CAPITOLO
SETTIMO

Cinque settimane più tardi, ero pronta.

Secondo gli inquilini di Ferndell Hall, pronta per andare in collegio.

Per quanto mi riguarda, invece, ero pronta per un’impresa ben diversa.

In previsione del collegio, era arrivata la sarta da Londra, si era sistemata nella stanza occupata in passato da una cameriera personale ma da tempo ormai vuota, aveva sospirato dinnanzi alla vecchia macchina da cucire a pedale e aveva preso le mie misure.

Vita: 51 centimetri. «Mah, troppo larga.»

Petto: 53 centimetri. «Mah, davvero troppo piccolo.»

Fianchi: 56 centimetri. «Mah, insufficiente.»

Tuttavia, tutto poteva essere sistemato.

La sarta individuò all’interno di una rivista di moda che mia madre non avrebbe mai fatto entrare a Ferndell Hall, un’inserzione che diceva:

AMPLIFICATORE: Corsetto Ideale per perfezionare fisici magri. È difficile descrivere a parole l’effetto incantevole che nessun altro corsetto al mondo può approssimare o eguagliare. Morbida imbottitura interna (con altri miglioramenti che uniscono morbidezza, leggerezza e comodità) regolabile secondo il bisogno dell’indossatrice per raggiungere il livello di pienezza desiderata e le curve eleganti di un petto perfettamente proporzionato. Corsetto inviato in involucro generico, previa ricezione del pagamento. Garantito. Soddisfatti o rimborsati. Evitare copie di scarso valore.

Dopo aver prontamente ordinato questo congegno, la sarta si mise a creare vestiti decorosi dai colori spenti con alti colletti sorretti da stecche di balena concepiti per strangolarmi, cinture progettate per soffocarmi e gonne con uno strascico tale da impedirmi quasi di camminare che coprivano una mezza dozzina di sottogonne di seta a balze. Propose di cucirmi due vestiti con una vita da 49,5 centimetri, due con una vita da 48 centimetri, e così via fino a 47 centimetri e più stretti ancora, con l’aspettativa che, crescendo, sarei rimpicciolita.

Nel frattempo, giungevano telegrammi sempre più concisi da parte di Sherlock Holmes in cui non riferiva alcuna nuova informazione su mia madre. Aveva rintracciato le sue vecchie conoscenze, colleghe artiste e compagne suffragette; si era perfino spinto fino in Francia a controllare che non fosse con alcuni suoi parenti alla lontana, i Vernets, ma invano. Avevo ricominciato ad avere paura per lei; perché il grande detective non era riuscito a localizzarla? Forse, dopotutto, era davvero rimasta vittima di un incidente? O, ancora peggio, di un terribile crimine?

Tuttavia, nel giorno in cui la sarta completò il mio primo vestito, cambiai prospettiva.

Quel giorno fui obbligata a indossare il Corsetto Ideale (il quale era arrivato, come promesso, in un discreto involucro di carta marrone) con allacciature frontali e laterali e, ovviamente, un’imbottitura brevettata che non mi avrebbe mai più permesso di appoggiarmi contro lo schienale di una sedia. Fui obbligata inoltre a portare i capelli in uno chignon fissato con delle forcine che mi perforavano lo scalpo, e una frangia di finti ricci similmente infilzati sulla fronte. Come ricompensa, potei indossare il mio nuovo vestito assieme a un paio di scarpe altrettanto dolorose, e sgambettare in giro per casa allenandomi a essere una signorina.

Quel giorno compresi con certezza irrazionale ma assoluta dove era andata mia madre: in un posto in cui non c’erano forcine, corsetti (Ideali o Non) e imbottiture brevettate.

Nel frattempo, mio fratello Mycroft mandò un telegramma per informarmi che tutto era stato predisposto – mi sarei dovuta presentare alla tale “scuola di perfezionamento” (casa degli orrori) in tale data – e dando istruzioni a Lane di accompagnarmici.

Riguardo invece alla cosa più importante, cioè la mia impresa, avevo trascorso le giornate, per quanto possibile, nella mia stanza in vestaglia, dormicchiando e adducendo come scusa l’esaurimento nervoso. La signora Lane, che cercò di rifilarmi più di una volta del brodo di piedini di vitello (e per forza che gli invalidi deperiscono!), si preoccupò talmente tanto che si mise in contatto con Mycroft, il quale la rassicurò sul fatto che al collegio, dove avrei fatto una colazione a base di avena e indossato indumenti di lana, mi sarei rimessa in sesto. Ciononostante, fece venire prima il farmacista del paese e poi un medico di una nota clinica di Harley Street direttamente da Londra. Ma nessuno dei due trovò qualcosa che non andava.

