17. Victoria

Sul serio mi era sembrata un’idea romantica all’inizio? A cosa stavo pensando? Cosa mi passava per la mente – evidentemente in preda allo squilibrio – quando ho deciso di salire su questa maledetta bagnarola per fare un giro vicino alla riva?

È risaputo che le barche, bagnarole oppure no, non sono fatte per fare giri vicino alle rive, a meno che non siano ormeggiate a un ponte o che so io. Dovevo intuirlo che la piccola deliziosa imbarcazione in legno che, da subito, mi era parsa così caratteristica, così bella con il legno consumato e la vernice rossa scrostata su entrambi i lati, avrebbe preso il largo spinta dal mio peso, dal vento, e da quel paio di colpi di remi che mi sono arrischiata a dare, forte del fatto che in tenera età mio nonno mi insegnò a vogare sulla sua canoa.

Dalla mia tenera età a quella adulta sono passati circa vent’anni. Il rischio minimo è che io abbia dimenticato come si sta su una qualsiasi superficie d’acqua.

In un attimo mi sono ritrovata al largo. Il ponte, una linea poco distinta oltre la curva scura dell’acqua. Ho provato a remare in direzione contraria, con il risultato che mi sono ritrovata a girare su me stessa al centro del lago.

Ovvio: ho dimenticato come si voga. Oppure i maledetti remi, con le pale piccole quanto cucchiaini da caffè, non sono adatti alla grandezza della bagnarola.

Mi soffermo a guardare il legno rovinato, convinta di trovare qualche buco che presto mi farà affondare, ma sembra tutto al suo posto.

Questa temporanea sicurezza non mi impedisce di provare un brivido di paura. Improvvisamente, il lago che una volta mi era sembrato un posto incantevole, comincia ad assumere un aspetto tetro, degno di un romanzo di Stephen King.

Ha cominciato a piovere. Cadono giù gocce gelate. Pungono come spilli. Mi riparo alzando il cappuccio del giaccone, ma serve a poco. La pioggia aumenta di intensità in pochissimo tempo. Mi accorgo, con sgomento, che sono vicina alla riva opposta.

Forse è un bene. Forse una volta sulla terraferma potrò tornare a casa girando intorno al lago, anche se si tratta di percorrere qualche miglio a piedi. Mi rendo conto, però, che per farlo, dovrei passare attraverso i boschi.

Non so quanto sia prudente. La pioggia non aiuterebbe e io non conosco questi posti. Di sicuro mi perderei.

Forse sarebbe meglio restare dove sono. Nath si accorgerà della mia assenza prima o poi e manderà qualcuno a cercarmi. Se vede che la barca non è più ormeggiata al ponte, farà due più due. È un uomo intelligente: non ci impiegherà molto a capire.

Non mi resta che aspettare.

Mezz’ora dopo sento una voce familiare.

«Victoria!», sta urlando. Non sono mai stata così felice di sentirlo.

«Sono qui!». Mi sbraccio sulla barca che traballa.

«Victoria!», urla ancora.

«Ehi! Nath! Sono qui!».

D’improvviso il silenzio. «Nath!», urlo di nuovo. «Sono qui, dannazione!». Non riesco a vederlo oltre il pesante velo della pioggia.

«Prega il Signore di essere già morta congelata, oppure affogata, e che io stia ascoltando solo l’eco delle tue urla di disperazione prima della morte, altrimenti quando ti becco, ti uccido con le mie stesse mani, dannata donna!».

Le parole si bloccano all’altezza della gola. Merda! Non so quale morte sia peggiore a questo punto. E non posso nemmeno scappare.

Infine Nath mi raggiunge. La sua bagnarola, a pochi metri dalla mia. Solleva un remo e me lo punta contro.

«Sei una stupida. No, che dico… Un’idiota patentata, lo sai? Cosa diavolo ti è venuto in mente? Cosa volevi fare?»

«Cercavo ispirazione», butto là. Pessima giustificazione.

«Cercavi… Dio, dammi la forza!».

