CAPITOLO
QUARTO
Entrando nelle stanze di mamma assieme ai miei fratelli, notai che sul tavolino da tè c’era un vaso giapponese con dei fiori dai petali appassiti. Mamma doveva aver composto quel bouquet uno o due giorni prima di sparire.
Presi il vaso tra le mani e lo strinsi al petto.
Sherlock Holmes mi superò velocemente. Aveva ignorato il saluto di benvenuto di Lane, declinato la tazza di tè offertagli dalla signora Lane e rifiutato di rimandare anche solo di un istante l’inizio delle sue indagini. Dopo aver lanciato un’occhiata attorno al luminoso e arioso salotto di mamma e ai diversi acquerelli raffiguranti fiori, raggiunse in poche falcate lo studio e poi la camera da letto. A quel punto lo sentii esclamare di sorpresa.
«Cosa c’è?» ribatté Mycroft. Si era attardato a chiacchierare con Lane lasciandogli il bastone, il cappello e i guanti.
«Deplorevole!» esclamò Sherlock dall’ultima stanza, riferendosi, immaginai, alla gran confusione e agli oggetti innominabili in particolare. «Indecente!» Sì, decisamente agli innominabili. Uscì velocemente dalla camera da letto e riapparve nello studio. «Sembra che sia uscita molto di fretta.»
Sembra, pensai.
«O forse si è un po’ lasciata andare…» aggiunse con più calma. «In fin dei conti ha già sessantaquattro anni.»
Il vaso di fiori che tenevo tra le braccia emetteva un odore di acqua stagnante e di steli in decomposizione. Da fresco, però, il bouquet doveva aver avuto un profumo buonissimo. Le piante avvizzite, notai, erano fiori di pisello odoroso.
E cardi.
«Fiori di pisello odoroso e cardi!» esclamai. «Che bizzarria.»
Entrambi gli uomini si voltarono a guardarmi, un po’ infastiditi.
«Tua madre era bizzarra» disse Sherlock in maniera rude.
«E lo è ancora, presumibilmente» aggiunse Mycroft con un tono più gentile per non spaventarmi, a giudicare dallo sguardo di avvertimento che lanciò al fratello.
Quindi anche loro temevano che fosse… deceduta.
Con lo stesso tono tagliente, Sherlock proseguì: «Dalla situazione che ci troviamo davanti, sembrerebbe che sia passata dalla bizzarria alla demenza senile».
Eroe o non eroe, lui e i suoi modi stavano cominciando a infastidirmi. E a turbarmi, perché mia madre era anche sua madre: come poteva essere così freddo?
A quei tempi non lo sapevo, non potevo saperlo, ma Sherlock Holmes viveva avvolto in una specie di ombra gelida. Soffriva di depressione, e talvolta gli attacchi erano tanto violenti da costringerlo a letto per settimane, o anche più a lungo.
«Demenza senile?» ripeté Mycroft. «Non sei in grado di arrivare a una deduzione un po’ più utile?»
«Tipo?»
«Sei un investigatore, no? Tira fuori la lente di ingrandimento. Investiga.»
«L’ho già fatto. Qui non c’è niente da scoprire.»
«Fuori, allora?»
«Dopo un intero giorno di pioggia? Non ci saranno più tracce che possano indicarci da che parte è andata… Sciocca donna.»
Sconcertata dal suo tono e dal commento, scesi in cucina portando con me il vaso di fiori appassiti. Vi trovai la signora Lane accovacciata per terra a sfregare il pavimento di quercia con tanta forza da farmi sospettare che anche lei fosse turbata.
Rovesciai il contenuto del vaso giapponese in un secchio di legno assieme alle bucce di verdura e ad altri avanzi.
Accucciata a quattro zampe, la signora Lane si rivolse al pavimento: «E io che ero così emozionata all’idea di rivedere il signor Mycroft e il signor Sherlock…»
Misi il vaso contenente viscida melma verde nel lavandino di legno bordato di piombo e vi feci scorrere dentro l’acqua del rubinetto.
