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Inspirai bruscamente e spalancai gli occhi su un soffitto di legno scuro. Il campo visivo esterno sfarfallava.
Era solo un sogno. Era solo un sogno.
La momentanea sensazione di pace evaporò in fretta alla vista di quel soffitto sconosciuto e subito mi irrigidii nel rendermi conto di non riconoscere il luogo in cui ero.
La stanza era buia e aveva un odore diverso da tutto ciò che conoscevo. Mmm? Forse cuoio o un olio di qualche tipo?
Guardando alla mia destra con le palpebre appena socchiuse, notai un uomo in piedi accanto a un grosso tavolo. Aveva lunghi capelli scuri e stava prendendo strumenti o pillole da una borsa nera. Mi dava le spalle e aveva un disegno sul retro della sua veste di pelle. Per diversi secondi faticai a riconoscere l’immagine impressa ma, non appena lo feci, mi sentii sprofondare: Satana!
Controllai il respiro, sforzandomi di mantenere la calma, cercando di rimettere a fuoco la mente confusa. Gioii del fatto che non si fosse accorto che ero sveglia, un piccolo dono del cielo, poi però si girò, rivelando una corta barba bruna.
Un discepolo?
Avevo la mente confusa e annebbiata mentre cercavo di ricordare perché mi trovassi in un posto tanto strano. Era il giorno del mio ventitreesimo compleanno, il giorno del mio matrimonio con il Profeta David ma era successo qualcosa che mi aveva indotta a scappare. Il cuore nel petto pompava il sangue in rapide spumeggianti, le correnti mi bruciavano la pelle. Cos’era? Cosa avevo visto? Una grata, un corpo, mia… No!
Bella!
Bella in quella prigione morente in cella. Picchiata, insanguinata, dimenticata. Mi aveva ingiunto di scappare poco prima che esalasse il suo ultimo respiro. Non avevo potuto salvarla. Ero scappata, ma non riuscivo a ricordare altro. Ansimai e cercai di muovere la mano, ma avevo qualcosa infilzato nella carne.
Cominciai a tamburellare nervosamente con le dita. Non riuscivo a ricordare cosa mi fosse successo, cosa mi avesse portato in quel letto, incosciente, ma sapevo che dovevo andarmene, fuggire da quel luogo.
Cominciai a contare. Uno… due… tre… quattro… cinque… e ad avvicinare le dita alle lenzuola che mi ricoprivano il corpo. Indossavo una specie di tunica. Sei… sette… otto… nove… Inspirai a fondo.
Arrivata finalmente a dieci, mi tirai lentamente su, braccia e gambe pesantissime. Portai le gambe fuori dal letto e mi strinsi la veste addosso per celare le mie grazie e, quando appoggiai i piedi a terra, un dolore lancinante mi trafisse il polpaccio sinistro.
Lo sconosciuto si girò di scatto; il mio movimento improvviso lo aveva chiaramente scioccato. Lasciò qualsiasi cosa avesse in mano e si avvicinò, a palmi aperti, con un evidente stupore sul viso. Passai rapidamente in rassegna la stanza: una grossa cassettiera di legno, un’unica poltrona di pelle nera, pareti nere, lavatoio, letto.
Mi sentii pungere, così abbassai gli occhi sul dorso della mano dove vidi un cavo risalire verso una strana busta chiara appesa alla testata del letto.
Tirai via l’ago e strillai, lacerandomi la carne, quando un fiotto di sangue mi colò lungo il braccio.
«Cazzo, no! Aspetta. Calmati. Va tutto bene.» L’uomo cercò di tranquillizzarmi con la sua voce profonda.
Non lo riconobbi come uno della comune, ma era un discepolo, non avevo dubbi. Quindi significava che dovevo andar via. Capii che Gabriel doveva avermi rintracciato, alla fine. Era quest’uomo ad avermi catturato. Stavo per essere punita.
Studiai la stanza e individuai una porta dietro di me, a sinistra. Un’uscita. L’uomo avanzò di due passi, le sue parole furono più lente e chiare, stavolta.
«Ti prego. Non ti farò del male.»
Inclinai il capo da una parte. Era gentile, delicato quasi, ma sapevo che doveva essere un trucco, uno stratagemma malvagio. Si passò le mani tra i capelli e arrotolò le maniche della camicia nera, scoprendo avambracci modellati.