Solleva il viso verso il cielo, mentre piove ancora più forte. La sua barca si accosta alla mia. Mi lancia il suo giubbotto di salvataggio. Lo indosso in fretta, con gesti nervosi.

«Allunga la mano e afferra il remo», dice. «Tira e cerca di avvicinare la tua barca alla mia. Attenta, questa è di Teddy Lawson, uno dei miei vicini che me l’ha gentilmente offerta alla modica cifra di trenta dollari, il bastardo. Se gliela riporto con la vernice scheggiata i dollari diventeranno come minimo ottanta».

«Ti restituirò ogni centesimo», gli dico afferrando il remo. Tiro con cautela, osservando la superficie dell’acqua che si infrange in piccole onde. La barca affittata da Nath è lucida, scura, e sulla fiancata, sotto un paio di strisce blu e rosse, c’è scritto “Princess America”.

Quando le due imbarcazioni sono abbastanza vicine, Nath allunga la sua mano e afferra la mia togliendomi il remo. «Sollevati in piedi, con prudenza».

Ubbidisco. Mi sollevo. La barca trema. Io tremo. Mi risiedo.

«Riprova, avanti. Piove a dirotto. Mi sto congelando persino il culo».

Non replico. Riprovo a sollevarmi. Stavolta più lentamente.

«Lo slow motion va bene nei film, Victoria».

«Ma se mi muovo più velocemente questa bagnarola dondola e allora…».

«E allora niente». Si solleva in piedi anche lui. Mi tende anche l’altra mano. «Ora cerca di passare sulla mia barca».

Faccio come mi ha detto e tendo un piede per raggiungere e oltrepassare il bordo della barca di Teddy Lawson. Sto tremando di nuovo. Batto i denti. Non solo per il freddo.

«Piano, fa’ molto piano o qui ci…». Questa volta è lui a barcollare. «Wowow… Ehi, ehi… Calma». Fa un profondo respiro e riprende il controllo. Si china, afferra una corda e lega le due barche tramite un paio di maniglioni fissati ai lati. «Così dovrebbe essere più facile».

Mi fa di nuovo cenno di avanzare. Afferro entrambe le sue mani. Continuiamo a ondeggiare. Le barche rollano in acqua. È sempre più difficile mantenere l’equilibrio.

«Ci hai cacciato in una situazione assurda», mi rimprovera Nath.

«Non avevo dubbi che me lo avresti fatto notare».

«Ti aspettavi che non lo facessi?», mi chiede mentre mi fissa. Ha l’aria parecchio irritata.

Sembriamo davvero due idioti ora, in bilico su due bagnarole, mentre la pioggia continua a bagnarci da capo a piedi.

«Dovrei lasciarti qui per vedere come te la cavi da sola». Suona come una minaccia e tremo al pensiero che lo faccia sul serio.

«Facciamola finita e torniamo a casa, per favore», lo imploro.

«Aspetto che ti decida a salire sulla mia barca».

«Perché non sali tu sulla mia?»

«Perché il mio peso la ribalterebbe».

Saggia deduzione. Non mi resta che tentare per l’ennesima e ultima volta. Spero. Prendo coraggio e di nuovo allungo una gamba. La barca improvvisamente oscilla spinta da un’ondata più forte. Stringo le mani di Nath mentre perdo l’equilibrio.

«No… Victoria, molla… Molla… Lascia che sia io a tenerti…».

Non lo ascolto. Sono tutta concentrata a trattenere i piedi sulla barca, ma mi sembra di avere solo aria sotto di me. Vacillo. «Tienimi Nath, tienimi!», gli dico con voce distorta.

«Se mi molli, Victoria…».

Un’altra ondata colpisce la barca. Vacillo ancora. Una sferzata di vento mi coglie alla sprovvista e mi fa andare una ciocca di capelli negli occhi. Perdo definitivamente l’equilibrio e con un urlo soffocato cado all’indietro, colpisco con i polpacci il bordo della barca e finisco nell’acqua gelida, tirandomi dietro anche Nath, imprigionato nella mia presa ferrea.

