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Quindici anni dopo…
Corri, corri, continua a correre.
Volevo che le mie gambe stanche continuassero a spingere. I muscoli bruciavano come se qualcuno mi avesse iniettato del veleno e i piedi nudi, totalmente intorpiditi, colpivano il terreno freddo e duro mentre correvo nel bosco, ma non mi sarei arresa… non potevo arrendermi.
Respira, corri, continua a muoverti e basta.
Controllavo freneticamente la foresta buia intorno a me in cerca di discepoli. Non si vedeva nessuno, ma era solo questione di tempo. Si sarebbero accorti presto della mia assenza. Non potevo restare, però, non avrei potuto compiere il mio dovere preordinato con il profeta, non dopo quanto accaduto quella notte.
Mi bruciavano i polmoni e il petto era oppresso dallo sforzo eccessivo.
Ignora il dolore. Corri, corri e basta.
Superata la terza torre di controllo, non vista, mi concessi un momentaneo lampo di gioia – la rete perimetrale non era troppo lontana. Mi concessi la speranza di poter raggiungere la libertà.
Poi la sirena d’emergenza ululò e mi bloccai con un sussulto.
Lo sanno. Stanno venendo a cercarmi.
Costrinsi le gambe a muoversi ancora più in fretta; spine e rametti appuntiti mi si conficcavano nei piedi. Digrignando i denti, mi ripetevo: Non sentire dolore. Non sentire dolore. Pensa a lei.
Avrebbero anche potuto non trovarmi. Non avrei permesso che mi trovassero. Conoscevo le regole. Mai fuggire. Mai tentare di fuggire. Invece, io stavo fuggendo. Io ero determinata a scappare dalla loro malvagità una volta per tutte. Individuai gli alti pali della rete di recinzione e pompai con rinnovato vigore per compiere un ultimo scatto. Mi scagliai contro il metallo rigido con un gran fragore e i pali tremarono per la forza della collisione.
Cercai freneticamente un’apertura.
Niente.
No! Ti prego!
Corsi da un palo all’altro: nessuna falla, nessun buco… nessuna speranza.
Presa dal panico, mi gettai a terra, artigliai la terra arida, tentai di scavare un tunnel per guadagnarmi la libertà. Le mie dita rastrellarono il fango secco – le unghie si spezzarono, la pelle si lacerò, il sangue prese a scorrere – ma non mi fermai. Non avevo altra scelta che trovare una via d’uscita.
La sirena continuava a ululare, pareva aumentare di volume a poco a poco, come se intendesse scandire il conto alla rovescia che avrebbe condotto alla mia cattura. Se mi avessero trovata, sarei stata costantemente sorvegliata, trattata peggio che mai prima di allora – sarei stata molto di più della prigioniera che ero in quel momento.
Meglio la morte.
Da quanto tempo sono via? Si stanno avvicinando? Pensieri ricolmi di panico mi vorticavano nella mente, ma continuavo a scavare.
Poi sentii i cani avvicinarsi; avvertii la furia malvagia e rabbiosa nei latrati e nei ringhi dei cani da guardia dell’Ordine. Scavai in modo ancora più convulso.
I discepoli guardiani erano armati di grosse pistole semiautomatiche. Difendevano il territorio come leoni, erano brutali e catturavano sempre la loro preda. Sarei stata catturata e punita, proprio come lei. Torturata per la mia disobbedienza.
Proprio. Come. Lei.
I cani da caccia erano più rumorosi ora, crudeli, e il loro ansimare pesante, il loro abbaiare nervoso erano sempre più prossimi. Ingoiai l’urlo che minacciava di uscirmi dalla gola e continuai a scavare, togliere, spazzare, spalare… per conquistare la libertà. Sempre anelando di essere libera.
Finalmente libera.
Mi immobilizzai un attimo nell’udire un borbottio. Ordini spietati risuonavano tutt’intorno. I caricatori delle pistole ruotavano, le sicure scattavano; i passi pesanti degli scarponi rimbombavano sempre più vicini.
Troppo vicini.
Fui sul punto di strillare di terrore e frustrazione quando mi resi conto che la fossa sotto la rete non era abbastanza larga da farmi passare. Ma dovevo proseguire. Non avevo scelta. Dovevo provarci. Non avrei potuto vivere un giorno di più in quell’inferno.