Barcollai all’indietro, andando a sbattere contro il muro. Le sue braccia. Sulle braccia aveva l’immagine del diavolo. Lo fissai. Non riuscivo a smettere di guardarlo mentre la paura mi paralizzava completamente. Abbassò gli occhi per capire cosa mi avesse spaventato così tanto.
I suoi luminosi occhi bruni si spalancarono, quando li riportò nei miei. «No! Cazzo, non è quello che pensi. Non aver paura di me.»
Gli insegnamenti di una vita mi misero in allarme il cervello: Il male si apposta nell’ombra. Il male ti prenderà. Il male distruggerà la tua vera anima.
Tentai di raggiungere la porta, ma sentii i piedi pesanti. Troppo stanchi per funzionare. La gamba sinistra sembrava in fiamme. In un modo o nell’altro, però, proseguii, sfruttando il fatto che l’uomo fosse dall’altra parte dell’enorme letto.
«No! Aspetta! Ah, merda!»
Non obbedii. Andai avanti. Strinsi la maniglia e varcai la soglia con passi incerti, sbattendomela alle spalle. Il tortuoso percorso di un corridoio buio e angusto mi fece da guida e continuai giù per delle scale, appoggiandomi alla parete per restare in piedi.
Udii gente in fondo al corridoio e mi voltai proprio quando l’uomo si lanciò fuori dalla stanza, gridandomi di fermarmi. Sembrava riempire tutta la soglia con la sua imponente figura. Era determinato, adesso, e mi fece paura. Il modo in cui mi inseguiva mi turbava profondamente.
Cercai di correre più velocemente, ma il polpaccio ferito protestava a ogni passo.
Una grossa porta d’acciaio mi separava dalle voci delle persone – persone che forse potevano aiutarmi o forse no. Non lo sapevo, ma non avevo scelta. Spinsi giù la lunga maniglia con tutta la forza che avevo e barcollai, rovinando a terra. Le gambe alla fine avevano ceduto, la visione si era offuscata ed ero caduta per colpa di un intenso capogiro.
Lentamente guardai in su, la stanza sembrava inclinata di lato. Diversi occhi mi fissavano mentre ero lì, accasciata in mezzo al pavimento; tutti cominciarono a farmisi intorno. Una gran quantità di gente. Sconosciuti. Terrificanti. Sembravano vorticarmi intorno. Volevo gridare. Soffocai un singhiozzo. Forse gli insegnamenti erano veri. Forse ero davvero all’inferno, dopotutto.
Le pareti della grande sala erano perlopiù nere, ma decorate con immagini su immagini di Satana nell’aldilà: gironi infernali, sangue, demoni, creature malvage e fiumi scuri che trasportavano anime perdute. Soffocai il grido con la mano, quando mi resi conto che il Profeta David aveva ragione: fuori dall’Ordine c’era davvero il male. Io avrei potuto esserne protetta, invece ero scappata.
Scrutai nelle immediate vicinanze e il capogiro aumentò. Donne perdute scarsamente abbigliate dominavano la stanza. Uomini rozzi, dai lunghi capelli incolti, erano vestiti di pelle e toccavano le donne in punti molto intimi. Le donne sollecitavano tali atti provocatori, perfino mentre guardavano me con un lampo divertito negli occhi e mi atterrivano con i loro sguardi. Uomini e donne indifferentemente mi rivolgevano sorrisetti, alcuni quasi gentili, altri soffusi di palese desiderio.
Un peccato mortale.
La porta alle mie spalle sbatté contro la parete e mi immobilizzai – il cervo impaurito circondato dal branco di leoni. Fui percorsa da brividi, quando sentii avvicinarsi l’uomo della camera da letto.
Sussultai a un sonoro stridore. Il rumore di una sedia strusciata lentamente sul pavimento di legno superò la folla. Diverse teste si girarono in quella direzione.
«Baby, dove stai andando?» chiese una dolce voce di donna dall’altra parte della sala. La folla si aprì, ma nessuno rispose alla sua domanda.
