CAPITOLO
QUINDICESIMO
Oltre che per accompagnare Tewky, dovevo recarmi a Scotland Yard anche per sbrigare una faccenda personale.
«Che splendore!» esclamò Tewksbury, ammirando Londra dalla carrozza mentre il cavallo con la sua bardatura tintinnante avanzava al trotto davanti a noi.
Io invece ero assorta nei miei pensieri: bisognava fare qualcosa riguardo a Cutter e madame Laelia Sibyl de Papaver, perditoriana astrale. Non avevo prove, ma più ci riflettevo, più mi convincevo che entrambi fossero coinvolti nel rapimento. Deduzione logica: era stata lei a parlargli di me, chi altri avrebbe potuto farlo? Il guardiano, la duchessa, le sue domestiche? Molto improbabile. Di tutti coloro che avevo incontrato a Basilwether Hall, solo l’ispettore Lestrade e madame Laelia mi avevano sentita esporre le mie deduzioni su dove fosse finito lord Tewksbury. Uno di loro aveva contattato Cutter affinché mandasse un telegramma a Squeaky con le istruzioni per catturare Tewky. E di sicuro non era stato Lestrade. Conclusione: doveva essere stata madame Laelia.
Tewky disse: «Non avevo mai compreso prima d’ora perché il conducente sia seduto così in alto e indietro rispetto al cavallo. Adesso capisco, in questo modo la sua visuale non viene ostruita da nulla».
«Mmm-mmm» mormorai senza interrompere il filo dei miei pensieri cupi su madame Laelia. Benché fingesse di parteggiare con gli angeli, la donna si era in realtà alleata con i demoni: Cutter e Squeaky. Prendevano in ostaggio una vittima, ragionai, poi madame Laelia veniva convocata per i suoi dubbi servigi. In questo modo, mentre Cutter e Squeaky incassavano il riscatto, madame Laelia veniva pagata profumatamente per le sue illuminazioni spirituali. Tutti ne traevano un profitto, ed erano tutti coinvolti in questa losca agenzia. Nel caso di Tewky, che inizialmente era scappato di casa, Cutter e Squeaky avevano colto l’opportunità di rapirlo in seguito.
Ancora non avevo pensato a un modo per informare le autorità senza compromettermi, ma sapevo di dover fare qualcosa per porre fine a questo misfatto.
Tewky commentò: «È così piacevole sentire la brezza sul viso in una giornata tanto calda».
Che ragazzo fastidioso, doveva proprio cinguettare come un passero? Non risposi ma, stringendo le labbra in una linea severa, infilai una mano nella tasca della gonna e tirai fuori una matita e un foglio di carta ripiegato. Stesi il foglio sulle gambe e abbozzai con tocco rapido e rabbioso il ritratto caricaturale di un uomo. Quando Tewky si accorse di ciò che stavo facendo, smise di ciarlare per fissare il foglio.
«È Cutter» indovinò.
Senza commentare, terminai il ritratto.
«È proprio Cutter, fino ai peli che gli spuntano dalle orecchie. Mi sorprendi, come hai imparato a disegnare così bene?»
Senza rispondere, voltai il foglio e sul lato bianco abbozzai un’altra figura. Essendo nel giusto stato d’animo, carica e sprizzante d’energia, riuscii a disegnare di getto senza dovermi sforzare di ricordare o riflettere: i colpi di matita provenivano da un angolo recondito della mia mente.
«E quella chi è?» chiese Tewky.
Ancora una volta, non risposi. Terminai il ritratto di una donna grossa e imponente, spiegai il foglio e guardai entrambi gli schizzi allo stesso tempo. La caricatura dell’uomo e quella della donna stavano l’una accanto all’altra.
In quel momento, l’illuminazione.
Ma certo. Per sembrare una donna bastava mettersi una parrucca, svariati amplificatori brevettati, modellatori, imbottiture e regolatori, oltre ai necessari travestimenti: vestito, cappello, guanti. Io avrei dovuto saperlo meglio di tutti.
Anche Tewky se ne rese conto. Sussurrò: «È la stessa persona».
La parrucca di un rosso acceso, ragionai, serviva a nascondere le orecchie pelose e a distogliere l’attenzione dal viso. E poi bastava abbellirsi un po’ le labbra, le ciglia, gli occhi. Facile… usava del trucco. Nessuna signora rispettabile avrebbe mai ammesso di usare un tale artificio, ma avevo sentito che era abbastanza comune. Non che quest’individuo fosse rispettabile, né tantomeno una signora.
Indicando prima un disegno e poi l’altro, Tewky domandò: «Se quello è Cutter, allora chi è l’altra?»