Infilai prima la testa, grattando con il petto il terreno scavato di fresco, quindi scivolai in quel lieve avvallamento sotto la rete. Il metallo tagliente del filo spinato mi graffiò la spalla a sangue, ma non mi importò. Cos’era una cicatrice in più?
Usando le mani come artigli, mi spinsi in avanti. Udii nitidamente le voci. Il timbro cristallino dei fratelli; i loro cani selvaggi, consumati dalla brama di sangue, ululavano per una fame volutamente indotta.
«Cercherà delle falle o delle giunture deboli. Disponete la seconda squadra lungo il cancello nord. Noi andiamo a sud e, TROVATELA, a ogni costo! Il Profeta scatenerà l’ira dell’Onnipotente su di noi, se la perdiamo!»
Reprimendo un grido angosciato, avanzai carponi. Mi trascinai sul fango secco, slanciando con le gambe in preda alla disperazione. Graffi profondi mi ricoprivano le spalle. Le punte del filo spinato strappavano e riducevano a brandelli la gonna bianca; impotente, guardavo il mio sangue macchiare il terreno secco.
No!, avrei voluto gridare. I cani lo avrebbero fiutato. Erano addestrati a fiutare il sangue.
Un’ultima spinta e il corpo fu fuori, restavano solo le gambe. Mi girai sulla schiena, puntai i talloni e spinsi verso la libertà.
Una sensazione, no, un’inondazione di euforia al pensiero che ero ormai libera evaporò all’istante alla vista di un segugio nero che si aggirava intorno a un cespuglio vicino. Mi concentrai su un albero al di fuori della recinzione – obiettivo verso cui strisciare – e cercai di trascinarmi avanti, quando un fiotto di dolore si diffuse dalla gamba sinistra. Denti affilati come rasoi mi si conficcarono nella carne e, quando guardai giù, mi resi conto che un nerboruto cane da guardia teneva il mio polpaccio nella sua morsa; ringhiando e scuotendo la testa, mi lacerava pelle e muscolo.
Sbiancai per l’intensità di quel dolore e combattei un forte senso di nausea. Sbattei le mani sul terreno e mi aggrappai a una grossa pietra. Ingoiai l’urlo che mi si arrampicava su per la gola e trascinai via la gamba dalla palizzata verso il mio obiettivo. Il cane cercò di infilare a forza la sua grossa testa sotto la rete, serrando i denti intorno alla mia gamba e scuotendola avanti e indietro come fosse un bastone con cui giocare.
Con l’ultimo scampolo di energia, attaccai. Colpii il cane sulla testa con la pietra a cui mi ero aggrappata, più e più volte; le zanne snudate grondavano schiuma rossastra, gli occhi infernali bruciavano di rabbia. I discepoli guardiani riducevano alla fame i cani per renderli assetati di sangue e li costringevano a combattere tra loro per mantenerne viva la rabbia. Secondo la loro teoria, più i cani erano affamati, più sarebbero stati feroci quando fosse arrivato il momento di dare la caccia ai fuggitivi.
Inspirando dal naso, cercai di mantenere la concentrazione; mi serviva solo fargli allentare la presa, quel tanto che bastava affinché lasciasse andare la mia gamba sinistra.
E poi accadde.
Con un ultimo colpo della pietra, l’animale furioso indietreggiò, scuotendo la testa ferita. Sgusciai fuori da quella buca superficiale con il respiro corto e totalmente sotto shock.
Mentre scappavo via dalla rete, un pensiero mi sfrecciò nella mente: ce l’avevo fatta. Sono libera.
Il cane, sebbene stordito e non ancora riavutosi dai colpi, si lanciò nella buca. Ancora una volta, fece scattare le grosse fauci. Mi risvegliai dal mio torpore. Colmai rapidamente la buca con tutto il fango che riuscii a raccogliere, poi provai ad alzarmi, ma la gamba ferita non resse allo sforzo e non mi sostenne. Dentro di me gridavo. Non adesso! Ti prego, Signore, dammi la forza di andare avanti!
«Qui! È qui!»
