CAPITOLO
DECIMO

Una volta tornata a terra con le gonne abbassate come una vera signora, il cappello nero fissato al suo posto con le forcine per coprire i capelli scompigliati e il velo tirato giù per nascondermi il volto, mi misi a camminare alla cieca. Non sapevo cosa fare.

Mi attorcigliai uno dei lunghi riccioli di capelli biondi attorno a un dito guantato. Gli altri li avevo lasciati dove li avevo trovati. Immaginavo che gli uccelli selvatici li avrebbero portati via ciocca dopo ciocca per foderare i propri nidi.

Pensai al muto, furioso messaggio che il giovane fuggiasco aveva lasciato nel suo santuario segreto.

Pensai alle lacrime che avevano rigato il viso di sua madre… Povera signora.

Ma allo stesso tempo, povero ragazzo. Obbligato a indossare pizzo e velluto. Quasi terribile quanto dover indossare un corsetto di stecche d’acciaio.

In maniera non proprio casuale, il mio pensiero corse alla mia situazione. Io, Enola, in fuga come il giovane lord Tewksbury, anche se speravo che almeno lui avesse avuto il buon senso di cambiare il proprio nome. Che sciocca ero stata a venire qui come Enola Holmes… Mi ero messa in pericolo. Dovevo andarmene.

Prima, però, dovevo rassicurare la povera duchessa…

No. No, dovevo andarmene dal parco di Basilwether il più in fretta possibile prima che…

«Signora Holmes?»

Irrigidendomi, mi resi conto di essere arrivata sul viale davanti a Basilwether Hall senza sapere se avanzare o battere in ritirata, quando dall’alto mi sentii nuovamente chiamare.

«Signora Holmes!»

Nascondendo la ciocca di capelli biondi nel palmo di una mano, mi voltai e scorsi un uomo in mantello da viaggio che si precipitava giù dai gradini di marmo per venirmi incontro. Era un detective di Londra.

«Mi perdoni se mi comporto come se la conoscessi» disse, fermandosi davanti a me, «ma il guardiano mi ha informato che si trovava qui e mi sono chiesto…» Era un uomo piccolo, il cui aspetto ricordava quello di una donnola, molto diverso dal tipo muscoloso che ci si aspetterebbe di trovare in un dipartimento di polizia, ma comunque temibile nel modo in cui mi scrutava attraverso un paio di occhietti scintillanti simili a coccinelle nere che tentavano di infilarmisi sotto il velo. Con una voce piuttosto stridula, proseguì: «Sono un conoscente del signor Sherlock Holmes. Il mio nome è Lestrade».

«E come sta?» Non gli porsi la mano.

«Molto bene, grazie. Devo dire che è un piacere inaspettato incontrarla.» Il suo tono lasciava intendere che cercava informazioni. Sapeva che il mio nome era Enola Holmes. Vedeva che ero vedova, e di conseguenza mi aveva dato della signora. Ma, doveva aver pensato, se fossi semplicemente una parente acquisita della famiglia Holmes, perché Sherlock avrebbe mandato me a rappresentarlo? «Devo dire che Holmes non mi ha mai parlato di lei.»

«Dunque è così.» Annuii educatamente. «E lei invece parla della sua famiglia con lui?»

«No! Ehm… Voglio dire, non c’è stata occasione.»

«No, certo che no.» Sperai che il mio tono suonasse moderato, anche se i miei pensieri cinguettavano come un uccellino. Alla prima buona occasione questo ficcanaso avrebbe detto a Sherlock di avermi incontrata e in quali circostanze. No, peggio! Lavorando come investigatore per conto di Scotland Yard, Sherlock avrebbe potuto ricevere un telegramma che mi riguardava in qualsiasi momento. Dovevo andarmene prima che accadesse, quell’uomo già sospettava di me. Dovevo distrarre l’ispettore Lestrade affinché non ispezionasse me.

Aprendo la mano guantata, srotolai la ciocca di capelli biondi e gliela mostrai.

«Per ciò che concerne lord Tewksbury» dissi con tono autoritario mimando quello del mio noto fratello «non è stato rapito.» Zittii con un gesto il tentativo di protesta dell’ispettore. «Ha preso la situazione nelle proprie mani ed è scappato. Lo farebbe anche lei, se la obbligassero a vestirsi come una bambolina in abiti di velluto. Vuole diventare marinaio, imbarcarsi. In una nave, intendo.» Nel nascondiglio del giovane visconte avevo visto disegni di navi a vapore, clipper e vascelli di vario tipo. «Ammira in particolare quella barca enorme e mostruosa che assomiglia a un trogolo galleggiante per bestiame, con le vele in cima e le ruote a pale sui fianchi, come si chiama? Quella che ha posato il cavo telegrafico transatlantico?»