Glielo dissi, anche se il nome non gli avrebbe detto niente: «Madame Laelia Sibyl de Papaver».
«Potresti anche essere il principe del Galles» disse il sergente dietro alla scrivania senza nemmeno sollevare gli occhi per guardarci. «Aspetterai il tuo turno come tutti gli altri. Siediti.» Con lo sguardo ancora puntato sui fogli e sul registro, agitò la manona in direzione del corridoio alle sue spalle.
Feci un sorriso a Tewky, il quale, essendosi appena presentato come il visconte Tewksbury Basilwether, non sapeva se ridere o piangere. «Aspetterò con te» sussurrai.
E, in qualche modo, durante la nostra visita a Scotland Yard, sarei riuscita a sbrigare anche le mie faccende. Come quando avevo lasciato Kineford in sella alla mia bicicletta, il mio piano brillante in quel momento non aveva più nemmeno una parvenza di organizzazione.
Io e Tewky ci sedemmo su una delle tante panche allineate contro le pareti pannellate di legno scuro del corridoio, panche di una durezza e rigidità eccezionali, più scomode di qualsiasi banco da chiesa su cui mi fossi mai seduta. Dopo essersi appollaiato di fianco a me, Tewky mormorò: «Sei fortunata ad avere tutte quelle imbottiture».
Che commento ardito. «Fa’ silenzio!»
«Non dirmi di fare silenzio, dimmi chi sei.»
«No.» Tenni la voce bassa, poiché sulle panche del corridoio sedevano altre persone in attesa di parlare con la polizia. Tuttavia, nessuno di loro ci degnò di uno sguardo, intenti com’erano a conversare dei propri problemi.
Tewky ebbe il buonsenso di abbassare la voce. «Ma… mi hai salvato la vita, credo… O quantomeno l’onore! E… hai fatto così tanto per me. Voglio ringraziarti. Chi sei?»
Scossi il capo.
«Perché vai in giro vestita come una vecchia zitella?»
«Che ragazzo oltraggioso sei, bada a come parli.»
«Oltraggiosa ragazza, non potrò mai sapere il tuo nome?»
«Sssh!» No, speravo di no, ma non lo dissi. Invece gli ordinai, di nuovo: «Fa’ silenzio!» e gli afferrai il braccio mentre una porta del corridoio si apriva vicino a noi. Ne vidi emergere un uomo dall’aspetto familiare.
Due uomini dall’aspetto familiare.
Per un momento mi sentii davvero sull’orlo di svenire, e non per colpa del corsetto.
Cielo, aiutami.
Uno degli uomini era l’ispettore Lestrade. Tuttavia, avevo fatto i conti con il fatto che, accompagnando Tewky a Scotland Yard, avrei potuto incontrare Lestrade, ed ero sicura che non mi avrebbe riconosciuta come la vedova velata di nero che aveva incontrato per pochi minuti a Basilwether Hall.
No, quello che mi allarmò tanto da farmi quasi perdere i sensi fu la sorprendente apparizione del secondo uomo: Sherlock Holmes.
Mentalmente, mi obbligai a continuare a respirare, a sedere in maniera naturale, a mimetizzarmi con il legno scuro della rigida panca e con le acqueforti incorniciate appese alle pareti alla stessa maniera in cui una pernice si mimetizza nella macchia. Ti prego, fa’ che non mi notino. Se uno dei due mi avesse riconosciuta, i miei giorni di libertà sarebbero giunti al termine.
Avanzarono verso di noi a passi lenti, intenti in una conversazione, anche se mio fratello era così alto rispetto a quel furetto di Lestrade che per avvicinarsi alla testa dell’altro uomo, più basso, si dovette chinare. Dopo aver rivolto loro un primo sguardo attonito, abbassai gli occhi al grembo, lasciai andare Tewky e nascosi i pugni chiusi e tremanti tra le pieghe della gonna.
«Non riesco a venire a capo del caso Basilwether» giunse alle mie orecchie la voce acuta di Lestrade. «Apprezzerei davvero molto se potessi darci un’occhiata, Holmes.»
«Holmes?» ripeté Tewky sbigottito, rizzandosi di colpo sulla sedia al mio fianco. «È davvero lui? Il famoso detective?»
Sussurrai: «Per favore, stai zitto».
Sono certa che avvertì nella mia voce una nota di emozione, perché ubbidì.
«Non tanto quanto io apprezzerei che tu assegnassi altri ufficiali alla ricerca di mia sorella» stava dicendo Sherlock a Lestrade. La voce di mio fratello, sebbene assai misurata, era tirata come la corda di un violino. Qualcosa nel suo tono, qualcosa di inespresso, mi fece sfarfallare dolcemente il cuore di un’emozione dolorosa.