Galleggio, grazie al giubbotto di salvataggio, mentre lui va a fondo. Riemerge pochi istanti dopo. Mi raggiunge e mi cinge la vita. «Tutto okay?».

Annuisco, incapace di emettere un suono. L’acqua è un ghiacciaio.

«Maledizione!», lo sento imprecare. Forse preferirebbe che fossi morta davvero. Poi mi rendo conto, seguendo il suo sguardo, che si riferisce a una ben più catastrofica conclusione: le barche si sono allontanate di parecchio spinte dal vento e dalla pioggia battente. Lontano da qui, ma non troppo, un tuono riecheggia e la luce fulminea di una saetta illumina il cielo sopra di noi.

«Maledizione! Maledizione!», inveisce di nuovo. Questo è il momento buono per un attacco di panico. Oppure no.

«Nuota, forza!», mi incoraggia, ma invece di raggiungere le barche, mi spinge dalla parte opposta, dove si trova la riva. Mi sembra di essere in mezzo all’oceano, invece è solo un lago.

Non fa differenza. In mezzo alla tempesta è comunque un posto da non frequentare.

Impieghiamo circa cinque minuti a raggiungere il lato opposto. I cinque minuti più lunghi della mia vita, tra l’acqua gelida del lago in cui sono immersa, e quella della pioggia che mi bagna il viso e la testa.

Quando raggiungo la riva, mi sento una sopravvissuta come Tom Hanks in Cast Away. Nath ha le labbra viola. Trema. Qui si rischia l’ipotermia.

Senza dire una parola, mi afferra per una mano e mi trascina nel bosco poco distante dal lago. Percorsi una ventina di metri, fra l’erba bagnata, il manto di foglie variopinto che ricopre il terreno e giganteschi alberi di acero che sembrano moltiplicare la quantità di pioggia che cade, ci ritroviamo davanti a una casupola in legno. Abbastanza piccola, sembra quasi un rifugio. Rudimentale, ma molto ben fatta.

Nath scosta con le mani e i piedi il fogliame ammucchiato davanti alla porta della casetta. Con una spallata la apre ed entra.

«Muovi il culo, bella addormentata!», mi dice mentre osservo dal di fuori, ancora sorpresa.

«Ma… possiamo?»

«Anche se non potessimo, non me ne importerebbe». Esce di nuovo qualche istante, curvandosi per passare dalla porta molto più bassa di lui, mi afferra per una mano e mi trascina dentro, chiudendo la tempesta alle nostre spalle. «Questo posto è mio. Lo costruì mio nonno per mio padre e mio padre lo sistemò per me e mia sorella. Era il nostro rifugio da bambini».

Mi guardo intorno curiosa, mentre lui si muove nell’unica stanza con sicurezza, nonostante stia ancora tremando. C’è una stufa a legna in un angolo. La ghisa nera di cui è fatta è ricoperta da uno spesso strato di polvere e terra. Non ci sono finestre, ma feritoie orizzontali, larghe non più di dieci dita, forse per impedire agli animali di entrare.

I tronchi di legno di cui è fatta la casa sembrano vecchi di molti anni, ma ancora robusti. Le pareti sono vuote e, a parte la stufa e un piccolo armadietto di stoffa, questa stanza non contiene altro.

«Non c’è legna, non posso accendere un fuoco. La stufa non viene usata da anni: non sarebbe comunque saggio metterla in moto», mi spiega. Si dirige verso l’armadio, abbassa la cerniera e tira fuori un paio di coperte, due trapunte gemelle con un motivo patchwork e due sacchi a pelo, uno rosa, uno blu.

Nath li sistema accanto a una delle quattro pareti e si toglie il giaccone fradicio. Prosegue con il maglione, infine con la maglia finché non rimane a torso nudo.

«Che… che cosa fai?»

«Tento di sedurti, non lo vedi?»

«Stai scherzando?»

«Naturale».

Mi guarda come se fossi scema e sì, lo ammetto, sono delusa dalla sua risposta.

«Non è così che si seduce una donna. La si spoglia lentamente, la si accarezza con lo sguardo, la si ama prima con gli occhi… E poi, tutto il resto», dice. Sembra sapere bene come si fa.