Ma lo sguardo dell’ispettore Lestrade rimase fisso sul ricciolo biondo che tenevo in mano. Balbettò: «Cosa… dove… come ha dedotto…»

«Il Great Eastern.» Riuscii finalmente a ricordare il nome della nave più grande del mondo. «Troverete lord Tewksbury in un porto, con ogni probabilità in quello di Londra, dove sarà alla ricerca di una cuccetta come marinaio o mozzo, visto che si è messo a far pratica di nodi. Si è tagliato i capelli. Deve aver ottenuto in qualche modo dei vestiti normali, forse dagli stallieri, dovreste interrogarli. Dopo tale trasformazione, se ha preso un treno, immagino che nessuno alla stazione avrebbe potuto riconoscerlo.»

«Ma la porta rotta… La serratura forzata!»

«L’ha fatto affinché vi metteste a cercare un rapitore anziché un fuggitivo. Abbastanza meschino da parte sua far preoccupare così sua madre» ammisi. Quel pensiero mi fece sentir meglio all’idea di rivelare ciò che sapevo. «Forse potreste dare questo a sua Grazia.» Ficcai la ciocca di capelli tra le mani dell’ispettore Lestrade. «Anche se non so se la cosa l’aiuterà a sentirsi meglio o peggio.»

Fissandomi con sguardo inebetito, l’ispettore sollevò la mano destra per prendere la ciocca del figlio del duca, ma sembrava non sapere di preciso cosa stesse facendo.

«Ma… ma dove l’ha trovata?» Allungò l’altra mano come per afferrarmi il gomito e riportarmi verso Basilwether Hall. Indietreggiando di un passo per allontanarmi dalla sua presa, mi accorsi che una terza interlocutrice stava partecipando passivamente alla nostra conversazione. Dalla cima della scala di marmo, tra le balaustre e le colonne greche, la figura incombente di madame Laelia ci osservava e ci ascoltava.

Abbassai la voce per rispondere piano all’ispettore Lestrade: «Al primo piano, o quel che è, di un acero con quattro tronchi». Indicai nella direzione giusta e mentre lui si voltava a guardare, io mi incamminai lungo il viale che portava ai cancelli con un’andatura assai più spedita di quella che ci si sarebbe aspettati da una signora.

«Signora Holmes!» mi chiamò gridando.

Senza alterare il ritmo del passo o voltarmi a guardare, alzai una mano in un segno di saluto educato ma definitivo, imitando il modo in cui mio fratello si era congedato da me con un cenno del suo bastone. Frenai l’impulso di mettermi a correre e continuai a camminare.

Quando ebbi oltrepassato il cancello, espirai.

Non avendo mai preso il treno prima di allora, fui sorpresa di scoprire che i vagoni di seconda classe erano divisi in piccoli salottini per quattro persone, con sedili in pelle che si fronteggiavano come in una carrozza. Avevo immaginato qualcosa di più aperto, come un omnibus. Ma non era così: un controllore mi guidò lungo una stretta corsia, aprì una porta e io mi ritrovai, senza ben capire come, in uno scompartimento con altri tre sconosciuti, dove mi sedetti nell’unico posto libero rivolto verso la coda del treno.

Qualche momento più tardi, mi sentii trasportare all’indietro prima con lentezza, poi sempre più velocemente, verso Londra.

Una posizione che rifletteva bene come mi sentivo: l’ispettore Lestrade aveva infatti ribaltato i miei piani al punto che non riuscivo più a decidere cosa avrei fatto di lì in poi.

Siccome aveva parlato con una sciocca vedova chiamata Enola Holmes, e siccome l’avrebbe riferito a mio fratello Sherlock, mi sarei dovuta sbarazzare del mio travestimento quasi perfetto.

In effetti, dovevo rivedere quasi interamente il mio piano.

Sospirando, appollaiata sul bordo del sedile a causa del mio sellino – o meglio, del mio bagaglio – mi preparai a intraprendere quel viaggio all’indietro. Il treno oscillava e barcollava avanzando rumorosamente a una velocità di almeno due volte superiore a quella di una bicicletta quando corre giù da un colle. Attraverso il finestrino vidi alberi ed edifici sfrecciarmi accanto a una rapidità tale che dovetti smettere di guardare fuori.

Mi sentivo un po’ nauseata, per più di una ragione.