Trattenendo il fiato, aspettai di capire chi si sarebbe rivelato. Poi un uomo alto e imponente fendette il muro di persone, dirigendosi verso di me. Il suo sguardo duro si fermò nel mio e non riuscii a staccarmi dai grandi occhi castani di quell’uomo dalle guance ruvide di barba e dai disordinati capelli scuri che torreggiava su di me. Non osavo nemmeno respirare.
Nonostante sembrasse Satana in persona, era semplicemente l’uomo più bello che avessi mai visto. La bellezza più grezza e autoritaria che avessi mai incontrato.
Trascinandomi all’indietro, urtai le gambe dell’uomo della camera da letto che, abbassandosi in ginocchio, mi sostenne. L’uomo con gli occhi castani, però, continuò ad avvicinarsi, fermandosi solo quando fu a due passi di distanza.
Poi si accovacciò e mi guardò in ogni parte del viso, dilatò le narici e inalò lunghi respiri. Socchiuse appena le labbra, espirando, e, dietro di lui, qualcuno tossì. Distratto, i suoi occhi scattarono di lato e via dal mio sguardo. Mi portai una mano sulla testa che martellava. Era troppo e non riuscivo a restare lucida. Il cuore mi batteva contro le costole e una paura vera prese il controllo del corpo. Mi imposi di smettere di tremare, ma quello sembrò alimentare ulteriormente la mia ansia.
Quando lui schioccò le dita, qualcuno si avvicinò e sussultai. L’uomo con i grandi occhi castani cominciò ad agitare le mani in movimenti controllati eppure non familiari. Poi qualcuno ordinò. «Va’ da lui.»
Cosa? Cosa stava succedendo?
Allungai il collo per seguire quella voce e vidi avanzare un uomo con capelli biondi lunghi sulle spalle. «Calmati. Sei al sicuro» mi rassicurò dolcemente. Aveva occhi gentili ed era molto bello. Ma così era anche il diavolo, ricordai a me stessa.
L’uomo dai capelli scuri si avvicinò di nuovo, ora a pochi centimetri dal mio petto. Perfino in quella condizione di debolezza, il suo profumo mi tese qualcosa nello stomaco: era inebriante, pericoloso ma inebriante.
Sollevai uno sguardo titubante nel suo e le sue mani presero a muoversi ancora una volta.
«Non c’è niente di cui aver paura. Nessuno ti farà del male. Hai la mia parola» assicurò l’uomo biondo, continuando a guardare le mani dell’amico.
Sembrava stesse traducendo.
Avrei voluto urlare per la confusione. Non capivo niente di cosa stesse succedendo, non capivo dove fossi, con chi fossi e perché l’uomo davanti a me non parlasse. In un lampo, ricordai improvvisamente il ragazzino che avevo incontrato alla recinzione quando avevo otto anni. Anche lui parlava con le mani. Forse fuori c’erano persone che parlavano con le mani? Mi strofinai il viso e strinsi forte gli occhi. Stavo delirando, la mia mente si attardava in pensieri stupidi e vacui.
«Styx, amico, che diavolo? Chi cazzo è questa sgualdrina? Perché è terrorizzata?»
Il mio sguardo fu attirato da un uomo con lunghi capelli neri e dritti che gli arrivavano a metà schiena. I suoi tratti somatici erano diversi dai miei, la sua struttura così, così grande. Era largo quasi quanto era alto. La pelle era di un color caramello scuro, gli occhi quasi neri, la bocca piena. Aveva strani segni neri su tutto il viso. Un enorme tatuaggio di linee e contorti simboli neri.
«Bull, non rompere i coglioni, adesso» sbottò il biondo, ma Bull si era rivolto all’uomo con i capelli neri. L’uomo con gli occhi castani che avevo davanti si chiamava “Stige” come il fiume infernale?
Styx mi si avvicinò ancora di più, glielo permisi. Che altra scelta avevo? Non ero estranea a uomini che si prendevano da me ciò che volevano. Avevo imparato fin dalle primissime fasi della vita che si fa letteralmente di tutto per sopravvivere.
Mettendosi una mano sul petto, la spostò verso il cuore; l’uomo biondo lo fiancheggiò. «Io mi chiamo Ky. Lui è Styx. Ti ha trovato dietro i cassonetti qualche giorno fa, sanguinavi. Stavi morendo. Ricordi?»