La signora Lane proseguì: «E invece è sempre la stessa storia, lo stesso sciocco bisticcio, non hanno mai una parola gentile per la propria madre, quando lei potrebbe essere là fuori…»
Le si spezzò addirittura la voce. Non dissi nulla per non angosciarla maggiormente.
Tirando su con il naso mentre continuava a sfregare, la signora Lane dichiarò: «Non mi sorprende che siano entrambi celibi. Deve andare tutto come vogliono loro, pensano che sia un loro diritto! Non hanno mai tollerato le donne forti».
Uno dei numerosi campanelli appesi ai cavi attorcigliati sopra ai fornelli suonò.
«Ah, ecco il campanello del soggiorno. Immagino vogliano mangiare, e io sono qua su questo pavimento ricoperta fino ai gomiti di sporco.»
Non avendo fatto colazione, avrei mangiato volentieri qualcosa anch’io. Inoltre, volevo sapere che cosa stava succedendo. Uscii dalla cucina ed entrai nel soggiorno.
Al tavolino di quella sala informale sedeva Sherlock, con la pipa in bocca e gli occhi puntati su Mycroft, che si era accomodato davanti a lui.
«I due più grandi pensatori d’Inghilterra saranno pur in grado di trovare una spiegazione» stava dicendo il fratello maggiore. «Dunque: nostra madre se n’è andata volontariamente o aveva in mente di tornare? Il disordine nella sua stanza…»
«Potrebbe significare che se n’è andata d’impulso e di fretta, oppure potrebbe riflettere lo stato innato di disordine mentale di quella donna» lo interruppe Sherlock. «Che utilità può avere rifletterci razionalmente quando il tutto si riduce alle azioni di una donna, una donna che peraltro soffre con ogni probabilità di demenza senile?»
Entrambi sollevarono gli occhi quando entrai nella stanza, sperando forse che fossi una domestica, anche se avrebbero dovuto sapere ormai che non ne avevamo una. «Il pranzo?» chiese Mycroft.
«Beato chi lo sa» risposi, sedendomi al tavolo con loro. «La signora Lane si trova in uno stato mentale alquanto… instabile.»
«Senz’altro.»
Studiai i miei fratelli: alti, belli (almeno secondo me) e brillanti. Li ammiravo. Volevo essere come loro. Volevo che loro mi…
Stupidaggini. Me la caverò benissimo da sola.
E i miei fratelli, dal canto loro, erano tornati a ignorarmi completamente.
«Ti assicuro che nostra madre non è né rimbambita né pazza» disse Mycroft a Sherlock. «Nessuna persona affetta da demenza senile sarebbe stata in grado di tenere con chiarezza e ordine perfetto i conti che mi ha mandato lei durante questi ultimi dieci anni, indicando in dettaglio le spese sostenute per la costruzione del bagno…»
«Che non esiste» interruppe Sherlock con tono acido.
«…e del gabinetto…»
«Che non esiste.»
«…e il salario in continuo rialzo di domestici, domestiche, cuoche e valletti…»
«Inesistenti.»
«…giardiniere, assistente giardiniere, poi aiutanti occasionali…»
«Anch’essi inesistenti, a meno che non si consideri Dick.»
«Il quale è piuttosto eccentrico» concordò Mycroft. Era una battuta, anche se non vidi nemmeno l’ombra di un sorriso sui loro volti. «Sono sorpreso che nostra madre non abbia aggiunto alla lista di spese Reginald il collie, probabilmente uno dei suoi migliori servitori. Ha elencato cavalli e pony immaginari, carrozze inventate, un vetturino, stallieri, garzoni…»
«Non si può negare: siamo stati tristemente ingannati.»