Il mio piano, prudente e rassicurante, di trovare una carrozza a nolo, un albergo e un alloggio raffinato mentre restavo in paziente attesa, non avrebbe più funzionato. Ero stata identificata. Vista. O Lestrade o Sherlock avrebbero ripercorso i movimenti di una giovane vedova attraverso Belvidere e scoperto che avevo preso il treno espresso del pomeriggio diretto in città. Altro che indirizzare i miei fratelli verso il Galles… Nonostante non potessero avere idea dei risparmi che mi portavo dietro, avrebbero scoperto che ero andata a Londra, e non potevo farci nulla.

Eccetto forse lasciare Londra non appena fossi arrivata con il primo treno diretto verso un qualsiasi altro luogo.

Ma di sicuro mio fratello avrebbe chiesto di me alla biglietteria, e il mio vestito nero era ormai diventato un grosso bersaglio. Se Sherlock Holmes avesse scoperto che una vedova era salita su un treno per, diciamo, Houndstone, Rockingham o Puddingsworth, si sarebbe messo a investigare. E di sicuro mi avrebbe trovata con più facilità a Houndstone, Rockingham, Puddingsworth o in qualsiasi posto simile che a Londra.

Inoltre, volevo andare a Londra. Non che pensassi che mia madre fosse là – anzi, ero convita del contrario – ma l’avrei trovata con più facilità da lì. E avevo sempre sognato di andare a Londra. Palazzi, fontane, cattedrali… Teatri, l’opera, gentiluomini in frac e donne ricoperte di diamanti.

In più, ora che i miei fratelli sapevano che ero là – e il solo pensiero mi fece affiorare un sorriso sotto il velo mentre viaggiavo all’indietro verso la grande città – l’idea di nascondermi in bella vista mi attraeva ancora di più. Avrebbero cambiato idea a proposito della capacità cranica della loro scandalosa sorellina.

Molto bene. Londra.

Tuttavia, le circostanze erano cambiate e di conseguenza, una volta arrivata a Londra, non avrei potuto prendere un mezzo. Sherlock Holmes avrebbe chiesto di me ai vetturini. Per cui avrei dovuto camminare, e si stava facendo notte. In quel momento non avrei nemmeno dovuto correre il rischio di prendere una camera d’albergo, di sicuro mio fratello avrebbe chiesto informazioni a tutti quanti. Avrei dovuto camminare per un bel po’ prima di riuscire ad allontanarmi a sufficienza dalla stazione ferroviaria… ma in quale direzione? Se avessi preso la strada sbagliata, mi sarei potuta imbattere in un borseggiatore o, peggio ancora, in un tagliagole.

Alquanto spiacevole.

E, mentre questo pensiero mi attraversava la mente, distolsi lo sguardo dalla vorticosa scena fuori dal finestrino e sollevai gli occhi sulla porta di vetro del corridoio.

Per poco non scoppiai in un urlo.

Un viso largo come una luna piena faceva capolino all’ingresso del nostro scompartimento.

L’uomo ci scrutava con il naso premuto contro il vetro, passando in rassegna ciascun passeggero. Senza lasciar trapelare alcuna emozione, fissò il suo sguardo cupo su di me, poi si voltò e se ne andò.

Deglutendo, lanciai un’occhiata agli altri passeggeri per vedere se anche loro si fossero spaventati. Pareva di no. Sul sedile accanto al mio, un operaio con un berretto russava spaparanzato avendo poggiato gli umili stivali squadrati fino al centro del vagone. Davanti a lui, un tipo con un paio di pantaloni quadrettati e una lobbia, leggeva con attenzione un giornale che, a giudicare dalle acqueforti di fantini e cavalli, trattava di corse. Infine, accanto a lui e quindi di fronte a me, sedeva una tozza donnetta di una certa età che mi fissava con uno sguardo divertito.

«C’è qualcosa che non va, paperella?» chiese.

Paperella? Che appellativo strano. Feci finta di niente e chiesi semplicemente: «Chi era quell’uomo?»

«Che uomo, paperetta?»

O non l’aveva visto, o era del tutto normale che un pelatone con indosso una coppola si mettesse a spiare dentro ai salottini del treno, e io stavo facendo la figura della sciocca. Scuotendo il capo per tagliar corto, mormorai: «Lasci perdere». Il battito del mio cuore era in disaccordo.

«Ti vedo un po’ pallida sotto tutto quel nero» disse la mia nuova conoscente. Al posto di un normale cappello, quella maleducata befana sdentata indossava un’enorme cuffia fuori moda con un orlo che si apriva a campana come un fungo, legata grazie a un fiocco arancione sotto al mento irsuto. Invece di un vestito, indossava una pelliccia mezza spelacchiata, una camicetta ingiallita e una vecchia gonna viola sul cui orlo sbiadito era stata cucita una fascia nuova. Osservandomi come un pettirosso affamato di briciole, proseguì melensa: «Hai perso qualcuno di recente, paperella?»