E non avevano torto. Stavo semplicemente evitando corsetti, forcine, scarpe troppo strette e simili torture, e tentando allo stesso tempo di recuperare del sonno. Nessuno sapeva che ogni notte, dopo che gli altri inquilini erano andati a letto, io mi alzavo durante le ore più buie e mi mettevo a lavorare sui crittogrammi di mamma. Scoprii che in fin dei conti la crittografia non mi dispiaceva, poiché adoravo trovare cose, e i messaggi in codice mi permettevano di fare proprio questo, prima portandomi a scoprire significati segreti, poi dei tesori. Ogni crittogramma che risolvevo mi conduceva nelle stanze di mamma alla ricerca di nuove sorprese che aveva nascosto per me. Non fui in grado di risolvere tutti gli enigmi, e questo mi frustrò al punto che considerai l’idea di strappare il retro di tutti gli acquerelli, ma non sarebbe stato molto razionale. Oltretutto, c’erano davvero tanti dipinti, anzi troppi, e non ogni messaggio puntava a essi.

Nel mio libriccino c’era, per esempio, una pagina decorata con rampicanti d’edera lungo una staccionata. Senza nemmeno guardare il messaggio, quatta quatta andai subito nelle stanze di mia madre a cercare un acquerello con uno studio d’edera. Ne scoprii due di cui strappai il retro senza trovarvi niente. Dopodiché, piuttosto delusa me ne tornai nella mia stanza a studiare il crittogramma:

LNARUINLEOLDIOTL

AOEDAGEILMPEOMTE

Ma che accidenti voleva dire? Cercai “edera” nel Significato dei fiori. La pianta rampicante rappresentava la fedeltà. Seppur commovente, quest’informazione non mi aiutò. Accigliata, dovetti studiare il messaggio cifrato per un bel po’ di tempo prima di riuscire a intravedere il mio nome nella combinazione tra le prime due lettere della riga superiore e le prime tre della riga inferiore. Poi notai che mamma aveva dipinto un’edera che si attorcigliava sulla staccionata in maniera piuttosto innaturale, muovendosi a zigzag, su e giù, su e giù. Inoltre, l’edera cresceva da destra a sinistra. Alzando gli occhi al cielo per la mia lentezza, lessi seguendo la stessa andatura dell’edera e riscrissi il messaggio:

LETTOMIODELPOMELLINEIGUARDAENOLA

LETTO MIO DEL POMELLI NEI GUARDA ENOLA

Oppure, leggendo le parole da destra a sinistra:

ENOLA GUARDA NEI POMELLI DEL MIO LETTO

E così mi avviai, in punta di piedi, a rimuovere i pomelli dal letto di mamma nel cuore della notte, e scoprii che all’interno di un montante d’ottone si può ficcare una quantità di contanti sorprendente.

Io, d’altro canto, dovetti farmi furba per trovare dei nascondigli nella mia camera che la signora Lane, armata di straccio nel corso di una delle sue occasionali incursioni, non avrebbe potuto scoprire.

Le asticelle delle tende, fatte d’ottone come il supporto di mia madre, avevano dei pomelli alle estremità che assolvevano al compito.

E dovevo sbrigare tutto ciò prima che i signori Lane si alzassero, all’alba.

In fondo, le mie notti si rivelarono molto più utili e soddisfacenti delle mie giornate.

Tuttavia, non trovai mai ciò che realmente desideravo: un messaggio di addio, un saluto affettuoso o una spiegazione da parte di mamma. Ma in realtà, a questo punto non avevo più bisogno di una spiegazione. Sapevo che aveva tessuto i suoi inganni, almeno in parte, a mio beneficio. E sapevo che il denaro che mi aveva lasciato con tanta furbizia aveva come obiettivo quello di procurarmi la libertà.

Fu quindi grazie a mamma se, in una soleggiata mattina di fine agosto, mi potei accomodare sul sedile della carrozza che doveva portarmi via dall’unico luogo che avessi mai chiamato casa, sentendomi sorprendentemente positiva, seppur nervosa.

Lane si era messo d’accordo con l’allevatore del paese per prendere a noleggio uno dei suoi cavalli e un calesse, ossia una specie di marchingegno simile a un carro con un sedile imbottito per me e per il conducente. Almeno sarei arrivata alla stazione ferroviaria comoda, se non addirittura con stile.