Un discepolo in uniforme nera emerse dal fitto fogliame, fissando con furiosa cattiveria la mia sagoma accucciata oltre la rete. Si tolse il passamontagna e mi sentii sprofondare. Avrei riconosciuto quella lunga cicatrice sulla guancia ovunque. Gabriel, comandante in seconda del Profeta David, aveva la barba folta e bruna a ricoprirgli mezza faccia, come era usanza di tutti i fratelli dell’Ordine. A ogni modo, Gabriel era il discepolo che la mia gente temeva di più, il responsabile delle atrocità cui avevo assistito quella notte, responsabile della perdita di lei.
Con un verso di rimprovero, Gabriel si avvicinò e si accovacciò per guardami negli occhi. «Salomè, stupida ragazzina. Non avrai mica pensato davvero di poter scappare, eh?»
Un ghigno gli si aprì sul viso mentre si accostava ancora di più alla rete metallica. «Torna dentro e affronta la tua punizione. Hai peccato… gravemente.» Alla sua risata paternalistica, fece seguito quella di tutti gli altri. Ogni centimetro quadrato di pelle mi si accapponò per l’orrore. «Un vizio di famiglia.»
Cercai di ignorare il suo scherno. Il mio sguardo perlustrò con minuziosa attenzione i dintorni in cerca di una scappatoia. All’improvviso, Gabriel si alzò e strinse gli occhi.
«Non pensarci neanche. Se scappi, ti ritroveremo. Tu appartieni a questo posto. Al Profeta, alla tua gente. Ti sta aspettando all’altare e, dopo gli avvenimenti di oggi, è ansioso di procedere con la cerimonia. Non c’è niente per te al di là di questa rete. Niente altro che imbroglio, peccato e morte.»
Avanzando carponi verso il mio albero, il mio obiettivo, sfruttai la spessa corteccia per tirarmi su dal suolo. Feci il possibile per escludere le sue parole, ma barcollai. Altri discepoli comparvero dai densi cespugli, osservandomi mentre a malapena mi reggevo in piedi; le loro grosse pistole erano puntate alla mia testa con impeccabile precisione.
Non potevano. Non avrebbero sparato. Il Profeta David non lo avrebbe permesso. Sapevo di avere il coltello dalla parte del manico in quel momento. Ma se anche fossi riuscita a liberarmi quel giorno, non avrebbero mai smesso di darmi la caccia – io rappresentavo l’evento che tutti loro attendevano. Guardai il tatuaggio sul polso, strofinai la scritta e lessi la frase che mi era stata impressa con la forza sulla pelle quando ero piccola. Non credevo più nell’Ordine ormai. Se questo faceva di me una peccatrice, allora sarei stata felice di cadere.
Ignorando il tremore alle mani, mi chinai a strappare un lembo di stoffa dall’orlo del vestito. Lo legai intorno alla gamba ferita per bloccare l’emorragia.
«Salomè, pensaci bene. La tua disobbedienza causerà severe punizioni a discapito di tutte le sorelle. Sono sicuro che non vorrai fare questo alle tue sorelle, no? A Delilah e Magdalene. Vuoi forse causare loro dolore perché tu sei stata debole e hai ceduto alla tentazione?»
La calma nella voce di Gabriel mi ghiacciò il cuore. Le mie sorelle. Le amavo, le amavo più di ogni altra cosa, ma dovevo farlo. Non potevo tornare indietro. Non adesso. Avevo avuto la scossa che mi serviva per fare finalmente quel salto, per scappare. Sapevo che doveva esserci altro nella vita oltre quella esistenza… oltre loro.
Dopo un ultimo sguardo all’unica famiglia che avessi mai conosciuto, mi girai, trascinandomi dietro la gamba sinistra, e fuggii nella fangosa densità della foresta.
Corri, continua a correre e basta.
«Che vada all’inferno!» urlò Gabriel con voce acuta e perentoria. «Tutti fuori. Andate ai cancelli e sparpagliatevi. Non lasciatela scappare!»
Si mossero. I cancelli non erano lontanissimi, ma abbastanza da concedermi tempo prezioso. Avevo solo bisogno di tempo.
Addentrandomi nel fitto della foresta, mi costrinsi a muovermi più in fretta. Mi sforzai al massimo, spingendo il mio corpo allo stremo, accompagnando ogni passo con la preghiera. Non gridai, neanche quando rami bassi mi sfregiarono il viso o fui sferzata da cespugli troppo cresciuti.
