CAPITOLO
QUATTORDICESIMO
Ansimando, ci fiondammo in una stanza buia, sporca e caotica, tanto angusta che mi sembrò di essere precipitata in un forno. Su una parete era appesa una serie di lunghe cappe e mantelli; per nasconderci di corsa ci infilammo tra le loro fitte pieghe. Tremante, serrando i pugni, guardai la porta d’ingresso in attesa di vedere se i miei soldi avessero sortito l’effetto desiderato.
«Nasconditi sotto il tavolo!» sussurrò Tewky.
Feci cenno di no. Fissai la porta d’ingresso e la finestra, tenendomi pronta a scappare, e vidi la folla disperdersi per far passare il massiccio tagliagole e il suo cane da guardia mentre si catapultavano lungo la strada lanciando occhiatacce in tutte le direzioni. Vidi il furfante più grosso afferrare un bighellone per il colletto, quasi sollevarlo da terra e urlargli in faccia. Il poveretto fece segno con la mano nella nostra direzione.
Dove fosse sparita la signora Culhane non lo sapevo proprio.
Ma poi riapparve, dandomi la schiena; sembrava una tartaruga a quadrettoni, con i lacci del grembiule legati in un fiocco floscio attorno ai fianchi.
Il nostro nemico dal viso rotondo e il suo aiutante le andarono incontro a grandi falcate. I due svettavano sopra di lei. Perfino quello rachitico era più alto della signora. Non penso sarei stata abbastanza coraggiosa da incontrare i loro sguardi feroci.
La tozza vecchietta ostruiva l’entrata come un tappo. La vidi scuotere la testa, la vidi indicare verso l’altro lato della strada. Vidi l’ingresso illuminato dal sole che la circondava come un’aura gloriosa. Vidi i due mascalzoni voltarsi e andarsene.
Aggrappata a uno dei mantelli per sostenermi, mi abbandonai contro la parete, invasa da un’ondata di sollievo.
Tewky si piegò in due come un cavalletto, afflosciandosi sul pavimento.
La signora Culhane ebbe il buon senso di non rientrare subito, ma rimase ancora un po’ alla porta. Quando ci venne incontro avevo recuperato le forze, trovato una stanza sul retro con dell’acqua corrente e bagnato una pezza di flanella rossa sbiadita che avevo applicato al viso di Tewky. Quando si fu messo a sedere, io trasferii la mia attenzione ai suoi piedi sofferenti. Tamponandoli con lo straccio nel tentativo di rimuovere lo sporco e il sangue senza fargli troppo male, mi ero messa a esaminare le piante scorticate e doloranti dei suoi piedi, quando la nostra salvatrice, la donna rospo, entrò, chiuse la porta del negozio a chiave, abbassò la tendina e mi venne incontro dondolandosi come una papera.
«Allora» disse «prima sei una vedova in lutto e poi salta fuori che sei una mocciosa in fuga da Cutter e Squeaky.»
«Ah, sì? E chi sarebbero i due signori? Non siamo stati presentati.»
«Non ne dubito. Stai usando la mia panciera a mo’ di straccio.»
Mi alzai. «Santo cielo, pensavo di averti pagato abbastanza.»
Mi guardò senza sorridere, il suo tono quel giorno non ricordava affatto l’allegro cinguettio di un pettirosso, nessun “paperella” per me. Disse: «Quello che mi hai dato è finito ai vicini e ad altri che hanno visto».
Mi resi conto che in parte doveva essere vero. Era scomparsa dall’ingresso per negoziare il silenzio dei passanti.
Ma dal furbo luccichio dei suoi occhi, intuii anche che non doveva essere completamente vero, aveva promesso ai vicini qualche scellino o al massimo un paio di sterline.
Tuttavia, nella sua espressione intravvidi un che di onesto quando mi disse: «È meglio che tu abbia dell’altro denaro nascosto da qualche parte. Cutter mi aprirebbe da parte a parte se sapesse la verità, puoi starne certa. Sto rischiando la mia vita per voi».
«Se ci darai quello di cui abbiamo bisogno, ne avrai dell’altro» le risposi.