«Sei un esperto».

«Stiamo davvero parlando di questo?»

«Come ti pare».

«Ti consiglio di seguire il mio esempio: spogliati o ti beccherai uno di quei malanni che non dimenticherai facilmente».

«Non ci penso nemmeno».

«Okay. Resterò a guardare mentre raggiungi lo stato di ipotermia». Lui indica qualcosa sul mio viso. «Ecco, vedo già i primi segni: le labbra viola».

Continua a spogliarsi come se nulla fosse, come se io non fossi lì, a guardarlo, ad analizzarne tutti i movimenti, ad ascoltare il suono dei jeans bagnati che cadono sul pavimento. Me lo ritrovo in boxer, di quelli larghi, a righe verticali. Non il genere che avrei immaginato per lui. Che ne so… Qualcosa alla Calvin Klein per esempio. Neri, fascianti, che mettano in evidenza glutei sodi e cosce muscolose.

Questi sono quanto di meno sexy si possa trovare in commercio, eppure…

«Attratta da qualcosa in particolare?»

«Cosa?». La sua voce e quel tono da presa in giro mi distolgono dai miei pensieri sulla sua biancheria intima.

«Mi stavi fissando il culo o sbaglio?».

Rinuncio a difendermi ancora prima di provarci. «Quella roba la indossava mio nonno».

«Tuo nonno doveva essere un uomo pratico».

«Mio nonno era un uomo anziano».

«Dovrei leggere qualcosa fra le righe? Stai cercando di dirmi che mi vesto come un vecchio?»

«Solo per quanto riguarda la biancheria intima».

Nath sorride. Il suo è un sorriso sghembo, di chi è sempre troppo sicuro di sé. Almeno è così che sembra.

«Se la visione di questi boxer ti disturba tanto…».

Soffermo lo sguardo un secondo di troppo quando, prendendomi del tutto alla sprovvista, si cala giù la biancheria con la nonchalance degna di un attore hard.

Mi volto in fretta. «Tu sei fuori di testa».

«Lo sei tu, se sei ancora lì a congelare con quegli abiti bagnati addosso».

Lo sento arrivarmi alle spalle, poco dopo. Trattengo il fiato. Se mi tocca, scappo. Lo giuro. Le sue mani si posano sulle mie spalle e io rimango lì, immobile come una statua di sale. Una nuvola sotto i piedi, le montagne russe nello stomaco.

Ma non dovevo scappare? Mi sorprendo di come quest’uomo riesca a trattenere le mie paure, ad aggirarle. Forse è perché dà l’impressione di essere così forte, pur essendo, il più delle volte, un vero zoticone.

Finora ero abituata a uomini di tutt’altro genere. Quei tipi tutti imbellettati che sembrano usciti dalla rivista «Vogue», per capirci. Uomini che dello stile hanno fatto una ragione di vita. Uomini che per il primo appuntamento ti portano a teatro o a un concerto per pianoforte e che per fargli uscire una parolaccia dalla bocca devi sparare alla loro madre. Uomini che ti portano a letto e mentre fanno l’amore con te ti dicono cose come: “Spostati… Più a destra. Così, brava… Ora tocca lì, ora qui… Aspetta… Ci sono quasi… Fatto”. Quei tipi che non spogliano mai la donna lentamente, non l’accarezzano mai con lo sguardo. Quegli uomini che ti fanno desiderare un uomo che lo faccia.

Mi volto di nuovo. Nath ha avuto il buongusto di coprirsi con una coperta.

«Avanti, Victoria, non vederci niente di sconveniente in questo, ti prego. Lo dico per te: ti ammalerai se non ti togli quella roba bagnata di dosso. Non ho desideri repressi, te lo garantisco».

«Già, il procione». Faccio un sorriso sbilenco. «A chi vuoi darla a bere, Nath?».

Lui riduce gli occhi a due fessure. «Troppo sicura di te, Letterata, troppo». Scuote la testa. «La verità è che non vorrei una come te nemmeno se mi pagassero».

