8. Nath

«Vivere qui deve essere qualcosa di stupendo».

Victoria osserva il paesaggio che le scorre accanto attraverso il finestrino del furgone. È una giornata assolata, nonostante il freddo. Il lago che costeggia la strada che stiamo percorrendo brilla sotto i raggi dorati.

«Sì, hai proprio ragione: è qualcosa di stupendo».

«Ne sei orgoglioso, vero? Lo sento dal tono della tua voce».

Continuo a guardare dritto davanti a me, mentre le dico: «Qui ci sono nato. Sono cresciuto guardando questo lago, addentrandomi nei boschi, raccogliendo foglie secche di ogni colore per i centrotavola che mia sorella preparava per venderli al mercato e alle fiere».

«Non sei mai uscito dal Vermont?»

«Ho frequentato il Boston College grazie a una borsa di studio, altrimenti sarei rimasto a spalare letame mentre i miei compagni di liceo si costruivano una carriera, e sono stato in Canada un paio di volte». Mi blocco. Non credo che a una come Victoria interessino le mie vicende di vita passata. La osservo. Mi guarda in silenzio, in attesa. Aspetta che io prosegua in quella che ha tutta l’aria di essere una confidenza. Lo faccio dicendo: «Lo so cosa stai pensando: che in fondo una carriera non è che me la sia poi fatta, visto che sono rimasto qui a spalare letame».

Annuisce e allunga la mano per spegnere la radio. No, non ci siamo capiti, mi dico, non voglio avere una conversazione sulla mia vita.

«Lo ammetto: stavo pensando proprio questo», risponde.

«Facile capirti», borbotto, un po’ offeso. «Se sei così prevedibile anche nei tuoi libri, mi chiedo il perché del tuo successo. Scommetto che, per te, l’assassino è sempre il maggiordomo».

«Ecco perché non scrivo gialli».

Riaccendo la radio. La spegne il secondo dopo. La guardo corrucciato.

«È quasi un giorno intero che non ho attacchi d’ansia o mal di testa. Non intendo rovinare questo stato di grazia per colpa tua».

«Che cosa ho fatto?»

«Sei permaloso come me quando ho il ciclo».

Sgrano gli occhi e deglutisco. Sento un curioso calore diffondersi sulle mie guance. Merda, sto arrossendo.

«Spero tu non voglia aggiungere altri particolari».

«No, se mi farai concludere il mio pensiero».

«Ti prego».

Victoria assume un’espressione soddisfatta che mi dà sui nervi. Ma piuttosto che sentire altre informazioni che riguardano il suo corpo, la lascio continuare.

«Dicevo…», ricomincia, «stavo pensando che non hai avuto questa gran carriera, sì, ma mi pare di aver capito che questa vita ti piace, e tanto».

«È così».

«Allora puoi ritenerti soddisfatto».

«Non è che io non abbia una carriera», le dico, schiarendomi la voce. «Avevo dei progetti. Ce li ho ancora. Ma la vita mi ha posto davanti degli ostacoli che non sono stato ancora in grado di aggirare. Ho la mia laurea in agraria, la mia produzione di sciroppo d’acero, vendo le mie verdure al mercato e alle fiere. Forse non sono un avvocato di successo, uno squalo dell’alta finanza, un promettente politico, ma sono felice e mi basta».

«Hai elencato tre dei lavori che portano l’infelicità assoluta».

La guardo incuriosito. «Non hai un fidanzato avvocato o politico?»

«Cosa te lo fa pensare?»

«Non lo so… Scrittrice, Chicago, successo. Tutto porta lì».

«Giudichi un po’ troppo in fretta». Si volta verso il finestrino. Le mani si muovono nervose sulle gambe. Batte un piede sul tappetino. «Nessun avvocato, nessun politico. Dio me ne scampi».

«Avrei giurato…».

«Avresti giurato cosa?», sbotta, ma si ravvede subito. «Scusa, è che… Insomma… Io sono fatta a modo mio, ho questa idea che lui debba salvarmi da me stessa, dalle mie manie, e ne ho tante. Non lo so… A volte penso che il mio uomo ideale viva dentro un libro. Quel paio di relazioni importanti che ho avuto sono fallite perché loro non erano in grado di affrontare le mie stranezze».

«Stranezze? Continua: adesso sono curioso».

Che Victoria Stevenson fosse particolare l’ho capito dalla prima occhiata, ma ora comprendo che c’è molto di più dietro quella baldanza che si ostina a mostrarmi.