Fu così che il giorno seguente io e Tewky sgattaiolammo fuori dalla bottega attraverso la porta sul retro, rinvigoriti e trasformati. Ci eravamo rifugiati nella sua cucina malmessa – viveva infatti in tre stanze al primo piano sopra alla bottega – e avevamo mangiato con gratitudine il suo porridge grumoso. Io avevo dormito sul divano puzzolente, Tewky su alcune coperte ammucchiate sul pavimento. Ci eravamo lavati con una spugna. Avevamo applicato ai piedi di Tewky dell’Eutra Tetina (un unguento utilizzato solitamente per le mammelle delle mucche), poi li avevamo fasciati. Ci eravamo vestiti con degli abiti di seconda mano di Culhane, e bruciato i nostri vecchi indumenti nella stufa della cucina.
Non avevamo parlato, nemmeno per dirci i reciproci nomi. La nostra oste dall’espressione corrucciata non ci aveva fatto domande, e noi non le avevamo dato alcuna informazione. Io e Tewky non avevamo nemmeno conversato tra di noi, per paura che lei origliasse. Non mi fidavo di lei; non avevo dubbi che mi avrebbe separato da tutti i miei soldi, se avesse scoperto dove li tenevo. Di conseguenza, non mi spogliai mai in sua presenza, e non rimossi mai il mio corsetto, nemmeno per dormire. Quell’indumento, che un tempo avevo tanto odiato, era diventato il mio bene più prezioso. Sempre che non lo stringessi troppo! La sua gabbia d’acciaio mi aveva salvato la vita. La struttura inamidata sosteneva e camuffava il mio modellatore per il busto, le imbottiture e i regolatori dei fianchi, che a loro volta mascheravano me e le mie finanze.
Credo e spero che la signora Culhane – sempre che quello fosse il suo vero nome – non abbia mai scoperto il mio segreto. Parlammo solo di affari: era in grado di fornire al ragazzo degli abiti non troppo usati, un cappello, un paio di scarpe larghe e dei calzini spessi? E, per me, un vestito e una gonna con un sellino o a gheroni come quella che indosserebbe una dattilografa o una venditrice di guanti, fatta di un materiale semplice, con delle tasche? E una giacca, anch’essa con le tasche, e con un orlo scampanato in grado di coprire la parte superiore della gonna? E dei guanti non troppo rovinati, e un cappello non troppo fuori moda? E avrebbe potuto aiutarmi un po’ ad acconciare i capelli?
Uscendo da quel posto senza lo spesso velo nero da vedova a coprirmi il viso mi sentivo nuda, ma in realtà nemmeno i miei fratelli mi avrebbero riconosciuta. Camminavo ingobbita, strizzando gli occhi attraverso un paio di occhiali a pince-nez appollaiato sul ponte del naso come un bizzarro uccello di metallo. Oltre alle lenti, la spessa frangia questo libro,come tutti gli altri,è stato rubato al sito eur.ekaddl,cercaci su googledi una parrucca mi decorava e nascondeva la fronte, contribuendo assieme al pince-nez ad alterare il mio profilo. Sui capelli portavo un cappello di paglia bordato di pizzo e piume, molto simile a un qualsiasi cappello di paglia da quattro soldi che una giovane donna in difficoltà economiche avrebbe indossato in città.
«Ora mi serve solo un parasole» dissi alla signora Culhane.
Me ne diede uno tinto artificialmente di un verde orrendo ma alla moda, poi ci accompagnò alla porta sul retro e ci tese la mano. Lasciai un’altra banconota nel suo pugno, come promesso. Poi ci fece uscire e ci chiuse la porta alle spalle senza dire una parola.
Una volta raggiunta la strada, trascinai i piedi uno dietro all’altro, fingendo di essere mezza cieca e avanzando a tentoni con il parasole chiuso. Mi muovevo così sia per dare credibilità al mio travestimento, sia per far sì che Tewky, che aveva i piedi ancora parecchio doloranti, non apparisse in difficoltà, ma sembrasse invece camminare piano per accompagnarmi. Con i nostri vestiti né nuovi né eccessivamente usati, né costosi né economici, speravo di riuscire a passare inosservati. Volevo che nessuno desse nuove informazioni a Cutter.