Qualche giorno fa! Mi guardai la gamba ora fasciata. Sentivo tirare la pelle ferita e il dolore era nauseante, quando mi muovevo.
Cani da guardia. Certo, mi aveva morso uno dei cani da guardia. Il cane di Gabriel mi aveva dilaniato la gamba sinistra, quando avevo provato a fuggire. Ero rimasta incosciente per giorni?
«Questa è una clubhouse di motociclisti. Gli Hangmen.» Ky fece un gesto verso la sala.
Aggrottai la fronte. Il suo viso rispecchiò la mia stessa espressione. «Sai cos’è una moto, vero? Una motocicletta?»
M-o-t-o-c-i-c-l-e-t-t-a. Mi ripetei la parola nella testa, ma non mi era familiare. Qualcuno in fondo scoppiò a ridere, una risata di scherno. Styx girò la testa lentamente e fulminò con lo sguardo chi mi aveva deriso; la risata si bloccò all’istante. In quel momento, ebbi paura di lui. La sua espressione era intensa, severa, i lineamenti oscuri e spigolosi, duri, d’acciaio. Mentre smaniavo sul posto, in evidente disagio, il suo sguardo si fermò ancora una volta nel mio. Le sue mani si mossero. «Nessuno ride di te, okay?» Ky verbalizzò il messaggio con la dovuta enfasi.
Per qualche motivo, mi rilassai nel sentire quel voto di protezione di Styx. Ky si schiarì la gola e proseguì. «Una moto è una cosa su cui sali, su cui ti sposti. Sai cos’è una macchina?»
Annuii con la testa. Le narici di Styx fremettero, il labbro ebbe uno spasmo.
«È come una macchina, ma con due ruote invece di quattro» spiegò Ky.
C’era un silenzio di tomba mentre cercavo di immaginare una macchina del genere. Mi girai e guardai ogni persona negli occhi. Erano tutti così differenti tra loro, mi sentivo in un altro mondo, molto diverso da quello che avevo conosciuto per tutta la vita. Era un mondo più oscuro, peccaminoso. Presunsi di essere anch’io nel peccato, ormai. Non avevo più la grande rete a proteggermi da quelli di fuori.
Una donna bionda e carina si fece avanti sorridendo. Mi salutò con un gesto, poi si fermò accanto a un tipo enorme e pelato e lo prese per mano. Quell’uomo mi destabilizzava tremendamente. Sfoggiava più tatuaggi sulla pelle rispetto a chiunque altro; perfino il collo e la testa erano ricoperti di intricate immagini colorate. Era minaccioso; la donna, al contrario, sembrava gentile. Mi ricordava un po’ Delilah.
Sussultai e quasi gridai.
Lilah… Maddie!
«Ascoltami.» Guardai di nuovo Styx e le sue mani ripresero la loro danza contorta. Ky dava voce ai comandi. Il significato di ciò che avevo fatto cominciò a penetrare le barriere della mia mente. In tutta risposta, braccia e gambe cominciarono a tremare.
«Ti ricordi di me?» disse Ky, indicando Styx.
Mi ricordavo di Styx? Che strana domanda, pensai attraverso la fitta nebbia nella mia mente.
Mentre guardavo in quei grandi occhi castani, Styx mi parve improvvisamente nervoso. Interruppe il contatto visivo e si guardò ansiosamente intorno. La gente cominciava a mormorare e lo guardava, perplessa. Una donna con lunghi capelli bruni si avvicinò e gli mise una mano sulla spalla ma lui, senza neanche guardarsi indietro, si scrollò di dosso quel gesto di conforto. Il suo bel viso si spense e abbassò lo sguardo a terra.
Le mani di Styx si mossero di nuovo, stavolta più rapide, ma anche più intense.
«Ti ricordi?» insistette Ky.
Non riuscivo però a distogliere lo sguardo dalla donna dietro Styx, né lei da me. Riuscivo a capire dal modo in cui indugiava intorno a lui che voleva appartenergli. Era lo stesso modo in cui reagiva Sorella Eve quando era insieme al Profeta David: con un desiderio non ricambiato.
Era innamorata di Styx.
«Guardami!» scattò Ky, impaziente, dando voce a Styx. «Ti ricordi di me?» Styx si puntava il dito contro il petto.