«Vorrei tanto farlo, amico mio.» Nella voce di Lestrade c’era della compassione, ma mi parve di sentire anche una nota di compiacimento. «Tuttavia, se non puoi darmi altri elementi su cui lavorare…»
«Il maggiordomo ha confermato che in oltre dieci anni mia madre non ha fatto fare alcun ritratto di se stessa o di Enola. Maledetta donna!»
«Be’, abbiamo quello schizzo che tua sorella ha fatto di lei.» C’era senza ombra di dubbio una nota di soddisfazione nella voce dell’ispettore di Scotland Yard.
Mio fratello allungò la mano all’improvviso e l’afferrò per il braccio, bloccandolo; i due si fermarono proprio davanti a me e a Tewky. Per grazia forse della provvidenza o forse della cieca fortuna, Sherlock mi dava le spalle.
«Senti, Lestrade.» Mio fratello non sembrava esattamente arrabbiato, ma il suo tono, intenso al punto di risultare quasi ipnotico, mi gonfiò il cuore di ammirazione nei suoi confronti, e catturò del tutto l’attenzione dell’altro uomo. Sherlock proseguì: «Puoi anche pensare che la scomparsa di mia madre e mia sorella sia un duro colpo al mio orgoglio, perché non riesco a trovare traccia della prima e devo ringraziare te per le notizie che ho sulla seconda, ma…»
«Ti posso assicurare che non l’ho mai pensato» lo interruppe Lestrade, sbattendo le palpebre e distogliendo lo sguardo.
«Sciocchezze. Non ti sto facendo una colpa di essere incapace tanto quanto i tuoi superiori.» Spazzando via quell’affermazione sconcertante con un gesto della mano guantata di nero, Sherlock inchiodò di nuovo l’ispettore con lo sguardo. «Ma, Lestrade, voglio che sia chiaro: puoi cancellare lady Eudoria Vernet Holmes dalla tua lista. Sapeva ciò che stava facendo, e se è finita in qualche guaio ha solo se stessa da incolpare.»
Una fitta di dolore mi trafisse nuovamente il cuore, ma non si trattava di un dolce sfarfallio, bensì di un dolore diverso. Al tempo non ero a conoscenza di quell’unica, paralizzante debolezza del mio brillante fratello; non sapevo che la depressione potesse fargli pronunciare parole tanto dure.
«Tuttavia, nel caso di Enola Holmes cambia tutto» stava proseguendo Sherlock. «Mia sorella è un’innocente. Trascurata, ignorante, poco sofisticata. Una sognatrice. Mi sento davvero in colpa per non essere rimasto con lei e averla lasciata invece alle cure di mio fratello Mycroft. Nonostante la sua mente brillante, quell’uomo non ha pazienza. Non ha mai compreso che non basta un’imbrigliatura per addomesticare un puledro, ci vuole anche tempo. È normale che la ragazza sia fuggita a gambe levate, considerando che è più impulsiva che intelligente.»
Sotto la frangia finta e al pince-nez, il mio viso si contorse in una smorfia.
«Sembrava intelligente a sufficienza quando le ho parlato…» replicò Lestrade. «Di sicuro è riuscita a ingannarmi. Avrei giurato che avesse almeno venticinque anni. Posata, eloquente, riflessiva…»
La mia fronte imbronciata si distese. Non era male, questo Lestrade.
Mio fratello esclamò: «Riflessiva e ingegnosa, forse, ma certamente anche vittima delle debolezze e dell’irrazionalità del suo sesso. Per esempio, perché ha rivelato il suo nome al guardiano?»
«Forse per pura sfida, per riuscire a entrare. In seguito è stata abbastanza accorta da andarsene dritta a Londra, dove sarebbe stato più difficile trovarla.»
«Dove potrebbe accaderle qualsiasi cosa, anche se avesse davvero venticinque anni. E ne ha solo quattordici.»
«Dove, come ti dicevo prima, qualsiasi cosa potrebbe accadere a un ragazzino ancora più giovane: il figlio del duca di Basilwether.»
Fu in quel momento che Tweky si schiarì la gola: «Ehm». Poi si alzò in piedi.
Quindi, capirete bene, non ebbi il tempo di pensare o un’altra opzione se non…
Fuggire.