«Non per andarci a letto, ma per pagare i tuoi debiti sì». Scelta di parole infelice, Victoria, molto infelice. Mi do della stupida, ma ormai il danno è fatto.

Lui serra la mascella. I pugni si chiudono sul bordo della coperta che lo tiene al caldo.

«Ti piace ricordarmelo, vero? Ti fa sentire… Come? Importante? La star della letteratura americana che ha preso a cuore le sorti di un poveraccio del Vermont. Io ci scriverei un libro se fossi in te».

«Non sono una star. Smettila di ripeterlo. Smettila di pensarlo! Mi fa infuriare».

«Ti comporti come tale».

«Solo perché sei tu a voler vedere questo. Sono una come tante».

«No, non lo sei. Se c’è una cosa di cui sono sicuro, è questa. Tu e le tue manie. Tu e il tuo impicciarti in affari che non ti riguardano. Tu e le tue fottute, strane idee. Guarda dove ci hai portato».

«Sei una bestia!».

«Forse, ma sono di certo migliore di te, che sembri tanto dolce e sotto sotto sei una vipera».

«Dovevi lasciarmi in mezzo al lago, allora». Sto urlando, ma tanto qui, in mezzo al nulla, nessuno mi sentirà.

«Forse avrei dovuto, già. Nella vita si prendono un mucchio di decisioni sbagliate».

Sta urlando anche lui. È rosso in volto. È furioso. Ricordargli che sono qui per pagare i suoi debiti deve aver fatto più male di quanto immaginassi. Perché mi sorprendo? Nath è un uomo orgoglioso, e io sono una vera idiota. A volte mi chiedo perché non penso prima di dare fiato alla bocca.

«Maledico il giorno in cui sei entrata nella mia vita, Victoria Stevenson. La più grande, enorme spina nel fianco della storia».

Mi mordo il labbro per trattenere un leggero tremore. Se anche l’idea di scusarmi mi avesse sfiorato, è passata oltre senza lasciare tracce.

«Il giorno in cui me ne andrò, io ti mancherò, Nath Owens», gli dico con sfacciata sicurezza. So che sarà così, nel bene o nel male.

«Contaci», risponde prima di mettersi a sghignazzare.

Un tuono fa tremare il pavimento, il vento ulula. Senza rendermene conto mi accuccio e mi copro le orecchie con le mani, tappandole così forte che non sento più niente. «È passato?», urlo.

Nath muove le labbra, ma non riesco a sentirlo. Infine mi si avvicina, mi stacca le mani dalle orecchie, con il rischio di far cadere la coperta e offrire di nuovo spettacolo delle sue nudità da maschione insensibile, maleducato e con i boxer più orribili sulla faccia della Terra, e dice: «Un’altra delle tue insensate paure?»

«Avere paura dei temporali non è insensato. Dei tuoni e peggio ancora dei fulmini… Sai quanta gente è rimasta colpita?»

«Secondo me tu sei una di quelle colpite e non te lo ricordi».

«Invece tu…».

«Ah ah! Stavi per dire che il fulminato sono io, vero? Pessimo. Sei una scrittrice: usa un po’ di fantasia».

«Io non…».

«No no, pessimo davvero».

«Non ho ancora…».

«E non lo farai».

«Ma perché… se…».

«Se, ma… domande, domande».

«Fammi finire una dannatissima frase!», sbotto.

Lui tace, ma ha l’espressione di uno che ha vinto l’ennesima battaglia. Lo detesto.

Si stende nel sacco a pelo sul pavimento. «Appena spiove, avvisami».

«Magari prima ti uccido nel sonno».

«Figurati. Immagino la scena. Dopo lo sgozzamento, impazziresti per tutto il sangue schizzato. Il disinfettante per le mani non basterebbe».

«Con un cuscino sul volto farei un lavoro pulito».

«Dovresti riuscire a tenerlo il cuscino sul volto. Lascia perdere, Victoria. Ogni cosa che dici suona solo ridicola».

