CAPITOLO
DODICESIMO
Ma… ma era assurdo. Impossibile. Avrebbe dovuto essere in fuga su una nave.
Senza presentarmi, esclamai: «Cosa accidenti ci fai tu qui?»
Lui inarcò le sopracciglia dorate. «Crede forse di conoscermi, signorina?»
«Santo cielo, io non credo niente.» L’indignazione, la sorpresa e il malumore mi spinsero a mettermi seduta, non senza qualche difficoltà. «Io so chi sei, Tewky.»
«Non mi chiamare così!»
«Molto bene, lord Tewksommerso-dal-mare, che cosa ci fai scalzo su una barca?»
«Allo stesso modo ci si potrebbe domandare cosa ci faccia una gracile ragazzina travestita da vedova in un posto come questo.» Facendosi più tagliente, il suo tono suonava ancor più aristocratico.
«Ah!» Rincarai la dose: «Un mozzo con un accento da nobile?»
«Oh! Una vedova senza fede?»
Visto che avevo le mani legate dietro alla schiena, non riuscivo a vederle e di conseguenza non me ne ero resa conto. Ma ora, sorretta dal mio sellino in posizione seduta, sentendo con le dita le corde che mi tenevano legati i polsi, esclamai: «Perché si è preso i miei guanti?»
«Si sono presi» mi corresse sua Eccellenza il visconte. «Plurale. Due di loro. Volevano rubarti l’anello ma non l’hanno trovato.» Nonostante i modi arroganti e saccenti, vidi che era pallido in volto e che le labbra gli tremavano mentre parlava. «Si sono anche messi a rovistare nelle tue tasche, hanno trovato qualche scellino, un paio di forcine, tre stecche di liquirizia, un fazzoletto piuttosto lurido…»
«Immagino.» Provai a porre fine a quella recita, perché l’idea che degli sconosciuti avessero messo le mani nelle mie tasche mentre ero priva di coscienza… la sola idea mi fece rabbrividire. Grazie al cielo non avevano toccato il mio corpo: il bagaglio improvvisato che portavo addosso si trovava ancora lì dove doveva stare. Riuscivo a sentire il modellatore per il busto, i regolatori dei fianchi e l’imbottitura, tutto al loro posto.
«…un pettine, una spazzola, una specie di libriccino con un motivo floreale…»
Ebbi una fitta al cuore, come se mamma fosse appena deceduta davanti ai miei occhi. Mi bruciarono gli occhi, ma mi costrinsi a trattenere le lacrime perché non era quello il momento né il luogo per piangere la mia perdita.
«…e, siccome un lato del tuo vestito è completamente lacerato, hanno dato un’occhiata a quello scandaloso corsetto rosa che hai addosso.»
«Sei… crudele!» L’infelicità che provavo alimentò la mia ira. Rossa per l’imbarazzo e tremante di rabbia, esplosi: «Sei esattamente dove ti meriti, con le mani e i piedi legati…»
«Quindi anche tu meriti lo stesso, mia cara coetanea?»
«Sono più grande!»
«Di quanto?»
Fui quasi sul punto di dirglielo, prima di ricordare che non dovevo rivelare a nessuno la mia età. Accidenti a lui, era intelligente.
E, nonostante la sua spavalderia, impaurito.
Tanto quanto lo ero io.
Dopo aver fatto un respiro profondo, gli chiesi con più calma: «Da quanto tempo sei imprigionato qui?»
«Solo da un’oretta. Mentre il piccoletto rapiva me, pare che quello più grosso stesse inseguendo te, per qualche motivo. Io…»
Si bloccò, perché in quel momento dei passi pesanti risuonarono sopra alle nostre teste. Si fermarono e all’improvviso apparve sul lato opposto della stiva un quadrato illuminato dalla luce di una lanterna. Mi ritrovai a osservare una scena piuttosto ridicola: un uomo si palesò di schiena in cima a una scala e lo osservai mentre i suoi stivali di gomma scendevano nella nostra tana, seguiti prontamente dal resto.
«Non più di un’ora fa» stava dicendo a qualcuno mentre scendeva; riconobbi la vocetta acuta simile a quella di un sorcio. Secco, rachitico, ingobbito, l’uomo tremava come un cane randagio bastonato e affamato. «L’ho trovato che bighellonava proprio dove mi avevi detto nel telegramma, sul molo dove tengono ancorato il Great Eastern. Per lui sappiamo come comportarci, ma… per la ragazza?»
«Nello stesso modo» ringhiò la voce dell’altro uomo, mentre scendeva a sua volta la scala. Riconobbi anche quella voce e, stoicamente, guardai apparire in cima all’ingresso un altro paio di stivali neri, seguiti da un corpo gigantesco rivestito da un abito dello stesso colore che un tempo avrebbe potuto appartenere a un gentiluomo, anche se ora era da buttare.