Lo osservai più attentamente. Era perfino più grande di quanto avessi realizzato all’inizio: collo e spalle erano ampi e forti, le grosse braccia sbucavano dalle maniche della maglietta nera. Ma quegli occhi verdi con schegge brune disseminate ai bordi… bellissimi. Gli occhi di Styx mi ricordavano la foresta, i colori dell’autunno e delle foglie che cadevano. Lo osservai deglutire sotto il mio scrutinio, il pomo d’Adamo si muoveva su e giù mentre mi fissava.
Ky sospirò di disappunto, rompendo il momento e accovacciandosi accanto all’uomo per sussurrargli: «Styx, amico, non è lei. È spaventata a morte. Ed era comunque una possibilità remota. Non è quella sgualdrina che hai visto e baciato attraverso la rete tanti anni fa. È ora di lasciare andare quella stronzata.»
Rete? Baciato? No, aspetta? Era lui? Impossibile.
Styx mormorò e abbassò il capo, le spalle gli cedettero per la delusione.
Mi passai un dito sulle labbra. Quello strano ragazzino. Quel bacio.
C’era un ragazzino premuto contro la rete, che agitava freneticamente le mani. Non sapevo cosa stesse facendo. Avvicinandomi, lo guardai riprovare di nuovo. Sospirando, chiuse gli occhi, fece un profondo respiro e chiese: «C-c-chi sei?» Non riusciva a parlare a dovere. Le parole faticavano a uscirgli di bocca.
Inclinai il capo, osservandolo in silenzio. Chi sei?, mi chiese. Chi sono?, pensai stancamente. Sono Salomè, nata tentatrice, una Maledetta.
Ero appena stata iniziata al mio dovere, al mio servizio per la causa. Mi era stato mostrato come aiutare gli anziani ad avvicinarsi a Dio, a liberarmi dal peccato di nascita. Mi ero dovuta allontanare per un po’. Mi avevano fatto male.
Non parlai al ragazzino dall’altra parte della recinzione. Mi era proibito parlare, quindi mi limitai a fissarlo, escludendo i recentissimi avvenimenti di quel giorno. Non sapevo come ci avesse trovato, perché fosse lì. In quel momento, però, non mi importava.
Era vestito in modo strano: tutti indumenti neri, strani braccialetti di metallo ai polsi. Era pericoloso, con capelli scuri e grandi occhi castani, il più bello tra i colori dell’autunno.
«C-c-che p-p-posto è q-q-questo? T-t-tu… v-v-vivi q-q-qui?» domandò il ragazzino con dolcezza.
I miei occhi scivolarono giù sulle sue labbra, ma non parlai. Nessuno doveva sapere dell’Ordine, per la nostra protezione. Non ci era permesso parlare con i maschi. Era proibito, era peccato e questo qui era uno di fuori, uno di loro.
«Pe…pe… per favore… C-c-come ti c-c-chiami?»
«Mi chiamo Sin. Siamo tutte peccato.»
Annaspai sonoramente. Styx era quel ragazzino? No!
Passai gli occhi sullo strano abbigliamento nero e i braccialetti argentati ai polsi, quei braccialetti di metallo in cui era impresso lo stesso strano emblema. Ricordavo quel giorno come fosse ieri. Si era preoccupato di me, aveva voluto sapere il mio nome, mi aveva baciato. Poi non l’avevo più visto. Ero tornata spesso in quel punto della recinzione nella speranza di vederlo ancora una volta – soprattutto dopo quei giorni – ma non era più tornato. Non ero mai stata baciata prima, e non sarebbe successo più. Era il mio unico segreto, il mio peccato più grande. Era diventato quasi un sogno per me.
Sollevai una mano tremante e gliela posai con dolcezza sulla guancia. Styx trattenne il fiato e mi guardò negli occhi. Mi trascinai più vicino, solo per essere sicura che fosse veramente lui. Le sue labbra si schiusero in un piccolo respiro spezzato.
Soffocando un singhiozzo, strabuzzai gli occhi e barcollai all’indietro, mentre il riconoscimento mi scuoteva la coscienza. La certezza circa la sua identità mi scosse nel profondo e liberò sentimenti che non avevo mai conosciuto.
È lui. Il mio River. Mi ha trovato di nuovo.