«Fino a qualche tempo fa, odiavo il contatto, qualsiasi tipo di contatto con gli altri. E non pensare che io abbia subìto chissà quale trauma da bambina, no. La mia infanzia è stata piuttosto normale, per quel che ricordo. Ma ho avuto poche carezze da entrambi i miei genitori. Mia madre era un’infermiera e lavorava tutto il giorno, mio padre era un insegnante di storia, e anche lui era sempre troppo occupato con le sue attività per stare dietro a una bambina piagnucolosa. Avevo una tata, però. Lei si è presa cura di me».

«Mi stai dicendo che con i tuoi fidanzati non hai mai…».

«Non essere ridicolo!», esclama con forza. «Non fino a quel punto, no. Ma non è mai stato troppo divertente, e alla fine è stato semplice accorgersene».

«Quindi se la sono data a gambe, invece di aiutarti». Victoria annuisce con un sospiro.

«Figli di puttana». Mi accorgo di essere stato precipitoso e rimedio. «Scusa, ho giudicato in fretta un’altra volta».

«No, stavolta ci hai preso». Sorride e le lentiggini sul dorso del naso sembrano muoversi.

«Ci sono altre stranezze?»

«Qualcuna. Sono ipocondriaca, soffro di attacchi di panico, mi lavo le mani in continuazione, sono una maniaca dell’ordine. Ma sto risolvendo tutto con costosissime sedute di analisi».

«Soldi sprecati. Terapia d’urto, ecco quello che ci vuole».

«Che intendi?».

Interrompo il discorso. Svolto verso destra e imbocco uno stretto viale costeggiato da alti abeti. «Siamo arrivati». Fermo la macchina e invito Victoria a scendere. Afferro una scatola da dietro il pick-up e salgo il porticato di una casa completamente blu, con le imposte gialle. La sua proprietaria è una tipa dai gusti un po’ particolari.

Victoria si ferma a pochi passi da me mentre poso la scatola sul pavimento. Si guarda intorno incuriosita. Una voce di donna, piuttosto profonda, giunge dall’interno della casa. La porta si apre e una signora di origini afro-americane ci accoglie con un sigaro in bocca.

«Rosetta, amore mio». Abbraccio la donna con trasporto. Devo allargare parecchio le braccia, perché Rosetta è una che ama la buona cucina e tutta la sua passione per il cibo ce l’ha intorno al girovita. «La mia donna».

«Ragazzaccio, se avessi quei cinquant’anni di meno, non saresti così spavaldo».

Le tolgo il sigaro di bocca. «Questo non va bene».

Rosetta se lo riprende con una certa determinazione. «Ho ottantacinque anni: la mia salute è l’ultima cosa di cui mi preoccupo. Piuttosto, il mio sciroppo d’acero?».

Le indico la scatola ai miei piedi.

«Bravo ragazzo. Avanti entrate, vi offro un goccetto».

Rosetta ci precede in casa, dove una pesante nuvola di fumo aleggia nell’aria. L’odore è quasi asfissiante.

Sbircio Victoria dietro di me. Si tiene il collo del maglione sul naso e guarda con sospetto ogni cosa che la circonda. Mi scappa da ridere, ma mi trattengo.

«Non mi presenti la tua amica?». Rosetta ci invita a sederci. Sulla sedia che Victoria sposta, riposa un gatto persiano bianco che sfiata non appena la vede. La ragazza salta all’indietro e si porta una mano sul cuore.

«Victoria Stevenson. Di Chicago. E non è una mia amica, ha solo affittato una stanza alla fattoria».

«Va’ via gattaccia». Rosetta solleva una mano minacciosa verso la gatta, infine spolvera il cuscino della sedia, sollevando pelo dappertutto. «Perdonala, Maleficent è abituata a una certa comodità».

«Maleficent?». Victoria guarda il cuscino come se fosse il male in persona.

«Siediti, ragazza», la invita la donna.

«Preferisco restare in piedi, grazie, signora».

«Rosetta, chiamami Rosetta. Avanti, siediti, non fare storie».

Victoria è combattuta: affrontare il malvagio cuscino pieno di germi e pelo di gatto, oppure restare in piedi e offendere a morte la povera Rosetta. Sono curioso di vedere chi l’avrà vinta.

La ragazza trattiene il respiro, si sforza di sorridere, sposta la sedia e si accomoda.

Rimango piacevolmente sorpreso dal coraggio dimostrato e mosso a compassione, le vengo in aiuto. «Rosetta, ti ringrazio per l’invito, ma dobbiamo proprio andare».

«Sei appena arrivato», brontola la donna, soffiando fumo.

«Lo so, ma devo passare al supermercato prima che chiuda».