Tuttavia, non avevo ragione di preoccuparmi. Tutt’attorno a noi, la gente si faceva i fatti propri e non ci guardava minimamente. Londra, quel gran calderone di mattoni e pietre, pareva ribollire di un vortice perpetuo di attività umana. Un uomo con un carretto gridò: «Ginger beer! Ginger beer fresca per rinfrescarvi le gole impolverate!» Un’innaffiatrice su ruote avanzava seguita da una coda di ragazzini che spazzava la strada selciata. Un postino ci sorpassò pedalando sul triciclo più bizzarro che avessi mai visto, con due ruote di fronte invece che sul retro, e un grosso cesto fissato con una cinghia al manubrio. A un angolo, tre ragazzini mori cantavano armonizzando come angioletti in una lingua che non conoscevo, quello in mezzo mi tese un bicchiere in terracotta sperando di ricevere qualche penny. Appena dietro di loro, sopra alle testoline, un uomo vestito di stracci con in mano un barattolo di colla e una spazzola faceva l’equilibrista su una scala mentre appiccicava ai muri cartelloni pubblicitari su verniciatura di scarpe, fasciature elastiche contro i reumatismi e bare di sicurezza. Degli uomini in giacca e pantaloni bianchi stavano attaccando un avviso di quarantena alla porta di una casa. Mi chiesi di sfuggita quali vili febbri e malattie si sollevassero dalle putride acque del Tamigi e se sarei morta di colera o scarlattina dopo aver messo piede sul vascello di Cutter.
Cutter. Che incantevole delinquente. In una delle mie tasche, assieme ai soldi e a vari altri oggetti utili che avevo trasferito lì dal mio modellatore per il busto, avevo una lista scritta nella notte precedente durante alcune ore di veglia:
- Perché Cutter ha perlustrato il treno?
- Perché mi ha seguita?
- Perché pensava che io sapessi dove trovare Tewky?
- Perché aveva inviato un telegramma a Squeaky in cui gli diceva di cercare Tewky al porto?
- Cosa intendeva con “nello stesso modo”?
- È un rapitore professionista?
Come poteva essere a conoscenza anche del minimo dettaglio su Tewky e il Great Eastern?
Già, come? Ne avevo parlato solo con l’ispettore Lestrade, mentre madame come-si-chiama, la perditoriana astrale, origliava.
Era stato forse l’ispettore a riferirlo a qualcun altro? Magari in un secondo momento… Ma non doveva prima preoccuparsi di verificare la veridicità delle informazioni che gli avevo fornito? Eppure quel telegramma doveva essere stato inviato a Squeaky quasi subito.
Mmm.
Erano questi i miei pensieri mentre io e il mio accompagnatore claudicante attraversavamo un isolato dopo l’altro fino a raggiungere un quartiere migliore. Lì trovammo una specie di parco, uno spiazzo d’erba con quattro alberi sotto i quali alcune donne stavano spingendo delle carrozzine e un uomo con un asino gridava: «Giro sull’asino, regalatelo ai vostri bimbi, un penny a testa!» Vicino agli alberi notai una fila di carrozze. Ne avrei potuta noleggiare una, così il mio piccolo lord non avrebbe dovuto camminare con i piedi doloranti.
Essendo stati in guardia fino a quel momento, non avevamo scambiato mezza parola, ma ora che ci eravamo lasciati alle spalle i covi di Cutter, mi voltai verso il mio compagno e sorrisi.
«Dunque, Tewky» dissi.
«Non chiamarmi in quel modo.»
Mi stizzii. «Molto bene, lord Tewksbury di Basilwether-o-water…» Ma il mio fastidio si dissolse non appena un pensiero mi colpì. Chiesi: «Come ti devo chiamare? Che nome hai scelto quando sei scappato di casa?»
«Io…» Scosse il capo e guardò da un’altra parte. «Lascia stare, non ha più alcuna importanza.»
«Perché? Che cosa hai intenzione di fare?»
«Non lo so.»
«Vuoi ancora imbarcarti?»
Si voltò a fissarmi. «Tu sai tutto… Come fai? E chi sei? Sei davvero imparentata con Sherlock Holmes?»