Stavo sanguinando copiosamente. Soffrivo, ma continuavo ad andare avanti. Nonostante i graffi e i colpi, sapevo che tornare all’Ordine rappresentava un’alternativa molto peggiore.
Albero dopo albero, l’oscurità mi si chiudeva intorno. Scartai serpenti e bestie varie nelle ore successive, ma non mi fermai. La luna brillava alta su di me mentre la luce del giorno svaniva. Mi sentivo sempre più debole. Il sangue scorreva lungo la mia gamba in un flusso costante. Coprii la ferita con altra stoffa lurida. Ero stanca ma continuavo a spingermi avanti.
Poi, quando infine raggiunsi il mio limite fisico e fui sul punto di perdere la speranza, sbucai su una strada. Con rinnovato vigore, rotolai giù da una collina scoscesa, atterrando di peso sul terreno ghiaioso di un marciapiede accidentato.
Ero fiera di me perché i discepoli non mi avevano trovato… I discepoli non mi avevano trovato. Non avrei mai potuto abbassare la guardia, però. Non sarei stata libera finché non fossi stata tanto, tanto lontana da lì.
Zoppicai lungo la strada, una via silenziosa e deserta. Il frinire dei grilli e il richiamo dei gufi erano gli unici suoni nel buio. Non sapevo dove mi trovassi. Non avevo mai lasciato l’Ordine prima.
Ero completamente persa. Mentre cercavo di mettere a punto la mia mossa successiva, delle luci lampeggiarono all’improvviso dietro una curva a gomito. Mi accecarono. Alzai la mano a proteggermi gli occhi da quel bagliore, quando alla vista comparve un enorme veicolo. Un enorme veicolo nero che rallentò. Un enorme veicolo nero che si fermò accanto a me. Il finestrino si abbassò e rivelò il viso scioccato di una donna di una certa età.
«Diavolo, tesoro! Che ci fai qui tutta sola? Ti serve aiuto?»
Una di fuori.
Gli insegnamenti del Profeta David mi bombardarono la mente: mai parlare con quelli di fuori. Sono gente del diavolo. Compiono le opere del diavolo.
Non avevo scelta.
«Mi aiuti, la prego» gracchiai. Non bevevo da tantissimo tempo e mi sentivo come se avessi della ghiaia nella gola.
La donna si protese in avanti e la massiccia portiera si aprì. «Monta su, tesoro. Questa strada non è un posto per delle ragazzine come te, soprattutto a quest’ora della notte. Gira gente pericolosa qui e non vorrei mai che ti trovassero da sola.»
Zoppicando, mi aggrappai alle lunghe maniglie argentate fissate ai lati e mi issai sul sedile caldo. Ricordai a me stessa di restare allerta e di non abbassare la guardia.
Gli occhi scuri dell’anziana donna dalla vaporosa aureola di capelli grigi si spalancarono. «Tesoro, la tua gamba! Ti serve un ospedale. Com’è successo? Sei conciata male!»
«La prego, mi porti solo alla città più vicina. Non mi serve un guaritore» sussurrai con la testa leggera e il respiro che rallentava nel petto oppresso.
«La città più vicina, ragazza? Mancano ancora chilometri. Qua serve aiuto subito! Che t’è successo? Hai un aspetto infernale.» Poi restò di colpo senza fiato. «Ti prego, dimmi che non sei stata aggredita. Dimmi che nessun uomo ti ha fatto violenza.» Mi passò in rassegna tutto il corpo, il sangue che ora mi scorreva lungo la gamba, poi si guardò alle spalle usando gli specchietti attaccati allo sportello. «Oh, no. Sei stata presa contro la tua volontà?»
Non la guardai negli occhi. Avrebbe potuto controllarmi: mi avevano insegnato che chiunque, all’infuori dell’Ordine, mi avrebbe tentato. Io ero una delle persone scelte dal Profeta David, invidiata da tutti gli altri. Non dovevo cadere nella sua trappola.
«Non sono stata aggredita. La prego. Mi porti in una città e basta» supplicai ancora una volta.