«…e, per Enola, un’insegnante di musica, un’altra di danza, una governante…»
Si scambiarono uno sguardo allarmato, come se all’improvviso un problema di logica avesse preso vita. Poi, contemporaneamente, si voltarono a fissarmi.
«Enola» domandò Sherlock «hai avuto almeno una governante, vero?»
Non ne avevo avuta una. Mamma mi aveva mandato a scuola con i ragazzini del paese e dopo aver imparato tutto ciò che c’era da imparare in quel posto, mi aveva detto che me la sarei cavata molto bene da sola, e io ero stata d’accordo con lei. Avevo letto tutti i libri della biblioteca di Ferndell Hall, da Un giardino di versi all’intera Encyclopaedia Britannica.
Rimasi interdetta e Mycroft riformulò la domanda: «Enola, hai ricevuto un’istruzione adeguata a una signorina?»
«Ho letto Shakespeare» risposi «e Aristotele e Locke… Le novelle di Thackeray e i saggi di Mary Wollstonecraft.»
Rimasero paralizzati, sconvolti. Non sarei riuscita a scandalizzarli di più se avessi detto loro che avevo imparato a esibirmi con un trapezio da circo.
Poi Sherlock si voltò verso Mycroft e mormorò, a voce bassa: «È colpa mia. Non bisogna fidarsi delle donne; perché mai fare un’eccezione per la propria madre? Sarei dovuto venire a controllare almeno una volta all’anno, nonostante la situazione sgradevole che si sarebbe creata».
Mycroft disse con voce altrettanto bassa e triste: «Al contrario, mio caro Sherlock, sono io che ho trascurato le mie responsabilità. Sono il figlio maggiore…»
Si udì un colpo di tosse discreto, e in quel momento Lane entrò con un vassoio pieno di tramezzini, macedonia e una caraffa di limonata. Per qualche istante, mentre il pranzo veniva servito, ci fu un beato silenzio.
In quella parentesi di calma, posi una domanda. «Tutto questo cos’ha a che fare con il ritrovamento di nostra madre?» chiesi dopo che Lane fu uscito.
Invece di rispondermi, Mycroft rivolse la sua totale attenzione al piatto.
Sherlock tamburellò con le dita sul tavolo, sgualcendo la tovaglia di pizzo inamidata. «Stiamo formulando una teoria» disse infine.
«E qual è questa teoria?»
Di nuovo silenzio.
Chiesi: «Riavrò mia madre, o no?»
Nessuno dei due volle guardarmi, ma dopo quello che mi parve un lungo silenzio, Sherlock gettò un’occhiata a suo fratello e disse: «Mycroft, penso che abbia il diritto di sapere».
Il fratello maggiore sospirò, annuì, lasciò cadere quel che rimaneva del suo terzo tramezzino e si voltò a guardarmi. «Stiamo cercando di capire se quel che sta accadendo adesso possa avere a che fare con ciò che successe dopo la mor… ehm, dopo la scomparsa di nostro padre. Suppongo che tu non abbia molti ricordi di allora.»
«Avevo quattro anni» risposi. «Ricordo soprattutto i cavalli neri.»
«Immaginavo. Be’, dopo il funerale, nei giorni che seguirono, ci fu qualche discordia…»
«È un modo blando di definire la situazione» si frappose Sherlock. «Io ricordo piuttosto una lotta furibonda.»
Ignorandolo, Mycroft proseguì: «Discordia riguardo a come gestire la tenuta. Né io né Sherlock volevamo abitarci, quindi nostra madre ritenne giusto che i soldi dell’affitto arrivassero direttamente a lei, e che dovesse essere lei a gestire Ferndell Park».
Be’, l’aveva fatto, no? Eppure, dal tono in cui parlava, sembrava che Mycroft ritenesse l’idea assurda.