Mi morsi il labbro perché capivo che parlargli di me non sarebbe stata una buona idea: sapeva già troppo. Fortunatamente, in quel momento uno strillone latrò dall’angolo vicino al parcheggio delle carrozze: «Leggete i giornali! Richiesta di riscatto per il visconte Tewksbury Basilwether!»
«Cosa?» esclamai. «È… assurdo!» Quasi dimenticandomi di strizzare gli occhi e di strascicare i piedi, mi precipitai a comprare un giornale.
SVILUPPO SENSAZIONALE
NEL CASO DEL RAPIMENTO
diceva il titolo impresso ancora una volta sopra a un ritratto di Tewky à la piccolo lord.
Dopo essersi seduto accanto a me su una panchina del parco per leggere, Tewky si fece scappare un suono soffocato di sconforto. «La mia… fotografia?»
«Già, l’ha vista tutto il mondo» lo informai con una certa soddisfazione, lo ammetto. Poi, siccome lui non rispondeva, gli lanciai un’occhiata e scorsi sul suo viso rosso fuoco un’espressione di umiliazione assoluta.
«Non posso tornare a casa» disse. «Mai più.»
Perso il buonumore, gli chiesi: «E se qualcuno dovesse riconoscere l’immagine? La signora Culhane, per esempio».
«Quella? Te la immagini che prende in mano un giornale? Non sa nemmeno leggere. In quei bassifondi nessuno sa leggere. Hai per caso visto qualche strillone al porto?»
Aveva ragione, ovviamente, ma piuttosto che ammetterlo, focalizzai tutta la mia attenzione sul testo dell’articolo:
Un colpo di scena del tutto imprevisto ha avuto luogo questa mattina a Basilwether Hall, Belvidere, luogo della recente scomparsa del visconte Tewksbury, marchese di Basilwether, dove è pervenuta una richiesta di riscatto non firmata. Nonostante l’arguta scoperta da parte del capo ispettore Lestrade di un deposito segreto di strumenti nautici appartenenti al giovane lord in un nascondiglio tra le cime degli alberi…
«Oh, no» sussurrò Tewky con rinnovata angoscia. Imba-razzata, continuai a leggere senza commentare.
…e le sue energiche indagini al porto di Londra, dove ha individuato diversi testimoni oculari che sostengono di aver visto il giovanotto il giorno stesso della sua scomparsa…
La quale, mi resi conto, aveva avuto luogo solo un giorno dopo la mia. Nel frattempo erano successe talmente tante cose che non riuscivo a credere di aver lasciato Ferndell Hall solo tre giorni prima.
…attualmente si pensa che il visconte, erede del titolo e del patrimonio di Basilwether, sia stato rapito. Consegnata stamattina con la posta, una breve missiva composta con i ritagli di alcuni periodici richiedeva il pagamento di una grossa somma, il cui ammontare la famiglia preferisce non rivelare. In assenza di prove che lord Tewksbury sia realmente finito nelle mani di questo o questi individui sconosciuti, le autorità sconsigliano di pagare il riscatto. Tuttavia, la nota medium e perditoriana astrale, madame Laelia Sibyl de Papaver, convocata dalla famiglia di Basilwether allo scoppiare della crisi, consiglia con decisione di pagare il riscatto, da raccogliersi in sterline d’oro e ghinee, in attesa di ricevere istruzioni per la consegna, poiché gli spiriti con i quali è in contatto l’hanno informata che il visconte Tewksbury è davvero tenuto in ostaggio e la sua vita sarà messa in pericolo se i rapitori non riceveranno la piena cooperazione della sua famiglia. Madame Laelia…
L’articolo si dilungava ancora, ma a quel punto smisi di leggere. Restai invece lì seduta a fissare… il parcheggio delle carrozze, a dire il vero. Cioè quello che io e Tewky avevamo davanti agli occhi: carrozze sportive a due ruote e carrozze a quattro ruote, meno agili ma più spaziose, cavalli dai manti lucidi e altri rachitici che facevano frusciare le code mentre ruminavano la biada nelle musette, vetturini corpulenti e anche trasandati che bighellonavano in attesa di lavoro. Ma, in realtà, non stavo davvero vedendo nulla di tutto ciò. Stavo invece cercando di ricordare che aspetto avesse madame Laelia, ma erano accadute talmente tante cose negli ultimi tre giorni che non mi era rimasto più di un vago ricordo di capelli rossi, viso largo, corpo imponente e grosse mani coperte da guanti gialli di pelle di capretto…
Una vocetta disse: «Devo tornare a casa».
