CAPITOLO
SECONDO
Dopo aver sorseggiato il tè che la signora Lane mi aveva obbligato a bere, indossai un paio di pantaloni alla zuava asciutti e mi preparai ad andare in paese per consegnare le mie lettere.
«Ma la pioggia… è così bagnato! Può portarle Dick» suggerì la signora Lane, torcendosi di nuovo le mani nel grembiule. Si riferiva a suo figlio maggiore, che a volte sbrigava qualche faccenda attorno alla proprietà mentre il collie, Reginald, di sicuro più sveglio di lui, lo supervisionava.
Piuttosto che confessare alla signora Lane di non voler affidare questa commissione importante a Dick, dissi: «Devo fare anche qualche indagine, mentre sono in città. Prendo la bicicletta».
Non si trattava di un vecchio catorcio arrugginito, ma di una moderna e affidabile bicicletta con le ruote pneumatiche.
Pedalando sotto alla pioggerella, mi fermai un momento alla dépendance. Per essere in una tenuta, la dimora di Ferndell era un po’ piccola, sembrava una semplice casetta di pietra con il petto gonfio all’infuori dall’orgoglio; in ogni caso necessitava di un viale, di un cancello e, di conseguenza, di una dépendance.
«Cooper» dissi al guardiano «mi apriresti il cancello, per favore? Per caso ricordi di averlo aperto anche per mia madre, ieri?»
Senza mascherare lo stupore, Cooper mi rispose di no. In nessun momento la signora Eudoria Holmes era passata di là. Dopo essere uscita, percorsi la breve distanza che mi separava dal paese di Kineford. All’ufficio postale mandai i telegrammi. Poi consegnai la lettera al comando di polizia e parlai con un agente prima di andare a sbrigare le altre commissioni. Mi fermai dal parroco, dal fruttivendolo, dal panettiere, dal pasticciere, dal macellaio, dal pescivendolo e avanti così, chiedendo nel modo più discreto possibile notizie su mia madre. Nessuno l’aveva vista. La moglie del parroco, tra gli altri, mi rivolse un’alzata di sopracciglia, forse perché stavo indossando dei pantaloni alla zuava. Per pedalare in pubblico, vedete, avrei dovuto indossare un paio di bloomers (un tipo di mutandoni coperti da una gonna impermeabile) o almeno una gonna qualsiasi, lunga abbastanza da arrivare alle caviglie.
Sapevo che mia madre veniva criticata perché non copriva in maniera dignitosa cose volgari tipo il secchio per il carbone, la coda del suo pianoforte, o me.
Che ragazzina scandalosa ero.
Non affrontavo mai il tema della mia sciagurata situazione, perché farlo avrebbe significato addentrarsi in questioni sulle quali una ragazza “perbene” non doveva indugiare. Avevo tuttavia notato che quasi tutte le donne sposate ogni anno o due scomparivano nelle proprie case e ne riemergevano qualche mese dopo con un nuovo figlio, e continuavano così fino al dodicesimo più o meno, poi smettevano, o morivano. Mia madre, invece, aveva messo al mondo solo i miei due fratelli maggiori. Per qualche ragione, quella sua moderazione iniziale aveva fatto sì che la mia nascita tardiva risultasse ancora più scandalosa per un gentiluomo appartenente al movimento razionalista e sua moglie, un’artista di buona famiglia.
Le malelingue si misero a parlottare mentre pedalavo attorno a Kineford, stavolta chiedendo notizie alla locanda, alla fucina, alla tabaccheria e al pub, tutti luoghi dove le “brave” ragazze mettevano piede di rado.
Non ottenni alcuna informazione.
E nonostante i molti sorrisi che dispensai e il mio modo di fare disinvolto, mentre tornavo scoraggiata a Ferndell Hall riuscii quasi a udire un crescendo di pettegolezzi concitati, congetture e maldicenze sollevarsi alle mie spalle.
«Nessuno l’ha vista» risposi allo sguardo interrogativo della signora Lane «né ha idea di dove potrebbe trovarsi.»
