13. Nath

Sono passate più di quattro settimane da quando Victoria è arrivata. Ormai mi sono abituato alla sua presenza.

Non che si faccia vedere molto in giro per casa: per la maggior parte del tempo se ne sta rinchiusa in camera a battere velocemente sui tasti del suo portatile.

Spesso l’ho sentita scrivere fino a tarda notte, qualche volta fino al mattino. Un paio di volte ci siamo incrociati sulla porta del bagno, entrambi assonnati, entrambi in disordine. Lei con i capelli tirati su, trattenuti da una penna, gli occhiali calati sul naso, le guance rosse. “Deliziosa”, ho pensato. Io a grattarmi il pacco come se avessi le pulci.

È stato imbarazzante.

Lei non ha battuto ciglio, anche se giurerei di averla vista lanciarmi una rapida occhiata.

È stato più che imbarazzante.

Sono in piedi da più di un’ora. Non riuscivo a dormire, nonostante avessi a mia disposizione ancora parecchio tempo prima che la sveglia suonasse.

Troppi pensieri. Troppe preoccupazioni. Bob Sullivan mi sta sfibrando con la storia della vendita e sembra che stia aizzando contro di me il resto dei vicini.

Mia sorella è convinta che quell’uomo sia pericoloso. Secondo me è solo un poveraccio avaro di denaro. Capisco che trecentomila dollari farebbero gola a chiunque, ma la propria casa, il posto in cui si è cresciuti, o in cui sono cresciuti i propri figli valgono così poco?

Nikos Katidius ha promesso di sistemare tutti in un grazioso condominio di sua proprietà a Montpelier, la capitale.

Se vogliono vedermi morto, devono solo mettermi dentro un rettangolo con le finestre, togliermi i miei boschi, la mia terra, il mio lago, i miei animali e il gioco è fatto.

Non resisterei due giorni. Impazzirei.

Questa casa contiene la mia anima. Questo posto ha le mie radici piantate nella terra. È tutta la mia vita. Appartengo a Pretty Creek e potrei lasciarla solo per farmi una vacanza alle Barbados.

Charlie mi siede accanto sulle scale del porticato, papero fedele come pochi, lui. Gli faccio una carezza sulla testa e si accuccia contro la mia gamba.

«Se tutti fossero come te, amico mio, la mia vita sarebbe più semplice».

«Avevo il sospetto che parlassi al papero, ma non ne avevo la certezza».

Mi volto al suono della sua voce tranquilla, delicata come il gorgoglio di un fiume di montagna. Mi pare di ricordarla gracchiante una volta. Sorrido per le bugie che racconto a me stesso.

Victoria è appoggiata allo stipite della porta, con i soliti jeans, il solito maglione, la solita coda di cavallo, le solite scarpe da ginnastica. In mano regge una tazza fumante.

«Ne vuoi? È latte di riso. Dopo un po’ ti ci abitui e non è male, sai?», dice.

«Io sono già convinto». Le sorrido. Lei si siede accanto a me. Charlie fra noi. L’alba risale il lago lentamente. Victoria beve il suo latte in silenzio. La osservo di sottecchi. Ha un profilo impreciso. Un particolare che prima non avevo notato. Un particolare che la rende più affascinante di quanto lo sarebbe se non lo avesse.

«Potrei abituarmi a questo posto, a questa situazione», dice osservando con espressione rapita l’orizzonte.

«E rinunciare alla mondanità di Chicago?».

Mi guarda corrucciata. «Hai un’idea di me del tutto errata, Nath. Sono una scrittrice, non una rockstar. Conduco una vita normalissima, come quella di tanti altri. Sono solo più stressata, ma questo dipende esclusivamente da me, dalla mia incapacità di affrontare la vita per quello che è: una lunga serie di emozioni che, prima o poi, dovrò imparare a gestire».

«Che vuol dire?»

«Che tendo a essere spaventata dagli eventi e da tutto ciò che è grande. Scatenano in me delle paure che non riesco a controllare».

«Solo perché sei una persona sensibile. Delicata. Ma non per questo meno forte».

Victoria non risponde. Rimane a guardarmi con un sorriso appena accennato. «Che c’è?»

«Mi stupisci, mi addolcisci e mi metti in disordine la testa».

La osservo stranito. «Se ti esprimi così nei tuoi romanzi, non credo ne leggerò mai uno. Ti capisco sempre meno».

Lei ridacchia. Charlie starnazza e sbatte le ali. Victoria si ripara il volto con le mani e continua a ridere. «Solo quattro settimane fa non avrei mai pensato di poter stare accanto a un papero senza usare quintali di gel disinfettante».

«Terapia d’urto. Te l’ho detto: funziona».

«Forse. O forse sto diventando grande». Posa la tazza sulle assi di legno del porticato. Si massaggia le braccia. «Nath, fra qualche giorno sarà Natale».

«Già, e ancora non nevica. Pare, invece, voglia piovere. È un inverno anomalo, questo».

«Devo tornare a Chicago».

La butta lì, così. Non so come prenderla. Bene? Male? Una via di mezzo? Difficile a dirsi. La sua presenza non mi infastidiva più tanto, e ora, sul più bello, decide di tornarsene a casa?

«Hai finito il tuo romanzo?», le chiedo.

«Non ancora».

Allora, non capisco.

«Devo festeggiare con i miei genitori. Hanno solo me e…».

«Okay, non devi spiegarmi. È giusto che tu vada, e in fondo, non eri mica mia prigioniera».

«Lo so, ma stare qui… Stare qui ha cominciato a farmi provare paura e sai che significa?».

Non rispondo, aspetto che prosegua, un po’ curioso, un po’ timoroso, un po’ eccitato.

«Significa qualcosa di grande».

Si alza senza darmi altre spiegazioni. Me lo faccio bastare. Dopotutto, l’alba è passata da un pezzo e io sono in ritardo per il lavoro.

«Il dovere mi chiama. I campi mi aspettano».

«Posso venire con te?».

Resto a osservarla in silenzio per qualche secondo, poi dico: «Mi stupisci, mi metti in disordine la testa», le rispondo, sorpreso, ripetendo le sue parole di poco prima.

«Hai dimenticato “mi addolcisci”», mi ricorda lei.

«Quello è difficile per chiunque».

«Eppure sono certa di esserci riuscita… Un po’». Sorride con le labbra e con gli occhi. Le lentiggini sul naso si muovono di nuovo.

Dannazione.

«Va’ a prendere il giaccone. Muovi le chiappe, non ho tempo da perdere». Tento di essere serio, ma non mi riesce affatto bene.

Dopo aver sistemato gli attrezzi da lavoro sul retro del furgone, salgo al posto di guida. Victoria ha già allacciato la cintura di sicurezza. Ha il capo appoggiato al poggiatesta. Gli occhi sono chiusi. Pare sonnecchiare.

Sul suo volto non c’è quasi più niente della vecchia inquietudine che lo segnava. È disteso, sereno. Nessuna ruga d’espressione. È bello.

Metto in moto e ingrano la marcia. Parto con uno scatto. Sto cominciando ad abituarmi anch’io a questa situazione.

Dannazione di nuovo.