Ci volle un attimo prima che riuscissi a voltarmi per prestare attenzione a Tewky che, pallido, bello e dall’aspetto molto giovane, ricambiò il mio sguardo.
«Devo tornare a casa» ripeté. «Non posso permettere a quei maledetti furfanti di derubare la mia famiglia.»
Annuii. «Quindi hai un’idea su chi abbia inviato la richiesta di riscatto.»
«Sì.»
«E immagini, come lo immagino io, che ti stiano ancora dando la caccia.»
«A entrambi. Sì.»
«Dovremmo andare alla polizia.»
«Suppongo di sì.» Distolse subito lo sguardo.
Studiò le punte delle sue scarpe nuove, nuove per modo di dire, dato che erano state fabbricate con pezzi di pelle riciclati da vecchi stivali.
Attesi.
Infine, disse: «Non era come lo immaginavo, comunque… Il porto, intendo. L’acqua è putrida, e anche le persone. Non apprezzano chi cerca di lavarsi, pensano sia snob. Anche i mendicanti gli sputano. Qualcuno mi ha rubato i soldi, gli stivali, anche la calzamaglia… Certa gente è talmente cattiva che deruberebbe perfino le striscianti».
«Le… striscianti?»
«Sì, le chiamano anche le dormienti, perché sono sempre stanche, dormono molto. Non ho mai visto qualcuno di più miserabile.» Abbassò la voce. «Sono donne anziane a cui non resta nulla, nemmeno la forza per stare in piedi. Stanno sedute sui gradini dell’ospizio, mezze addormentate ma senza poter posare il capo, troppo vicine alla morte per riuscire anche solo a mendicare. Se qualcuno dà loro un penny per comprarsi un tè, vanno a prenderselo strisciando.»
Con un colpo al cuore mi ricordai della vecchia senza capelli che avevo visto strisciare sul marciapiede, la testa coperta di piaghe.
«E poi tornano nello stesso identico posto, strisciando» disse Tewky, la voce sempre più bassa e strozzata. «E restano sedute lì. Tre volte al mese viene loro concesso un pasto e una notte di riposo nell’ospizio. Tre volte. Se chiedono di più, vengono sbattute in prigione e costrette a tre giorni di lavoro forzato.»
«Cosa?! Ma pensavo che gli ospizi dovessero aiutare i meno fortunati.»
«Già, anch’io lo pensavo. Ci sono andato per chiedere delle scarpe e loro… mi hanno riso in faccia e picchiato con un bastone. Mi hanno cacciato. E poi… quell’uomo malvagio…»
Il pensiero di Squeaky gli riempì gli occhi di lacrime. Smise di parlare.
«Sono felice che tu abbia deciso di tornare a casa» dissi dopo un momento. «Tua madre sarà fuori di sé dalla gioia quando ti vedrà. Non fa altro che piangere, sai.»
Annuì, accettando senza fare domande che sapessi anche quel dettaglio, dato che gli sembrava che sapessi tutto.
«Sono certa che riuscirai a convincerla a non farti più indossare quei vestiti da piccolo lord.»
Con un filo di voce sussurrò: «Non m’importa più dei vestiti. Prima non sapevo…»
Non terminò la frase, ma credo che stesse pensando ancora alle dormienti, quelle povere donne striscianti, vive solo per metà. O forse ai propri piedi scalzi, doloranti, e al porto, e a Squeaky, e all’essere stato preso a calci come un cane.
I due giorni trascorsi a Londra avevano insegnato anche a me tante cose di cui prima non ero consapevole. E adesso che lo ero, le mie sfortune personali apparivano molto più insignificanti.
Mi alzai e feci cenno a una carrozza, una aperta a due ruote; volevo che ce ne andassimo con stile. Come un vero gentiluomo, Tewky mi porse la mano per salire mentre io davo indicazioni al conducente: «A Scotland Yard».