«Oh, e va bene». Rosetta si ficca le mani nella tasca della palandrana a fiori che indossa e tira fuori cinquanta dollari. «Per il tuo sciroppo».

Afferro le banconote e le metto in tasca. «Grazie. Quando lo finirai, chiamami, te ne porterò dell’altro».

«Ma certo, ragazzo, certo». La donna ci accompagna verso l’uscita attraverso la nebbia fumosa che invade casa. Victoria esce per prima. La vedo respirare a pieni polmoni e ancora una volta vorrei ridere.

«Piacere di averti incontrata, Victoria».

«Piacere mio, signora… Rosetta». Sorride, stringe la mano e infine la tende alla mia curiosa amica.

Una volta in macchina mi colpisce con un pugno sul braccio. Subito dopo afferra del disinfettante dalla borsa e se lo passa sulle mani.

«Se sapevi di dovertene andare subito, perché diavolo mi hai fatta sedere? È stato… È stato crudele. Ti ho raccontato delle mie ossessioni, e tu ne hai approfittato per prenderti gioco di me».

«Andiamo, era solo un gatto. Era solo fumo». Victoria continua a strofinarsi le mani con forza. Temo quasi che si faccia male. «È la terapia d’urto di cui ti parlavo. E non devi nemmeno pagarmi».

«Io ti sto già pagando, più di quanto paghi il mio analista». Mi fulmina con lo sguardo. Le trema il labbro mentre rimette il disinfettante in borsa.

Do un colpo di acceleratore. Il supermercato non è lontano grazie a Dio. «Sta’ attenta a quello che dici, Victoria».

«Perché, altrimenti?».

Fermo di colpo l’auto. «Non mi piace il tono che stai usando, non mi piacciono le tue insinuazioni. Era solo uno scherzo, di cattivo gusto, okay, ma uno scherzo». Mi volto a guardarla. Il mio sguardo si riflette nel finestrino dietro di lei. È talmente serio che mi chiedo come faccia a mantenere quell’espressione imperturbabile. Come se non le importasse niente. Mi fa imbestialire.

«Io non insinuo. Non parlo mai tanto per parlare».

«D’accordo, lo hai voluto tu!». Scendo dal pick-up, chiudo lo sportello con forza, sento la mascella serrarsi. La vedo agitarsi sul sedile attraverso il parabrezza. Ora vedrai, piccola gatta selvatica. Apro il suo sportello, mi piego su di lei per sganciarle la cintura di sicurezza.

«Che diavolo fai? Fermo! Non azzardarti!». Mi colpisce la testa con diecimila mani. Riesco a bloccarle e la tiro giù dal sedile. Afferro la borsa e gliela lancio contro. Rimane a bocca aperta.

«Prosegui dritto su questa strada. Fra circa cinque miglia, alla tua destra, troverai il supermercato e, forse, me ad aspettarti lì». Mi avvicino al suo viso, pochi centimetri ci separano. Lei indietreggia, ma non abbassa lo sguardo. «Non mi servono i tuoi soldi. Ce l’ho fatta da solo fin qui, posso farlo ancora. Così non dovrai più pagarmi e ne avrai di più per quel poveraccio del tuo analista».

«Sei un figlio di puttana!».

«Da buzzurro a figlio di puttana? Lo ritengo un complimento». Victoria tenta di risalire sul furgone. La trattengo per la vita e la spingo qualche metro più in là. «Non puoi lasciarmi sul serio qui, non conosco queste strade. Ti prego, Nath!».

«Chiedimi scusa».

«Fottiti».

«Buona passeggiata».

Giro in fretta intorno all’auto, risalgo e accendo il motore dopo aver messo la sicura alle portiere un secondo prima che Victoria provi di nuovo ad aprire quella dal lato del passeggero.

«Sei tu ad avere bisogno dell’analista!», la sento urlare.

«Ti chiederei il numero del tuo», le rispondo abbassando il finestrino quel tanto che basta per farmi sentire, «ma visti i risultati ottenuti con te, non deve essere un granché».

Riparto sgommando e lasciandomi dietro una leggera scia di gas di scarico. Osservo Victoria dallo specchietto retrovisore. Si stringe nel giaccone, uno dei miei fra l’altro, perché miss Chicago non ne aveva di abbastanza pesanti per il Vermont. Rallento, mentre un lieve accenno di senso di colpa si impadronisce di me. Lieve, lievissimo, quasi nulla. È già scomparso, così come è scomparsa la sua figura.

Accendo la radio, alzo il volume e, fischiettando il motivo che stanno trasmettendo, procedo verso il supermercato.