Mentre l’ispettore e il grande detective si voltavano a fissare sgomenti il ragazzo abbigliato da normale cittadino e lo fissavano sbattendo le palpebre, e pian piano iniziavano a comprendere, io mi alzai e me ne andai in silenzio. Scorsi solo di sfuggita l’espressione sul viso di mio fratello, e se avessi saputo che dono raro fosse vedere Sherlock Holmes così meravigliato, me lo sarei goduto ancora di più. Ma non indugiai, avanzai di qualche passo lungo il corridoio, aprii la prima porta che trovai e vi entrai, richiudendola piano alle mie spalle.
Mi trovai in un ufficio con diverse scrivanie, tutte vuote eccetto una. «Mi scusi» dissi al giovane agente, il quale sollevò la testa dalle pratiche su cui stava lavorando. «Il sergente la vuole all’accettazione.»
Lui, presumendo con ogni probabilità che fossi stata assunta a Scotland Yard di recente come stenografa o per una posizione simile, annuì, si alzò e uscì.
Uscii anche io, ma dalla finestra. Sollevando lo strascico, saltai il davanzale come se stessi montando in sella a una bicicletta e atterrai sul marciapiede come se stessi smontando. Naturalmente di lì stavano passando alcune persone, ma io non guardai in faccia nessuno, come se fosse del tutto normale lasciare un edificio pubblico in quel modo. Mi tolsi il pince-nez e lo gettai in mezzo alla strada, dove un grosso cavallo lo calpestò prontamente. Tenendomi bene eretta, mi allontanai a passo celere come si addiceva a una giovane professionista. Proprio in quel momento all’angolo si stava fermando un omnibus. Salii, pagai la mia corsa e mi sedetti sotto il tettuccio in mezzo a tanti altri londinesi, senza mai guardarmi alle spalle. Con ogni probabilità, mentre il grosso bus mi portava sempre più lontana, mio fratello e Lestrade stavano ancora interrogando Tewky.
Tuttavia, sapevo che presto avrebbero seguito le mie tracce. Tewky avrebbe raccontato loro di come lui e una ragazza vestita da vedova erano fuggiti assieme dalla barca di Cutter. Una ragazza che di nome faceva Holmes. E magari in quel momento Tewky si stava voltando verso di me, volendomi presentare, ma avrebbe trovato solo due disegni. Speravo che Lestrade, dopo aver parlato con Tewky, avrebbe compreso il significato degli schizzi: due caricature abbandonate su una panca assieme a un orribile parasole verde.
Mi dispiaceva aver dovuto lasciare Tewky così d’impulso, senza neanche salutarlo.
Ma non avrei potuto fare altrimenti, dovevo trovare mamma.
Mi dispiaceva inoltre non aver potuto passare più tempo con mio fratello Sherlock, pur sotto mentite spoglie, per osservarlo, ascoltarlo, ammirarlo. Mi mancava, provavo perfino una gran nostalgia, quasi fossi Pollicino e bramassi di ritrovare la via di casa.
Ma al famoso detective non interessava trovare mamma, quindi… che andasse a farsi friggere. Tutti i miei sentimenti sfarfallanti per lui piegarono le ali e sfociarono in dispiacere.
Anche se… forse era meglio così. Sherlock e Mycroft avrebbero voluto riportare mamma a Ferndell Hall, ma era evidente che lei non voleva starci. Quando – non se, bensì quando – l’avessi trovata, non le avrei chiesto di fare nulla che avrebbe potuto renderla infelice. Non la stavo cercando per portarle via la libertà.
Volevo solo avere una mamma.
Ecco tutto.
Volevo poter comunicare con lei. Forse incontrarla ogni tanto per fare due chiacchiere davanti a una tazza di tè.
Sapere dove si trovava.
Anche se, nei recessi della mia mente, non potevo fare a meno di temere che le fosse capitato qualcosa di brutto. Ma ritenevo molto più probabile che mamma si fosse recata in un luogo in cui non esistevano corsetti, sellini, e forse nemmeno cappelli e stivali. Un luogo verdeggiante e in fiore. Era piuttosto ironico che io, nel seguire il suo esempio e fuggire di casa, fossi finita invece in questa fogna di città dove non avevo ancora visto un palazzo, una carrozza d’oro o una signora ricoperta di ermellino e diamanti. Dove avevo invece incontrato un’anziana che strisciava sul marciapiede, il cranio devastato dalla tigna.
Di sicuro a mamma non poteva essere andata così male, no?
Dovevo esserne certa; e mi rimaneva solo qualche ora per agire prima che l’intero comando di polizia di Londra fosse allertato e si mettesse sulle mie tracce.
Scendendo dall’omnibus alla fermata successiva, camminai per un isolato, poi fermai una vettura. Questa volta si trattava di una carrozza a quattro ruote che offriva un riparo chiuso e mi schermiva dalla vista. «Fleet Street» dissi al conducente.