Ah. Voleva sapere della morte del mio maritino immaginario. Annuii.

«E ora sei diretta a Londra?»

Altro cenno d’assenso.

«È la solita storia, vero, paperella?» La volgare vecchietta si piegò verso di me tanto allegra quanto pietosa. «Te ne sei trovato uno promettente, ma ora è crepato.» Usò una parola così rude… «È crepato e ti ha piantata in asso senza lasciarti i mezzi per sfamarti, nevvero? E tu, con quell’aspetto così malaticcio, stai forse aspettando il suo bambino?» All’inizio feci fatica a capire. Poi, non avendo mai sentito dire a voce alta una cosa tanto indecente, e per di più in un luogo pubblico e alla presenza di uomini (anche se nessuno dei due sembrava aver notato), rimasi senza parole per lo shock. Un rossore mi assalì il viso.

La mia amichevole tormentatrice sembrò scambiare il mio imbarazzo per assenso. Annuendo, mi venne ancora più vicina. «E ora stai pensando di trovare qualcosa per sostenerti in città? Sei mai stata a Londra, cara?»

Riuscii a scuotere la testa.

«Be’, non continuare a fare lo stesso errore, paperella, qualsiasi promessa ti facciano gli uomini.» Si sporse ancora più in avanti, come se stesse per rivelarmi un grande segreto, ma non abbassò la voce. «Se hai bisogno di guadagnarti qualche soldo, il trucco è questo: sfilati un paio di sottogonne da sotto l’abito…»

Fui davvero sul punto di svenire. L’operaio, per fortuna, continuò a russare, ma l’altro signore sollevò inequivocabilmente il giornale per nascondersi il viso.

«…non ne sentirai la mancanza» continuò a blaterare quella strega sdentata. «Ci sono tante donne a Londra che non hanno neanche uno straccio di sottogonna, mentre tu ne avrai almeno una mezza dozzina a giudicare da tutti quegli sbuffi e fruscii.»

Desiderai ardentemente che il viaggio e quel calvario giungessero alla fine. Mi arrischiai perfino a gettare uno sguardo fuori dal finestrino, dietro a cui sfrecciavano case su case ed edifici anche più alti, uno di fianco all’altro, mattone contro pietra.

«Portale all’Emporio dell’usato di Culhane, in Saint Tookings Lane, una traversa di Kipple Street» continuò senza sosta la vecchia megera, la cui costituzione tozza mi faceva ora pensare più a un ranocchio che a un pettirosso. «Nell’East End, sai. Ci si può arrivare fiutando il tanfo del porto. E mi raccomando, una volta in Saint Tookings Lane, non andare da altri commercianti, ma vai diretta da Culhane. Ti darà una somma onesta per le tue sottogonne, se sono di vera seta.»

L’uomo con il giornale lo scosse e si schiarì la voce. Stringendo il bordo del sedile, mi ritrassi il più indietro possibile dalla vecchia megera, per quanto me lo permettesse il sellino. «Grazie» mormorai, poiché, pur non avendo alcuna intenzione di vendere le mie sottogonne, quella volgarissima vecchiaccia mi aveva aiutata lo stesso.

Mi ero infatti chiesta come avrei fatto a disfarmi dell’abito da vedova e a sostituirlo con uno diverso. Certo, avevo abbastanza denaro per ordinare qualsiasi cosa volessi, ma farsi cucire un abito su misura richiedeva tempo. Inoltre, mio fratello avrebbe fatto senza dubbio il giro delle sartorie più note e io avrei di sicuro dato nell’occhio se, entrando tutta vestita di nero, mi fossi fatta cucire qualcosa di un colore diverso dal nero, o al massimo dal grigio con un tocco di lavanda o di bianco. Dopo il primo anno di lutto, non era infatti permesso indossare altro. Eppure, vista l’intelligenza di mio fratello, niente di tutto ciò avrebbe funzionato. Non potevo semplicemente modificare il mio aspetto: dovevo trasformarlo completamente. Ma come? Rubando indumenti dai fili della biancheria?

Ora sapevo come fare. Negozi di vestiti usati. Saint Tookings Lane, una traversa di Kipple Street, nell’East End. Non pensavo che mio fratello si sarebbe spinto in quel quartiere per investigare.

Né pensavo – ma avrei dovuto immaginarlo – che avrei rischiato la vita avventurandomi in quei luoghi.