Lui si mette comodo. Cinque minuti dopo sembra dormire sul serio. Il suo respiro è regolare, tranquillo. Io me ne sto qui a congelare e a chiedermi come mi possa piacere un tipo simile, perché, nonostante tutto, Nath Owens mi piace. E credo che mi piaccia più di prima.

Stimola ogni mio senso. Nath è l’assassino della mia apatia. Con lui è solo una scarica di adrenalina continua. Nessuno mi fa infuriare come lui. Adoro questa cosa, perché mi fa sentire viva. Viva davvero. Un applauso per la mia incoerenza.

Smette di piovere circa un’ora dopo. Non lo so per certo, dato che il mio orologio digitale da polso non dà più segni di vita, ma non sembra passato tanto da quando questa specie di incubo è iniziato.

In fondo era solo un temporale, non l’apocalisse.

Nath dorme. Ancora. Come faccia non lo so. Nel frattempo ho seguito il suo consiglio e ora mi ritrovo nuda come un verme, avvolta in una coperta sorprendentemente calda, e infilata a mo’ di salsiccia nel sacco a pelo rosa. Vicino al suo. Il temporale ha smorzato il mio coraggio. Non sono riuscita a restare in disparte, lontana da lui.

Devo ammettere che non è una sensazione spiacevole.

Dovrei svegliarlo, ma non è che abbia molta voglia di riprendere a litigare, perché sono certa che è questo che succederà. Tornerà a rinfacciarmi il fatto di essere finiti in questa assurda situazione, di essere la sua spina nel fianco, invadente, stramba, di rovinargli la vita, di fare la star e di essere la causa della fame nel mondo, magari.

Volto il capo a guardarlo. Mi dà le spalle. Un braccio fuori dal sacco a pelo. Scoperto. Forse avrà freddo.

Non me ne importa. Si congeli pure. Torno a fissare il soffitto di legno.

Un minuto dopo, sono di nuovo lì a fissarlo. Non ce la faccio. È più forte di me. Quando mi prende, la sindrome da crocerossina non lascia scampo. Tiro fuori un braccio, lo allungo verso il suo e come se stessi maneggiando una mina antiuomo, afferro, con la punta dell’indice e del pollice, il minuscolo pezzo di coperta che sbuca dal sacco a pelo.

Tiro piano, molto piano. Serro gli occhi e i denti come se aspettassi un’esplosione. Arriva quando, d’un tratto, una mano afferra la mia con forza. La sua mano. Calda. Non sta affatto congelando. Stupida io.

Non si è ancora voltato, ma lo sento sorridere. Immagino la sua faccia da schiaffi con il solito ghigno.

Non sbaglio. Quando si volta a guardarmi, infatti, è lì, in bella mostra sulle sue labbra.

«Frughi di nuovo?», dice. Ha l’aria disordinata come sempre. I capelli scarmigliati, la barba troppo incolta. Il personaggio dannato, ecco chi è lui. Quello che non perdona mai e per cui si perde sempre la testa. Un classico, insomma. Odio il classico in un romanzo. Ma questo non lo odio proprio per niente. Questo non è un romanzo.

Arrossisco come una ragazzina. Non che mi riesca difficile.

Continua a tenermi la mano. Si appoggia su un gomito e si allunga verso di me.

«Hai tolto gli abiti bagnati. Brava ragazza». Si avvicina ancora di più. La cerniera del suo sacco a pelo si tende e scende giù, scoprendo parte delle sue spalle tese. Mi fissa senza dire altro ed ecco che la mia fantasia iperattiva riparte a immaginare scenari romanzeschi.

Nath, o meglio, il Nath nella mia testa, tende la mano verso la cerniera del mio sacco a pelo, la sfiora. Con movimenti lenti la abbassa. La coperta ancora mi avvolge. Lui sfiora anche quella, dove la stoffa è tesa dalle mie forme. Il seno, i fianchi, la curva delle ginocchia. Allontana la mano per qualche secondo, solo per aprire definitivamente la cerniera del suo sacco a pelo. Si solleva in piedi, lasciando la coperta sul pavimento. Seguo con lo sguardo ogni centimetro del suo corpo. Il corpo di un uomo forte, dedito al lavoro. I suoi non sono muscoli di plastica, di quelli tipici da palestra, sono di quelli che se avvolgono una donna, la tengono al caldo, al sicuro, e la fanno sentire come a casa.