Styx mi afferrò per le braccia e continuò a fissarmi, solo… fissarmi.
«Conosci Styx?» volle sapere Ky.
Le dita di Styx mi stringevano le braccia, come a spronarmi a parlare.
Abbassai la mano, giocherellai con le dita e feci sì con la testa una sola volta.
Styx chiuse gli occhi, mi liberò dalla presa, mosse le mani e Ky chiese. «Dove ci siamo incontrati? Dimmi dove solo per essere sicuro che sei tu.»
Volevo parlare, ma ero troppo nervosa e non sapevo se potevo fidarmi di quella gente. Troppi sconosciuti mi stringevano in un cerchio claustrofobico e mi sentivo in trappola.
Pensando a un altro modo per dimostrare la mia identità, presi lentamente le mani di Styx e le portai in su per ricreare la posizione in cui erano sulla rete. Poi agganciai l’indice al suo, come aveva fatto lui con me tanti anni prima. Vidi dalla sua espressione basita che aveva capito. Con questa comprensione, roteò gli occhi e si passò rudemente una mano tra i capelli. Shock e incredulità erano chiaramente impressi sul suo viso.
Ky mi rivolse un’occhiata bizzarra, poi dichiarò: «Non… non posso crederci. Sei davvero tu? Cazzo!» Sconcertato, fissava Styx, che doveva ancora distogliere lo sguardo dal mio. «Cazzo! È quella cazzo di pellegrina!»
«Che cazzo sta succedendo? Chi è? Perché voi due fate tante storie per un pezzo di fica?» intervenne un uomo con i capelli rosso fuoco, mentre veniva avanti, accarezzandosi la lunga barbetta da capra.
Styx indurì il viso. Mi tirò accanto a sé, stringendomi con un braccio. Sussultai per il dolore che palpitava nel mio polpaccio. Le sue dita si mossero in fretta.
«Off-limits. Avete capito tutti? È sotto la mia protezione e non sono cazzi di nessuno. Se uno di voi si avvicina a lei, lo ammazzo. È una promessa» tradusse Ky.
Sussultai nel sentire quelle parole violente, per il tono aggressivo. Gli uomini presenti corrugarono la fronte e mi valutarono con gli occhi stretti, poi, scioccati, guardarono Styx a bocca aperta.
«Chi è, Styx? Come la conosci?» La stessa voce femminile di prima interruppe il borbottio degli uomini. La donna dai capelli bruni affrontò Styx, gli occhi titubanti valutavano l’umore della folla.
Con un gesto della mano e della testa, Styx le impedì di avvicinarsi ancora. Sul suo viso c’era di nuovo uno sguardo duro e severo.
«Styx» sussurrò, a pezzi.
Facendo un passo avanti, Styx cominciò ad agitare le mani. La donna chiaramente comprese quei suoi strani gesti. Gli occhi le si riempirono di lacrime, voltò le spalle e si allontanò in tutta fretta.
Styx mi prese per mano e si avviò lungo il corridoio, indicando qualcuno con la mano libera. «Beauty!» gridò Ky.
Con uno sguardo alle mie spalle, notai che gli uomini e le donne erano come impietriti sul posto. Ci guardarono andar via, affascinati e perplessi. Anche la donna dai capelli bruni ci osservava dal fondo della stanza con uno sguardo devastato e tormentato sul viso. Le lacrime ora le scorrevano lungo le guance.
Rientrammo nella stanza dove mi ero svegliata poco prima. Styx mi guidò verso il letto, spingendomi sulle spalle per farmi sedere. Dopo di noi entrò dalla porta la graziosa donna bionda. Styx rivolse l’attenzione su di lei, dicendole qualcosa con le mani.
«Sono nella stanza di Tank. Vado a prenderli. Te li lascio fuori dalla porta» rispose la bionda. Si girò e lasciò la stanza.
Eravamo soli.
Styx spostò la poltrona di pelle accanto al letto, poi sedette e mi fissò. I suoi grandi occhi castani controllavano ogni centimetro di me e, in risposta, il mio corpo cominciò a tremare. Non disse una parola, ma quegli occhi castani non si staccarono mai dai miei. Il silenzio nella stanza sembrava stranamente assordante.
