. Ma leggeva molto e ne stava imparando altre. «Come stai?».

James non le rispose subito. Infilò la chiave nella toppa e poi si fermò. Si voltò verso di lei, le sorrise e rispose. «Bene, grazie».

«Eri bravo sul ring», proseguì la ragazza, certa di aver usato i termini giusti.

«Grazie», replicò lui.

«Ho fatto una cosa per te». Sofia tirò fuori dalla tasca del vestito un foglio ripiegato. Lo spiegò e lo passò al ragazzo. Lo aveva ritratto in tenuta da pugile, mentre combatteva sul ring, come quella sera.

James pensava che Sofia fosse una ragazza strana, abituata a parlare troppo spesso senza pensare. Lui era duro, era chiuso, era silenzioso. Non era abituato ad attenzioni di quel genere. Quando passava davanti alla casa di lei, sapeva che Sofia era affacciata all’oblò della sua mansarda. Lo imbarazzava, soprattutto perché aveva capito di piacerle. Sofia non faceva niente per nasconderlo, era di una ingenuità disarmante.

Su quella strada lui correva più veloce, con il lago che lo seguiva lungo il fianco, mentre l’alba si sollevava sui monti. Non un saluto, non uno sguardo le era concesso. Sofia era strana, troppo strana. Lui era solo, troppo solo. Ma cominciava a piacergli quella ragazza curiosa, con quei capelli neri che il vento muoveva come un manto quando si affacciava alla finestra della mansarda, la pelle abbronzata e il sorriso fresco e onesto di una che non sapeva affatto quanto poteva essere assassino di sogni quel mondo.

Così tentava di evitarla, ma lei gli capitava fra i piedi praticamente sempre. Che fosse in chiesa la domenica quando accompagnava la madre, che fosse alla bottega di dolci in città, che fosse in palestra durante un incontro.

Lo distraeva. Lo intrigava. Lo affascinava. Lo eccitava.

Ma Sofia non pareva rendersene conto. Certo, lei era una bambina innocente. Lui era il figlio di un ladro, senza prospettive nella vita.

Scrivo per un’ora buona, accompagnata dai rumori dell’uomo che, sul limitare della foresta, appena sotto casa, alla luce del giorno ormai levatosi su Pretty Creek, lavora duro.

È qualcosa per cui ammiro la gente come lui, nonostante tutto. Ci mette costanza, forza, passione. In qualche modo assomiglia a me.

Sorrido, mentre il nuovo giorno, a sorpresa, mi rivela nuovi aspetti di questo imprevisto soggiorno.

Mi lavo come se avessi il diavolo alle calcagna. Temo che lui risalga da un momento all’altro. Per quel poco che lo conosco, sono certa che sarebbe il tipo di persona capace di sbattermi fuori dal bagno con la forza.

Mi rivesto in fretta. Stavolta niente tacchi. Niente tailleur. Seguo il consiglio di Nath e indosso un comodo paio di jeans – l’unico paio che mi sono portata dietro – e un maglione bordeaux a collo alto. Lego i capelli in una coda e osservo il risultato in uno specchio a muro su una parete della camera da letto. Altro che procione.

Scendo giù in cucina. Abbastanza contrariata, butto giù un bicchiere di succo d’arancia e mangio una mela. Non è la colazione che vorrei, ma per oggi mi accontento.

Due minuti dopo, raggiungo Nath sul retro. È vicino al granaio e sposta dei sacchi colmi di non so che. Charlie, il papero, gli gironzola intorno.

Lui solleva lo sguardo su di me e si ferma. Rimane piegato sul sacco. Ha un occhio socchiuso per il sole che lo colpisce. Prima che dica qualcosa, sollevo le mani in aria e lo precedo. «Possiamo provare ad avere una conversazione civile, senza tirare in ballo i procioni, i rospi e qualunque altra specie animale ti venga in mente?».

Lui si rialza e si asciuga la fronte con un lembo della camicia. Gli sfugge un sorriso. Non so se significhi tregua o sia solo l’anticipo di qualche altra spiritosaggine.

«Hai fatto colazione?», mi chiede e apprezzo che abbia usato un tono quasi gentile. Intanto continua a caricarsi sacchi sulle spalle e ad accumularli vicino al granaio.

«Più o meno».

«Che significa?»

«Significa che un succo d’arancia e una mela non la considero una colazione».

Lui annuisce sollevando lo sguardo su di me. «E pensare che ti credevo una di quelle che misurano le calorie a ogni pasto».

Niente di più lontano dalla verità. «Non sai niente di me».

«Dici?»

«Contaci».

«Qual è la tua colazione tipo, allora?».

Mi stringo nel maglione. Massaggio le braccia perché fuori è davvero freddo. Mentre ci penso, lo vedo allontanarsi e raggiungere il pick-up. «Pancake, sciroppo d’acero, uova strapazzate e donuts».

Prende il suo giaccone dall’auto e mi si avvicina. «Hai il metabolismo di un’adolescente».

«Non direi: la mia cellulite può testimoniarlo». Mi mette il giaccone sulle spalle e si allontana di nuovo. Mi lascia per qualche secondo senza parole. Infine dico: «Grazie».

Lui fa un cenno con le dita. «Il Vermont è freddo in questa stagione. Non voglio che ti becchi un malanno. Non ho tempo di preoccuparmi di un’ospite con il raffreddore».

«Uhm». Non mi inganna. Questo è in tutto e per tutto un atto di gentilezza, mascherato dalla sua solita arroganza.

«Non posso credere che tu mi abbia davvero parlato della tua cellulite», dice a un certo punto, scuotendo il capo.

Non posso crederlo neanche io.

«Come va il mal di testa?», prosegue.

«Passato».

Quando termina con i sacchi, passa agli attrezzi. Lo sento schiarirsi la voce. «Mi dispiace di essere stato sgarbato ieri sera».

«Sgarbato è un eufemismo».

«Hai cominciato tu. E hai concluso degnamente nel bagno».

«Non direi. Sei piombato in camera mia come uno tsunami. Hai decisamente cominciato tu».

«Mi hai mandato a quel paese per prima».

«Mi hai paragonato a un procione».

«Lo penso ancora, soprattutto da quando mi hai detto che hai la cellulite».

Stringo le labbra. Vincerò mai una battaglia con lui?

«Ti piace provocare, vero?»

«Da morire. Chiedi a mia sorella».

Guardo l’ora. Ho perso già troppo tempo. Sofia e James mi aspettano. Ma prima ho urgente bisogno di fare una spesa decente.

«Avrei bisogno del tuo pick-up», dico d’un fiato.

«A che ti serve?», chiede Nath, guardandomi con sospetto.

«Dovrei acquistare alcune cose che mi servono. Anzi, se mi indichi la strada per un supermercato vicino, te ne sarei grata».

«Il tempo di una doccia e ti accompagno. Ho una commissione da fare anch’io», mi sorprende lui.

Sto per dirgli che non è una buona idea, ma perché stuzzicare la furia del leone? Posso condividere un paio d’ore con lui, prima di rinchiudermi in camera a scrivere.

«Va bene, Nath. Grazie».

«Non sono più buzzurro?»

«Non illuderti». Gli restituisco il giaccone con un mezzo ghigno.

Lui è agguerrito quanto me quando, con un leggero strattone, se lo riprende.

«Non mi sarei aspettato niente di meno».

Mi lancia un bacio volante e si dilegua.