Alla luce della lanterna, riuscii a vedere che i suoi guanti di pelle di capretto erano gialli. Molti aristocratici, uomini e donne, indossavano guanti di capretto, spesso di colore giallo, al fine di evidenziare l’appartenenza a una certa classe sociale.
Ma quando comparve anche la testa di quell’uomo enorme, notai che non indossava un cappello da gentiluomo, bensì un berretto da operaio.
Poi si voltò e mostrò la sua faccia. Ero pronta. Si trattava senza dubbio del freddo, pallido viso che si era affacciato al vetro dello scompartimento del treno, come una luna malevola. O un malevolo teschio bianco. Quando si tolse il cappello vidi che era quasi pelato in un modo disgustoso, come una larva, a eccezione delle ispide setole rossicce che gli spuntavano dalle orecchie.
«Pensavo fosse il piano B nel caso in cui io avessi mancato il mio bersaglio» disse l’altro.
«Per essere doppiamente sicuri, sì» biascicò quello grosso e pelato «ma anche perché dice di chiamarsi Holmes.»
Mentre parlava con il suo compagno, mi guardò con un’espressione di malvagia soddisfazione, e quando mi vide sgranare gli occhi e spalancare la bocca fece un sorrisetto. Non potei fare a meno di mostrare il mio shock: come faceva a sapere chi ero? Come accidenti poteva conoscere il mio nome?
Compiaciuto dalla mia reazione, si voltò di nuovo verso il compagno. «Dice di essere imparentata con Sherlock Holmes. Se è vero, ci si può guadagnare un bel gruzzoletto.»
«Allora perché hai provato a ucciderla?»
Dunque quell’uomo imponente coi peli nelle orecchie era davvero il tagliagole che mi aveva aggredita, come supponevo.
Lui scrollò le spalle massicce. «Mi ha provocato» disse con gelida indifferenza.
Riuscii a richiudere la bocca mentre le cose nella mia testa pian piano cominciavano a quadrare. Sul treno stava cercando proprio me. Mi aveva seguita dalla stazione.
Eppure… eppure continuava a non avere senso. Perché, assalendomi, mi aveva chiesto dove fosse lord Tewksbury?
«Megera.» Il tagliagole mi fissò con gelidi occhi neri, e qualcosa nel suo sguardo – qualcosa che non fui in grado di indovinare – mi sembrò familiare, anche se non negherò che mi spaventai tanto da rabbrividire.
Mi disse: «Le ragazze di questi quartieri non hanno i soldi per comprarsi un corsetto. Ai miei tempi ho sbudellato più di qualche avversario. Non farmi arrabbiare un’altra volta».
Restai zitta al mio posto, incapace di formulare una risposta adeguata.
In verità, il terrore mi aveva tolto la parola.
Ma poi l’altro uomo, quello rachitico, rovinò l’effetto del momento rivolgendosi al suo compagno: «Be’, è meglio che tu stia attento e non faccia arrabbiare Sherlock Holmes… Da ciò che ho sentito non si scherza con quella gente».
L’uomo grosso si voltò verso di lui. «Scherzo con chi mi pare.» Il suo tono era minaccioso come la lama di un coltello. «Vado a dormire. Tu fai la guardia a questi due.»
«Era quello che volevo fare, comunque» borbottò l’altro, ma solo dopo che l’enorme bruto fu scomparso su per la scala.
Quello secco, il cane da guardia, si sistemò con la schiena contro la scala e ci fissò con occhietti crudeli.
Gli domandai: «Chi sei?»
Anche nella tenue luce della lampada a olio riuscivo a vedere che dal suo sorrisetto ingiallito mancavano diversi denti.
«Il principe azzurro dei letamai, al tuo servizio» mi rispose.
Ma che simpatico. Risposi con una smorfia.
«Perdonami» disse lord Tewksbury, rivolgendosi a me. «Siccome ci stiamo presentando, qual è il tuo nome?»
Gli feci cenno di no con il capo.
«Non si parla» intervenne l’uomo.
«Cosa intendete farci, tu e il tuo amico?» gli chiesi con freddezza.
«Vi portiamo a ballare, cari. Non si parla, ho detto!»
Non avendo più alcuna voglia di far divertire quel riprovevole personaggio, mi sdraiai lateralmente sul pavimento di assi spoglie, coprendo la parte strappata del vestito con il corpo. Chiusi gli occhi.