«Essendo io il figlio maschio primogenito, la tenuta divenne mia» continuò «e nostra madre non lo mise in questione, ma sembrava non comprendere perché non potesse assumerne lei la gestione in mia vece, anziché il contrario. Quando io e Sherlock le ricordammo che, secondo la legge, lei non avrebbe nemmeno avuto il diritto di vivere qui senza il mio permesso, perse un po’ il lume della ragione e ci fece capire che non eravamo più i benvenuti nella nostra casa d’infanzia.»
Oh. Accidenti. Tutto, nella mia mente, sembrò capovolgersi, come se fossi appesa al ramo di un albero a testa in giù. Per tutta la vita avevo dato per scontato che i miei fratelli avessero mantenuto un certo distacco a causa dello scandalo che io rappresentavo, mentre in realtà… si trattava di un litigio con mia madre?
Non riuscii a capire che cosa provava Mycroft riguardo a quanto mi aveva rivelato. Né Sherlock.
Non sapevo nemmeno cosa provassi di preciso io, se non… sconcerto. Ma un’emozione segreta mi sfarfallò nel petto.
«Le mandavo dei soldi ogni mese» proseguì Mycroft «finché lei non mi scrisse una lettera molto pragmatica in cui ne chiedeva di più. Io le domandai un resoconto delle spese, e lei me lo fece recapitare. Le sue richieste di incrementare continuamente i fondi mi sembravano talmente ragionevoli che non le rifiutai mai. Ma ora sappiamo che le sue spese erano tutte fittizie. Cosa sia davvero successo a tutto quel denaro… Be’, non ne abbiamo idea.»
Notai la sua esitazione. «Ma avete una teoria» dedussi.
«Sì.» Fece un lungo respiro. «Pensiamo che in tutto questo tempo abbia continuato ad accumulare soldi per pianificare una fuga.» Un altro respiro, ancora più lungo. «Pensiamo che si sia presa ciò che ritenga essere il suo denaro e, ehm, sia andata da qualche parte a, be’, farsi beffe di noi, per così dire.»
Che cosa stava insinuando? Che mamma mi aveva abbandonata? Rimasi lì impalata con la bocca aperta.
«Abbi pietà della capacità cranica della ragazza, Mycroft» mormorò Sherlock a suo fratello. Poi si rivolse a me, con delicatezza: «Enola, detta in maniera più semplice, pensiamo che sia scappata».
Ma… era insensato, impossibile. Non mi avrebbe mai fatto questo.
«No» replicai d’impulso. «No, non può essere.»
«Rifletti, Enola.» Sherlock parlava proprio come mamma. «La logica punta a quella conclusione. Se fosse ferita, i soccorritori l’avrebbero trovata, e se avesse avuto un incidente, lo avremmo saputo. Non c’è alcuna ragione per cui qualcuno avrebbe dovuto farle del male, e non ci sono indizi che facciano pensare che sia stato commesso un reato. Nessuno avrebbe avuto motivo di rapirla contro il suo volere se non per chiedere un riscatto, ma non ci è arrivata alcuna richiesta.» Fece una pausa per prendere fiato prima di proseguire. «Se però è ancora viva, in buona salute, e sta facendo quello che le pare e piace…»
«Come al solito» s’inserì Mycroft.
«…il disordine nella sua stanza potrebbe essere una pura e semplice messa in scena.»
«Per sviarci» concordò Mycroft. «Di sicuro sembra che stesse architettando e tramando qualcosa da anni…»
Mi alzai in piedi come il vapore che si leva da una locomotiva. «Ma se poteva andarsene quando voleva, perché l’avrebbe fatto proprio nel giorno del mio compleanno?» piagnucolai.
Ora fu il loro turno di rimanere a bocca aperta, impacciati. Avevo ragione.
Ma in quel momento di grande trionfo, mi venne in mente con un brivido che mamma, in effetti, aveva dato istruzioni alla signora Lane di consegnarmi i regali, proprio nel caso in cui non fosse rientrata per cena.
O mai più.