«Spero che non si metta a piovere» osservò la signora Lane dal vialetto prima di salutarmi.

Non pioveva da settimane. Dal giorno in cui ero andata a cercare mia madre.

«Poco probabile» disse Lane, dandomi la mano per aiutarmi a sedere come una signora, benché la mano guantata che gli porsi fosse quella di una bambina. Con l’altra sollevai il parasole bianco decorato con delle increspature in segno di saluto. «Non c’è una sola nuvola in cielo.»

Con un sorriso a Lane e alla signora Lane, accomodai prima il mio sellino, poi me stessa accanto a Dick, il conducente. Così, come il mio sellino occupava interamente lo spazio disponibile, la signora Lane aveva acconciato i miei capelli in maniera tale che anch’essi occupassero il retro della mia testa come andava allora di moda, ma con il risultato che il cappello, simile a un piatto di paglia infiocchettato, mi cadeva in continuazione davanti agli occhi. Indossavo un abito grigio talpa che avevo scelto con attenzione per il suo colore brutto e indefinito, la vita da 49,5 centimetri, la gonna a ruota e la giacca coprente. Sotto la giacca avevo lasciato la cintura della gonna sbottonata in modo da poter legare il corsetto senza stringerlo eccessivamente, al punto da risultare quasi confortevole. Riuscivo a respirare.

Ben presto mi sarebbe servito.

«Ha proprio l’aspetto di una vera gentildonna, signorina Enola» disse Lane, facendo un passo indietro. «Sarà un vanto per Ferndell Hall, ne sono certo.»

Se solo avesse saputo.

«Ci mancherà» aggiunse la signora Lane con voce tremolante, e per un momento avvertii una stretta al cuore nel vedere le lacrime che rigavano quel dolce viso anziano.

«Grazie» risposi un po’ rigida, schermendomi dalle mie emozioni. «Dick, andiamo.» Lungo la strada tenni lo sguardo fisso sulle orecchie del cavallo. Mio fratello Mycroft aveva ingaggiato degli uomini per “ripulire” il prato della proprietà, e io non volevo vederlo senza i miei cespugli di rose selvatiche.

«Arrivederci, signorina Enola, e buona fortuna» disse il guardiano aprendo il cancello.

«Grazie, Cooper.»

Mentre il cavallo attraversava Kineford al trotto, sospirai e permisi al mio sguardo di vagare, soffermandomi un’ultima volta sulla macelleria e sul fruttivendolo, sui cottage bianchi con le travi annerite e i tetti di paglia, sul pub, sull’ufficio postale e telegrafico, sul comando di polizia, sugli altri cottage in stile Tudor con le finestrelle che sembravano fare il broncio sotto grossi ciuffi di paglia, sulla locanda, sulla fucina, sulla canonica, sulla cappella di granito con il muschioso tetto d’ardesia e le lapidi inclinate a destra e a sinistra nel cimitero…

Aspettai che la carrozza l’avesse quasi oltrepassato prima di esclamare all’improvviso, come se mi fosse appena venuto in mente: «Dick, fermati. Voglio dire addio a mio padre!»

Lui fermò la carrozza. «Che cos’ha detto, signorina Enola?»

Con Dick bisognava dare spiegazioni chiare e semplici. «Desidero visitare la tomba di mio padre e dire una preghiera per lui nella cappella» proferii con pazienza una parola alla volta.

Povero papà, lui non avrebbe voluto preghiere. Mamma mi aveva raccontato che da buon razionalista e miscredente non avrebbe voluto nemmeno un funerale. Aveva chiesto di essere cremato, ma dopo la sua morte i suoi desideri erano stati bellamente ignorati per timore che gli abitanti di Kineford sarebbero rimasti definitivamente scioccati dallo scandalo.

Con l’abituale lentezza, Dick rispose, preoccupato: «Devo accompagnarla alla stazione ferroviaria, signorina».

«C’è tempo. Puoi berti una pinta al pub mentre mi aspetti.»

«Oh, d’accordo.» Fece fare dietrofront al cavallo, ripercorse la strada a ritroso e si fermò davanti alla porta della cappella. Rimanemmo seduti per un momento prima che si ricordasse le buone maniere, poi legò le redini, salto giù e fece il giro dalla mia parte per aiutarmi a scendere.

«Grazie» gli dissi, ritirando la mano guantata delle sue dita sporche. «Torna pure tra dieci minuti.»