È difficile dormire, o anche solo far finta di dormire, con le mani legate dietro alla schiena. A peggiorare la situazione ci si misero anche le estremità delle stecche di acciaio del mio corsetto, le quali mi punzecchiavano dolorosamente la parte interna delle braccia. Oltre al corpo, anche i miei pensieri erano ben lontani dal recarmi alcun conforto. La menzione del “gruzzoletto” mi portava a credere di essere stata imprigionata per ricevere un riscatto.
Non riuscivo a pensare a una maniera più umiliante di incontrare di nuovo i miei fratelli, i quali mi avrebbero senza dubbio mandata in collegio a suon di sculacciate. Mi chiesi se mi avrebbero preso i soldi, mi chiesi come accidenti quel grosso furfante avesse scoperto chi ero e mi avesse seguita e, cosa ancor più sconcertante, come potesse aver scoperto del visconte Tewksbury, sul cui conto aveva mandato un telegramma al suo complice rachitico. Mi chiesi cosa significasse “nello stesso modo”. Mentre tremavo di terrore, mi sforzai di rimanere con gli occhi bene aperti per approfittare di qualsiasi occasione buona per fuggire. Eppure, allo stesso tempo, sapevo che sarebbe stato più saggio cercare di respirare con calma, smettere di tremare, raccogliere le energie e provare a dormire.
A causa della forma della stiva, ero distesa su una superficie inclinata che mi ricordava un’amaca, ma non stavo affatto comoda, nemmeno con tutte le imbottiture che indossavo. Mi mossi, cercando di trovare una posizione più confortevole, ma non ci riuscii perché le stecche di acciaio del mio maledetto corsetto non mi tormentavano più solo le braccia, ma le estremità opposte spuntavano ora dallo strappo del mio vestito, ricordandomi fin troppo vividamente di come il coltello del tagliagole mi aveva…
Acciaio. Coltello.
Rimasi distesa, immobile.
Oh… Oh, se solo ci fossi riuscita.
Dopo averci riflettuto un attimo, aprii gli occhi quel tanto che bastava per lanciare una sbirciatina al cane da guardia. Per fortuna, il mio senso del pudore mi aveva fatta sdraiare sul lato destro, rivolta verso di lui, per nascondere il corsetto. Sedeva ancora con la schiena contro la scala, ma con la testa ciondoloni. Addormentato.
Perfetto… d’altronde finché fosse rimasto in quella posizione vicino alla scala, come avremmo potuto scappare? Mi sarei occupata di quel problema più tardi.
Nel modo più silenzioso possibile, contorsi la parte superiore del busto cercando di portare i polsi legati all’altezza di una delle stecche sporgenti del mio corsetto.
Non fu facile, perché lo strappo era su un lato del vestito, ma se torcevo il braccio alla massima estensione e mi sorreggevo sull’altro gomito, stringendo i denti per non emettere alcun suono, sarei riuscita ad agganciare la corda che mi legava i polsi attorno all’estremità di una stecca di acciaio.
Nonostante fossi talmente contorta da non essere più capace di muovere un muscolo, riuscii comunque a tirare indietro il tessuto pesantemente inamidato che foderava l’acciaio.
Poi, con ancora più sforzo, provai a tagliare la corda.
Non guardai nemmeno una volta in direzione di lord Tewksbury. Cercai di pensare a lui il meno possibile, e quando lo feci fu solo per assicurarmi che stesse dormendo. Non avrei potuto sopportare anche l’umiliazione che avrei provato se mi avesse vista in quella posa.
Con grande difficoltà, continuai a segare la corda muovendo le mani e le braccia avanti e indietro, avanti e indietro, mentre premevo i polsi legati contro l’acciaio. Fu doloroso e ci impiegai un bel po’ di tempo. Non avrei saputo dire quante ore tremende passarono, perché in quel buco non c’era modo di distinguere il giorno dalla notte. Non c’era nemmeno modo di capire se stessi facendo progressi, perché non riuscivo a vedere alle mie spalle. Riuscivo però a sentire che, oltre alla corda, stavo tagliando anche me stessa. Serrai i denti e sfregai ancora più forte, lo sguardo fisso sulla guardia dormiente, le orecchie tese per captare qualsiasi rumore che non fosse il mio respiro affannoso. Percepii, più che udire, il frangersi delle onde, lo sciabordare dell’acqua di sentina, il tonfo sordo della barca che si scontrava di tanto in tanto con il molo…
All’improvviso la nostra guardia fremette, come se una mosca lo stesse tormentando. Ebbi giusto il tempo di appiattirmi contro il pavimento, le mani ben nascoste dietro alla schiena, prima che lui aprisse gli occhi.
«Ehi!» mi accusò, fulminandomi con lo sguardo. «Perché diamine stai facendo dondolare la barca?»