Mi tende la mano. Io l’afferro. Con un piccolo slancio mi solleva e mi attira verso di sé. I nostri corpi si toccano. La pelle sembra bruciare. Mi scosta una ciocca di capelli dal viso, passa le dita sul collo, segue la linea delle spalle, percorre le braccia. I suoi occhi sono lucidi. Appoggia il capo nell’incavo del mio collo e mi costringe, dolcemente, a fare lo stesso con il mio.

Mi sta abbracciando. Le sue labbra fanno avanti e indietro sulla mia spalla. Le mani disegnano cerchi sulla schiena, scendono giù, mi accarezzano i fianchi e infine mi tocca. Mi tocca davvero. Mi tocca fino in fondo. Mi tocca come nessuno ha mai fatto. E mi abbandono completamente a lui.

Il Nath fuori dalla mia testa mi riporta alla realtà allontanandosi e grattandosi senza pudore. Incrocia le braccia dietro la testa e se ne esce con: «Hai un piccolo livido sul fianco destro, proprio all’altezza dell’inguine. Qualche spigolo?».

Aggrotto la fronte. Solo pochi secondi dopo mi rendo conto di cosa implicano le sue parole.

«Mi hai spiata?», domando prima, con un filo di voce. «Mi hai spiata!», esclamo infine.

Sorride beato, stiracchiandosi, mentre cerco di riprendermi dall’imbarazzo.

«Se una donna si spoglia e io sono nella stessa stanza, credimi, la guarderò. Ho potuto ammirare i tuoi crateri lunari», dice.

«Crateri lunari? Non credo di capire».

«La tua cellulite».

Spalanco la bocca. Questa è…

«Per essere così magra, hai un bel culo svizzero. Se non hai capito nemmeno questa, intendo come il formaggio».

«Hai paragonato il mio sedere al formaggio svizzero?»

«E alla Luna».

Il bastardo mi fa l’occhietto. Eri meglio, molto meglio nella mia testa, Nath Owens.

Troppo imbarazzata e offesa persino per riuscire a mandarlo al diavolo, mi libero del sacco a pelo e con gesti goffi e insicuri, tento di tenermi su la coperta. Recupero vestiti e scarpe messi ad asciugare sul pavimento, ma ancora completamente bagnati, e faccio per uscire.

«Dove vai? Ti rivesti fuori? Ormai ho visto tutto quello che c’era da vedere. Resta pure».

Ride di nuovo. Questa è la volta buona che lo uccido sul serio, se non fosse bastato l’accenno al culo svizzero.

Taccio ancora. Le uniche parole che mi premono sulla punta della lingua sono irripetibili.

«Victoria?». Si alza in piedi avvolto dalla coperta. «Stavo scherzando, avanti. Okay, non hai il culo svizzero, non troppo, almeno. L’ho detto per farti arrabbiare».

«Ci sei riuscito».

«Ma che vi prende a voi donne quando si toccano certi argomenti? Scommetto che se ti avessi detto che sei una pessima scrittrice non te la saresti presa in questo modo».

«Provaci! E comunque prima di dire una cosa del genere, dovresti leggerlo un mio libro. Ammesso che tu sappia leggere, zotico ignorante e guardone».

«Questa era pesante come offesa, soprattutto per uno laureato con il massino dei voti».

«Questo non fa di te un uomo intelligente. Ora, se vuoi scusarmi…». Una ventata di aria fredda mi investe quando apro la porta, ma non desisto e sono già con un piede fuori dall’uscio quando, di nuovo, la mano di Nath afferra la mia.

«Aspetta, testarda. Esco io, va bene?».

Mi libero dalla sua presa con uno strattone. «Mi fai un favore. E capisco perché quella Faith, chiunque fosse, se ne sia andata, perché se n’è andata, vero? Ti ha lasciato perché sei un uomo insopportabile, impossibile! E ti rode ancora».