L’enorme veicolo si immise sulla strada non illuminata con il fragore assordante di un corno. Rabbrividendo a quel suono, fissai fuori dal grande finestrino, assorta in preghiera. Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato…
«Da dove venivi, tesoro?» Mi interruppe la voce della donna – dolce e allettante. Sembrava una ninnananna. Camuffava intenti malvagi? O era sincera? Non lo sapevo… Non lo sapevo e basta! La mia testa brancolava nella nebbia e non riuscivo a concentrarmi. Rimasi in silenzio.
«Venivi fuori da quel bosco? Se sì, come? Da dove? Non c’è niente lì a parte alberi e orsi. Nessuno sano di mente entrerebbe in quella foresta. Troppi sacrilegi si nascondono tra i vecchi alberi. Ho perfino sentito dire che c’è un sito governativo di esperimenti o roba del genere.» Non mi azzardai a guardare nella sua direzione. Continuava a parlare, ma riuscii a escluderne la voce.
Ci allontanavamo sempre più man mano che passavano le ore. Non sapevo dove fossimo, ma a ogni mezzo metro di strada che percorrevamo mi rilassavo un po’. Ero stanca e, con mia grande gioia, la gamba non mi faceva più male. Era completamente insensibile e io avevo sonno. Combattei con i miei stessi occhi per tenerli aperti e, quando capii che non sarei più rimasta cosciente a lungo, decisi di agire.
«Per favore, si fermi» sollecitai, premendo le mani sul grosso pannello di vetro. Gli occhi scrutavano i dintorni brulli in cerca di un posto in cui nascondermi. E, quando individuai un edificio grigio squadrato molto più all’interno rispetto alla strada principale, tirai un sospiro di sollievo. Avrei potuto trovare rifugio lì dentro… nascondermi lì… riposare fino a che non avessi recuperato sufficienti forze per continuare il mio viaggio.
La donna rallentò, scuotendo il capo. «Eh, no, diavolo! Non ti ci lascio mica qui. Il centro della città è ancora lontano. Una come te non appartiene a un luogo del genere. È pericoloso. Pieno di gente molto, molto cattiva. Ma almeno sai che posto è quello?»
Mi si sfocò la vista e il campo visivo si restrinse, minacciando di farsi nero. «C’è una mia amica qui. Mi sta aspettando» spiegai, presa dal panico; la bugia che mi uscì dalle labbra in modo inaspettatamente facile.
Il veicolo si spostò, scricchiolando sulla ghiaia, e si fermò di colpo. «Hai amiche qui?» Il suo tono tradiva tutto il suo sconcerto.
«Sì.»
«Be’, che mi venga un colpo. Non ti avrei mai presa per una di quelle. Il diavolo assume tante forme, immagino. Adesso si spiega lo stato in cui ti trovi. Hanno voluto darti una lezione, eh? Ti hanno mollato e fatto tornare a casa da sola? Ed eccoti qua, a trascinarti sanguinante e livida di nuovo nella tana del diavolo.»
Non capivo cosa volesse dire. Chi erano “quelle”? Aprii lo sportello e saltai giù sul terreno duro senza dire un’altra parola. Dovevo nascondermi. Dovevo solo raccogliere le forze sufficienti a fare qualche altro passo.
Con un forte stridore, il grosso veicolo si allontanò mentre io avanzai barcollando su quella lunga strada verso l’edificio in lontananza. Era enorme, imponente e recintato. E, cosa più importante, era vicino e l’alto cancello dall’aria pesante era aperto quel tanto che bastava per poterci sgusciare in mezzo.
Ci riuscii mentre la vista si affievoliva sempre più. Sapevo di non poter più andare avanti. Prosciugata di ogni energia, mi lasciai cadere sulla pavimentazione dura e ruvida dietro una fila di grossi e ampi contenitori, quindi cedetti al bisogno di sonno. L’ultima immagine che vidi quando guardai in su fu… Satana… dipinto sulla parete dell’edificio opposto. Era seduto su un maestoso trono accanto a una figura femminile dagli occhi azzurri.
Sussultai per il panico generato da quella visione, mentre nella testa mi risuonavano le parole della donna alla guida di quell’enorme veicolo. Dove diavolo sono?
Ben presto, non riuscendo più a restare sveglia, scivolai nell’incoscienza con in mente un solo pensiero: Non c’è niente là fuori se non inganno, peccato e morte.