Rifiutai un’altra volta il pasto che insisteva nel prepararmi, essendo ormai quasi ora di cena, e mi trascinai di sopra, dove si trovavano le stanze appartenenti a mia madre. Mi fermai alla porta d’ingresso del corridoio, riflettendo. Mamma la teneva sempre chiusa a chiave. Per risparmiare seccature alla signora Lane, essendo quest’ultima e il marito gli unici domestici, mamma sistemava le proprie stanze da sola. Non permetteva quasi a nessuno di entrare, ma viste le circostanze… lo feci.
Nel momento in cui poggiai la mano sul pomello della porta pensai che sarei dovuta andare da Lane a chiedergli la chiave. Tuttavia, il pomello ruotò nella mia mano, la porta si aprì. E, se anche non lo avessi saputo già da prima, in quel momento realizzai che tutto era cambiato.
Guardandomi attorno nel silenzioso salotto di mia madre, mi sentii più riverente di quanto non sarei stata in una cappella. Vedete, avevo letto i libri di logica di mio padre, e quelli di Malthus e Darwin. Come i miei genitori, anche io credevo nella razionalità e nella scienza, ma trovarmi in quel momento nella stanza di mamma mi fece venir voglia di credere in… qualcosa. Nell’anima, forse, o nello spirito.
Mamma aveva trasformato quella stanza in un santuario per lo spirito artistico. Abbellivano le finestre tende di seta con un motivo di fiori di loto, accostate per far filtrare la luce su slanciati mobili in legno d’acero intagliati per somigliare al bambù, un arredamento molto diverso dalle imponenti suppellettili di mogano del soggiorno: laggiù il mobilio era verniciato, le finestre erano incorniciate da pesanti tende di serge e sulle pareti erano appesi cupi ritratti a olio dei nostri antenati. Nel regno di mia madre, invece, il legno era dipinto di bianco e sulle pareti color pastello erano appesi centinaia di acquerelli delicati: i fantasiosi e dettagliati studi di fiori di mamma, mai più grandi di un comune foglio di carta e impreziositi da cornici leggere. Per un momento ebbi la sensazione che mamma fosse nella stanza, che fosse sempre stata là. Lo desideravo. Dolcemente, come se non volessi disturbarla, mi spostai in punta di piedi nella stanza confinante, il suo studio: uno spazio semplice con le finestre spoglie per far entrare la luce e un pavimento di quercia altrettanto spoglio per agevolare le pulizie.
Mentre passavo in rassegna il cavalletto, la scrivania da disegno inclinata, le cataste di carta e gli altri oggetti, notai una scatola di legno e aggrottai la fronte.
Ovunque fosse andata, mamma non aveva portato con sé il suo set di acquerelli.
Ma io avevo dato per scontato che…
Che sciocco da parte mia. Mi sarei dovuta dirigere immediatamente qui! Non era affatto uscita per andare a disegnare. Era andata… da qualche parte, per qualche ragione che semplicemente non conoscevo né comprendevo. Come avevo potuto pensare di trovarla da sola? Ero stupida, stupida, stupida.
Attraversai la porta successiva a passi pesanti, ed entrai nella camera da letto. Mi bloccai all’improvviso, stupita per varie ragioni. Innanzitutto, per lo stato in cui si trovava il lucente letto di ottone: disfatto. Ogni mattina della mia vita, mamma si era assicurata che rifacessi il letto e sistemassi la mia stanza subito dopo la colazione; di sicuro non avrebbe lasciato il suo letto così, con le lenzuola aggrovigliate, i cuscini di traverso e il piumino riverso sul tappeto persiano.
Inoltre, i suoi vestiti non erano stati messi a posto. L’abito da passeggio di tweed marrone era stato gettato con noncuranza sopra lo specchio.
Ma se non aveva indossato il suo solito completo da passeggio (quello con la gonna che grazie a delle stringhe si poteva sollevare per non far sporcare o bagnare altri indumenti oltre alla sottogonna, ma che si poteva far ricadere in un secondo nel caso in cui fosse apparso un uomo all’orizzonte), se non aveva usato quell’indumento moderno e perfetto per la campagna… allora cosa aveva indossato?
Dopo aver scostato le tende di velluto per far entrare la luce, spalancai le ante dell’armadio e cercai di raccapezzarmi nel caos di vestiti che vi trovai: lana, pettinato, mussola e cotone ma anche damasco, seta, tulle e velluto.