Potrei raggiungere l’apice della vergogna se ora mi dovesse dire che è… non so, morta?

«Sì, mi ha lasciato, Stevenson, e questa te la potevi risparmiare. Infantile, direi».

Infantile è tutto questo discorso, ma sono tesa, probabilmente stressata da troppe emozioni, troppe fantasie su un uomo che non sopporto, ma che ho scoperto di volere, invece.

Una giornata indimenticabile questa. Sul serio. Nella classifica delle giornate da ricordare, questa le batte tutte, persino quella in cui mi è stato detto che avrebbero pubblicato il mio primo romanzo.

Quella volta, dopo l’iniziale incredulità durata appena un paio di giorni, è subentrata la mia solita razionalità, il voler restare a tutti i costi con i piedi per terra. Le delusioni, in questo modo, si evitano molto più facilmente. Nonostante ciò, la ricordo come una giornata davvero memorabile. Credo di averla segnata in rosso sull’agenda di qualche anno fa e di averci fatto dei cuori intorno.

Ma questa… questa giornata è stata un vero delirio. Il tuffo imprevisto nel lago, il temporale, Nath nudo. Sarebbe bastato solo quest’ultimo dettaglio a renderla leggendaria. Almeno per me, una stupida, incoerente romantica con il vizio di vedere scene d’amore dove ci sono solo contadini che invece di tutto il resto – per altro apprezzabile – notano il culo svizzero. Per la cronaca, non è messo così male.

E pensare che era partita benissimo. Sembrava sarebbe stata la giornata della tregua, quella delle scoperte sensazionali. Soprattutto quella che riguarda Ragazza Stupida che si rende conto di essersi presa una cotta per Ragazzone Buzzurro.

Forse è solo colpa degli ormoni, non lo so. Si sa, alle volte impazziscono. Non mi succedeva da così tanto tempo di provare questo genere di sensazioni. Certo, a me succede sempre con la persona sbagliata. Eppure sono così belle che fai fatica a liberartene. Non le vuoi lasciare andare e permetti loro di renderti una vera idiota.

Una. Vera. Idiota.

E così ti capita di finire al largo di un lago, spogliarti in una casupola di legno in mezzo al bosco con un tipo senza tatto che dorme in un sacco a pelo blu, e pare, poi, che quel tizio senza tatto ti piaccia pure.

Ditemi: questa può essere classificata come stranezza o sono nella media?

Abbiamo camminato, forse, per oltre tre miglia, percorrendo la striscia di bosco che affianca il lago, fino a giungere a casa. Siamo entrambi come usciti da una lotta nel fango. Ancora bagnati, con le scarpe e i pantaloni imbrattati di terra, i capelli appiccicati al volto. Nath non mi ha rivolto la parola per tutto il tragitto. Sul portico si è limitato a dire: «Ti lascio il bagno, io mi cambio e vado a recuperare le barche. Non so bene a che ora rientrerò. Probabilmente, dopo, passerò per i campi per controllare che non ci siano danni alle colture».

Le frasi sottintese erano: “Se quando rientro non ti trovo, mi fai un favore”. Perlomeno è quello che voglio credere.

Nel bagno trovo un disastro. Il pavimento è bagnato, nella vasca c’è ancora dell’acqua, i vestiti di Nath sono ammucchiati in un angolo dietro la porta, e il mio bagnoschiuma all’olio di Argan è aperto.

Sospiro e scuoto il capo. Nath è un bambino troppo cresciuto e ha bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui.

Ripulisco il bagno come meglio posso e finalmente mi concedo una doccia calda. Indosso un maglione bordeaux a collo alto e un paio di pantaloni di velluto beige. Infine mi siedo sul letto con le mani sulle ginocchia e penso.

Penso.

Penso.

Giungo così a una conclusione: devo andarmene. Per un po’, solo per un po’. In fondo era previsto che lo facessi per Natale. Sto solo anticipando di qualche giorno per dargli lo spazio che gli ho tolto. E forse per dare la possibilità a entrambi di digerire questa giornata.

Non ho motivo di aspettare.