Mentre lui manovrava la carrozza in mezzo al caos del traffico cittadino, io presi di nuovo in mano carta e matita e composi un messaggio:
GRAZIE MIO CRISANTEMO STAI SBOCCIANDO? MANDA IRIS PER FAVORE.
Ricordavo con chiarezza di aver letto nel Significato dei fiori che l’iris indicava il “messaggio”. Un bouquet di iris avvertiva il ricevente di prestare attenzione ai significati degli altri fiori. La dea greca Iris consegnava messaggi tra il monte Olimpo e la Terra attraversando ponti di arcobaleno.
Non ricordavo però molti altri lemmi del Significato dei fiori. Non appena avessi trovato dove alloggiare, mi sarei dovuta procurare una copia del libro da poter consultare.
Mi dispiaceva tantissimo aver perso anche l’altro – insostituibile – libro regalatomi da mia madre: il mio ricordo più prezioso di lei, il mio libro di messaggi in codice.
Cosa ne avesse fatto Cutter non l’avrei mai saputo.
(O almeno così pensavo.)
Ma mi consolai del fatto che non ne avrei avuto bisogno per alcun fine pratico.
(Di nuovo, così pensavo.)
Partendo dal messaggio che avevo scritto, lo riscrissi al contrario:
EROVAFREPSIRIADNAM?ODNAICCOBS IATSOMETNASIRCOIMEIZARG
Poi risistemai le lettere a zigzag su due righe in questa maniera:
EOARPIIDA?DACOSASMTAICIEZR
RVFESRANMONICBITOENSROMIAG
Infine, oscillando sulla sedia mentre la carrozza avanzava rumorosamente, invertii l’ordine delle linee e composi il messaggio. L’avrei piazzato nella colonna degli annunci personali della «Gazzetta di Pall Mall», che mia madre si perdeva di rado, nella «Rivista sulla condizione femminile moderna», nel «Giornale sulla Riforma dell’abbigliamento», e nelle altre pubblicazioni che prediligeva. Il mio messaggio in codice suonava così:
Coda Ivy RVFESRANMONICBITOENSROMIAG capo Ivy EOARPIIDA?DACOSASMTAICIEZR tua Ivy
Sapevo che mia madre, incapace di resistere al richiamo di un crittogramma, ci avrebbe messo tutta se stessa se, e quando, l’avesse visto.
Purtroppo, sapevo anche che pure mio fratello Sherlock, il quale leggeva abitudinariamente quelle che lui chiamava le “colonne riservate alle ricerche delle persone scomparse” dei quotidiani, l’avrebbe notato.
Ma siccome non aveva idea di come l’edera si arrampica all’indietro su una staccionata, forse non sarebbe stato in grado di decifrarlo.
E se anche l’avesse risolto, dubitavo che sarebbe stato in grado di comprenderlo o di collegarlo a me.
Un tempo – sembrava così tanto tempo fa, in un altro mondo, ma si trattava solo di sei settimane addietro –, pedalando lungo una strada di campagna e pensando a mio fratello, avevo redatto una lista mentale dei miei talenti, comparandoli a mio sfavore con i suoi.
Adesso, viaggiando in una carrozza londinese invece che in sella a una bicicletta, mi trovai a stilare nella mia mente una lista diversa dei miei talenti e delle mie abilità. Sapevo cose che Sherlock Holmes nemmeno si immaginava. Laddove lui aveva sorvolato sull’importanza del sellino (ossia del bagaglio) di mia madre e del suo cappello a torretta (in cui sospettavo avesse nascosto una bella mazzetta di contanti), io conoscevo invece la struttura e gli usi dei supporti e degli ornamenti femminili. Mi ero dimostrata abile nel travestimento. Conoscevo il significato cifrato dei fiori. Peraltro, mentre Sherlock Holmes sminuiva il “sesso debole”, definendolo irrazionale e insignificante, io ero al corrente di questioni che la sua mente “logica” non avrebbe mai potuto comprendere. Conoscevo tutto un mondo di interazioni femminili, codici segreti in cui gli orli dei cappelli potevano significare ribellione, i fazzoletti sotterfugio, i ventagli piumati una latente temerarietà, in cui la ceralacca poteva nascondere messaggi in base al posizionamento del timbro postale, e i biglietti da visita un mantello di cospirazione femminile nel quale potevo avvolgermi. Sapevo che in un corsetto si potevano celare senza grosse difficoltà armi, armature e provviste. Avrei potuto accedere a luoghi e compiere imprese che Sherlock Holmes non sarebbe mai stato in grado di comprendere o di immaginare, figurarsi realizzare.
E avevo tutta l’intenzione di farlo.