Che sciocchezza. Sapevo che sarebbe rimasto nel pub per almeno mezz’ora.

«Sì, signorina.» Si toccò il cappello e finalmente se ne andò, mentre io, camminando impettita, entrai nella cappella in un turbinio di gonne.

Come avevo previsto e sperato, non c’era nessuno. Dopo aver buttato un’occhiata alle panche vuote, feci un gran sorriso, gettai il parasole nella raccolta dei vestiti usati per i poveri, sollevai le gonne fin sopra alle ginocchia e, attraverso la porta posteriore, uscii di corsa nel cimitero soleggiato.

Mi precipitai lungo un sentiero tortuoso tra lapidi instabili, facendo in modo di mantenere la cappella tra me e qualsiasi testimone che in quel momento fosse passato per la strada del paese. Quando raggiunsi la siepe che circondava la proprietà, invece che arrampicarmi per la scaletta, la superai con un balzo, svoltai a destra, corsi ancora un po’ e sì, eccola lì, sì! La mia bicicletta mi aspettava nascosta in mezzo alla siepe dove l’avevo lasciata il giorno precedente. O piuttosto la notte precedente, durante le ore piccole e al chiaro di una luna quasi piena.

Sulla bici avevo montato due recipienti, un cestino sul davanti e una scatola sul retro, entrambi strabordanti di panini, cetriolini, uova sode, borracce d’acqua, bende per eventuali incidenti, un kit per riparare le ruote, pantaloni alla zuava, i miei vecchi, comodi stivali neri, uno spazzolino da denti e oggetti simili.

Avevo montato due contenitori anche addosso a me, nascosti sotto l’abito color grigio talpa: uno davanti e uno dietro. Quello davanti era una specie di modellatore per il busto assai singolare che mi ero cucita in segreto con dei tessuti sottratti dall’armadio di mamma. Per il recipiente posteriore avevo ideato un’imbottitura simile.

Perché mia madre se n’era andata indossando un sellino privo dell’imbottitura di crini?

La risposta mi pareva ovvia: per poter nascondere al suo posto il bagaglio che le serviva per scappare.

E io, avendo la fortuna di avere un busto piatto, avevo copiato il suo stratagemma, migliorandolo. I miei svariati regolatori, cuscinetti e imbottiture erano rimasti a Ferndell Hall, incastrati nella canna del camino, a dire il vero. Al loro posto indossavo contenitori di tessuto, o meglio, dei veri e propri bagagli che avevo riempito di indumenti innominabili avvolti attorno a mazzette di contanti. Avevo inoltre selezionato con attenzione un vestito di scorta, che avevo poi ripiegato e infilato tra le sottogonne, dove donava un volume perfetto al mio strascico. Nelle tasche del mio vestito avevo un fazzoletto, una saponetta, un pettine e una spazzola, il mio ormai prezioso libriccino sui messaggi in codice, sali per l’inalazione, caramelline energetiche... Diciamo che mi ero portata dietro provviste a sufficienza da riempire un baule.

Balzando sul sellino della bici, lasciai cadere con modestia le gonne e le sottogonne fino alle caviglie e mi misi a pedalare attraverso la campagna.

Un buon ciclista non necessita di una strada. Per il momento avrei seguito i viottoli dei campi e dei pascoli. Il terreno era duro come l’acciaio per via del sole; non avrei lasciato alcuna traccia.

Sapevo che già l’indomani mio fratello, il grande detective Sherlock Holmes, si sarebbe messo alla ricerca della propria sorella scomparsa, oltre che della propria madre scomparsa.

Avrebbe dato per scontato che sarei scappata via, lontana da lui. Per questo non lo feci. Scappai verso di lui.

Viveva a Londra, come Mycroft. Per questa ragione, e anche perché era la città più grande e pericolosa del mondo, era l’ultimo posto sulla Terra dove avrebbero immaginato che mi sarei avventurata.

Quindi era lì che dovevo andare.

Avrebbero supposto che mi sarei travestita da ragazzo. Con ogni probabilità, avevano saputo che andavo in giro indossando pantaloni alla zuava e, in ogni caso, in Shakespeare e in altre opere di finzione, le ragazze fuggitive si travestono sempre da maschio.

Di conseguenza, io non l’avrei fatto.

Mi sarei camuffata in un modo che non avrebbero mai supposto, avendomi conosciuta come una ragazzina magra magra con i vestiti che a malapena coprivano le ginocchia.

Mi sarei travestita da donna adulta.

E poi mi sarei messa sulle tracce di mia madre.