Vedete, mia madre era una libera pensatrice, una donna ammirevole, una sostenitrice del suffragio femminile e della Riforma dell’abbigliamento, in particolar modo del morbido e arioso abito dal gusto estetico propugnato da Ruskin. Ma, che le piacesse o no, era anche la vedova di un proprietario terriero, e dunque aveva determinati obblighi: aveva abiti da passeggio e bloomers, ma anche vestiti formali per le visite, un abito scollato da indossare a cena, una mantella per l’opera e una veste da ballo, quella color ruggine che aveva portato per anni; d’altronde non le interessava essere alla moda, né buttava via nulla. C’erano gli “abiti da lutto”, che aveva indossato per un anno dopo la scomparsa di mio padre. C’era un vestito verde patinato risalente ai tempi in cui praticava la caccia alla volpe. C’era il suo lungo abito grigio mantellato per la città. C’erano mantelli di pelliccia, giacche di raso imbottite, gonne con motivo cachemire, vestiti su vestiti… non riuscii a capire quali abiti mancassero da quel garbuglio color malva, granata, ardesia, lavanda, oliva, nero, ambra e marrone.
Chiudendo le ante dell’armadio, tornai a guardarmi attorno con perplessità.
La stanza era tutta in disordine: due metà di un corsetto privo di stecche, assieme ad altri oggetti sparsi, erano state abbandonate in piena vista sul portacatino di marmo, mentre sul comò era stata appoggiata una cosetta bizzarra simile a un cuscino rigonfio, fatto di molle e nuvole di crine bianco. Sollevai quello strano oggetto, elastico al tocco, e, non riuscendo a comprenderne la natura, lo portai con me uscendo dalle stanze di mia madre.
Al piano inferiore, nel corridoio, incontrai Lane che lucidava le superfici di legno. Gli mostrai il mio ritrovamento e domandai: «Lane, sai cos’è questo?»
Essendo un buon maggiordomo, fece il possibile per non lasciar trapelare alcuna emozione, ma rispose farfugliando: «Ehm, si tratta di un’imbottitura per vestiti, signorina Enola».
Un’imbottitura per vestiti?
…di sicuro non per il davanti. Quindi doveva servire per il dietro.
Ah.
Tenevo in mano, sorreggendone le pieghe e i drappeggi, in un luogo pubblico e alla presenza di un uomo, l’innominabile oggetto che una gentildonna nascondeva all’interno del proprio sellino.
«Chiedo scusa!» esclamai, sentendo il calore che mi assaliva le guance. «Io… non ne avevo idea.» Non avendo mai portato un sellino, non avevo nemmeno visto un oggetto simile prima d’allora. «Chiedo infinitamente scusa.» Tuttavia, un pensiero urgente sconfisse il mio imbarazzo. «Lane» lo interpellai «com’era vestita mia madre quando è uscita, ieri mattina?»
«È difficile ricordarsene, signorina.»
«Portava un bagaglio di qualche tipo, o pacchetti?»
«No, signorina.»
«Nemmeno una borsa o una borsetta?»
«No, signorina.» Mia madre portava raramente oggetti di quel tipo. «Penso che me ne sarei accorto se li avesse avuti con sé.»
«Per caso stava indossando un abito con un, ehm…» Usare la parola “sellino” con un uomo sarebbe stato indelicato. «Con uno strascico? Una tournure?»
Non sarebbe stato da lei.
Ma Lane, come se si stesse lentamente ricordando qualcosa, annuì. «Non riesco a richiamare di preciso alla mente che abiti indossasse, signorina Enola, ma ricordo che portava la sua lunga giacca dalla coda arrotondata.»
Sotto quella giacca ci sarebbe potuto stare benissimo un sellino.
«E il cappello grigio alto.»
Conoscevo quel cappello. Pensato per assomigliare a un cappello da militare, in realtà sembrava un vaso capovolto, ed era talvolta chiamato volgarmente “tre-piani-e-un-pianterreno”.
«E portava il suo ombrello da passeggio.» Ossia un lungo affare nero da utilizzare come bastone, se necessario, robusto come quelli dei gentiluomini.
Che strano che mia madre fosse uscita con un ombrello e un cappello da uomo, ma facendo mostra allo stesso tempo dell’ornamento femminile più provocante: il sellino.