Cercando una distrazione da quello sguardo intenso, girai la testa per ammirare il grande quadro che dominava la sua parete. Era la figura di una enorme macchina a due ruote. Sorrisi quando il concetto si sedimentò. Deve essere una motocicletta.
Mi alzai e andai verso il dipinto, passando le dita sulla sua cornice. Con una breve occhiata a Styx, scoprii che mi stava ancora guardando, la sua enorme sagoma ora protesa in avanti e assorta, i gomiti sulle ginocchia. Con un sorriso indicai la figura, allora si alzò e mi venne accanto. Con un cenno del capo, indicò di aver capito cosa stessi chiedendo.
Gli rivolsi un altro piccolo sorriso e tornai a sedere sul bordo del letto, sentendomi improvvisamente molto stanca. Styx seguiva ogni mia mossa. Il Profeta David ci aveva insegnato che desiderare cose materiali era peccato, ma mi piaceva il viso di Styx quando guardava l’immagine della motocicletta. Sembrava renderlo felice.
Mi stropicciai gli occhi stanchi, sentendomi prosciugata e vuota. Ero cosciente che avrei dovuto affrontare presto gli eventi recenti. Non sarei riuscita a bloccarli per sempre.
Styx si spostò verso la poltrona, sedendosi di nuovo davanti a me, come se percepisse il mio sgomento. Inclinò il capo, chiedendomi in silenzio cosa non andasse.
Non potevo più evadere dalla mia realtà. Una parte di me avrebbe anche potuto fingere che quello fosse solo un orribile incubo, ancora di più ora che mi ritrovavo seduta in quella stanza scura con Styx. Tuttavia, flashback di Bella immobile, distesa e massacrata sul pavimento di quella cella, mi pugnalavano incessantemente la coscienza, penetrando le mura emotive. Scossi il capo in continuazione, cercando di scacciare dalla mente quelle orribili immagini. Le punizioni severe erano comuni tra la mia gente, una necessità per prevenire che altri deviassero dalla via della rettitudine. Bella, però, era mia sorella, non avrebbe potuto amare Gabriel e quella era stata la sua rovina. Preferivo vivere nella dannazione eterna nel mondo di fuori che sposare l’uomo che aveva ordinato l’implacabile abuso della mia carne e del mio sangue.
Styx si mosse goffamente verso di me. Mi passò delicatamente i pollici sulle guance, asciugando l’umidità. Mi si strinse il petto e mi aggrappai ai suoi polsi, bisognosa del suo sostegno. Un pianto silenzioso e involontario eruppe dal mio petto e lasciai campo libero al dolore. Piansi davvero per la prima volta in vita mia.
Styx mi venne vicino e mi poggiò un braccio sulle spalle, facendomi sobbalzare. Guardai il suo viso rude: gli occhi castani, le grandi labbra morbide, le guance ruvide segnate da piccole cicatrici. Con la lingua leccò l’anellino argentato che gli attraversava il labbro inferiore e due grandi fossette gli si aprirono sulle guance. Quegli avvallamenti morbidi e scuri lo facevano sembrare meno severo, più umano.
Mentre fissavo ancora una volta gli occhi su quell’uomo così grosso e silenzioso, così diverso dal ragazzino che avevo conosciuto, crollai. Mi arresi. Era tutto ciò che mi era stato insegnato come sbagliato, ma non potei impedirmi di godere di quel tocco. Le sue braccia forti mi racchiudevano, mi riscaldavano, mi confortavano, mi facevano sentire al sicuro. Mi strinsi forte al suo vestito di pelle – odorava di cuoio, sapone, fumo e qualcos’altro, qualcosa di veramente buono. Non ero mai stata tenuta così prima di allora, mai consolata. L’unico tipo di affetto che avessi mai conosciuto l’avevo ricevuto durante quei giorni. Perfino allora, però, contatti come quello erano severamente proibiti.
Styx mi guidò la testa nell’incavo del collo e solo allora mi abbandonai ai singhiozzi.
Piansi a lungo prima di cedere allo sfinimento e scivolare nel sonno, ancora nel dubbio di essere stata attirata nella tana dal diavolo. Eppure mi sentivo completamente e assolutamente al sicuro tra le braccia forti dell’unico ragazzo che avessi mai baciato.