CAPITOLO
SESTO
Quella notte non riuscii a dormire. A dirla tutta, non riuscivo nemmeno a stare ferma. Camminai avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro per la mia stanza in camicia da notte, scalza, come immaginavo avrebbe fatto un leone nella propria gabbia nello zoo di Londra. Più tardi, dopo aver abbassato al minimo la lampada a olio, acceso le candele ed essere andata a letto, non riuscii a chiudere gli occhi. Sentii Mycroft ritirarsi nella stanza degli ospiti; sentii Lane e la signora Lane salire all’ultimo piano nella loro ala della casa, e ancora io me ne stavo lì a fissare il buio. Il motivo della mia angoscia non era così scontato come poteva sembrare: Mycroft mi aveva fatto arrabbiare, certo, ma era il mio continuo cambiare idea su mamma a turbarmi, anzi, a nausearmi. È molto strano pensare alla propria madre come a una persona a se stante e non solo come a una mamma. Eppure era così: era stata sì forte, ma anche debole. Si era sentita intrappolata proprio come me. Aveva subìto l’ingiustizia della situazione con altrettanta intensità. Era stata obbligata a ubbidire, così come lo sarei stata io. Ma si era ribellata, e avrei tanto voluto farlo anche io, senza sapere se e come ci sarei mai riuscita.
Ma alla fine, lei ce l’aveva fatta. Che ribellione gloriosa!
Accidenti a lei, perché non mi aveva portata con sé?
Calciando via le coperte, saltai giù dal letto, alzai il lume della lampada a olio e raggiunsi la scrivania; le decorazioni di fiori lungo i bordi non riuscirono a distrarmi. Afferrai un foglio e una matita dal mio kit da disegno e abbozzai furiosamente uno schizzo di mamma, tutta rughe e gote, le labbra premute l’una contro l’altra in una linea stretta, con indosso il suo cappello alto tre-piani-e-un-pianterreno e la sua giacca a coda, mentre brandiva il suo ombrello come una spada e si tirava dietro lo strascico del ridicolo sellino.
Perché non si era fidata di me? Perché mi aveva abbandonata qui?
Be’, per quanto fosse doloroso ammetterlo, potevo anche capire che non avesse voluto affidare il suo segreto a una ragazzina… ma perché non mi aveva lasciato almeno un messaggio di spiegazione o di addio?
E perché, perché aveva deciso di andarsene proprio il giorno del mio compleanno? Mamma non faceva mai nulla senza una ragione. Un motivo doveva esserci. Ma… quale?
Perché…
Mi rizzai di colpo sulla sedia, la bocca spalancata.
Ma certo.
Il punto di vista di mamma.
Aveva completamente senso: mamma era intelligente.
Molto, molto intelligente.
Mi aveva lasciato un messaggio: il mio compleanno. Ecco la ragione per cui aveva scelto proprio quel giorno per andarsene, anziché un altro. Un giorno in cui si recano dei doni, così nessuno avrebbe notato…
Balzai in piedi. Dove l’avevo messo? Dovetti accendere una candela e reggerla in mano per riuscire a studiare la stanza. Non era sullo scaffale dei libri. Non era su alcuna delle sedie, né sul comò, né sul portacatino, e nemmeno sul mio letto. Non lo trovai sul modellino dell’arca di Noè né sul cavallo a dondolo, vecchi giocattoli che avevo ereditato dai miei fratelli. Accidenti alla mia maledetta distrazione, dove l’avevo infilato… eccolo. Di tutti i posti immaginabili, l’avevo messo proprio nella mia trascurata casetta per le bambole: un sottile fascicolo di fogli di carta da acquerello, scritto e dipinto a mano, ripiegato con precisione a metà e rilegato sulla piega.
Lo raggiunsi con un balzo: il libriccino sui messaggi in codice che mamma aveva creato per me.
AL ONE ADR AUG ART IEI MII MET NAS IRC
La scrittura era quella disordinata di mia madre.
Un solo sguardo al primo codice mi fece salire le lacrime agli occhi, obbligandomi a chiuderli.
Rifletti, Enola.
Riuscivo quasi a sentire le parole di mamma, che mi rimproveravano nella mia testa: “Enola, te la caverai benissimo da sola”.
Aprii gli occhi, fissai la stringa di lettere e ragionai.
Molto bene. Prima di tutto, era alquanto improbabile che in una frase tutte le parole fossero composte da due o tre lettere. Prendendo un foglio bianco dal mio kit da disegno, avvicinai da una parte la lampada a olio e dall’altra la candela. Copiai il messaggio:
ALONEADRAUGARTIEIMIIMETNASIRC
La prima parola mi saltò all’occhio: alone. O era forse Enola? Provai al contrario.
CRISANTEMIMIEIITRAGUARDAENOLA
Osservai di nuovo la frase e l’occhio mi cadde sulle lettere “TE”. Te. Era un messaggio che mi riguardava in prima persona?
TE MI MIEI I TRA GUARDA ENOLA
Le parole sembravano ordinate al contrario.
ENOLA GUARDA TRA I MIEI
Oh, cielo… CRISANTEMI! I fiorellini dipinti attorno al bordo della pagina avrebbero dovuto farmelo intuire! Crisantemi dorati e rossicci.
Avevo risolto il messaggio in codice.
Non ero completamente stupida, allora.
O forse lo ero, perché cosa accidenti significava “Enola guarda tra i miei crisantemi”? Mamma aveva sotterrato qualcosa in un’aiuola? Improbabile. Dubitavo che avesse mai preso in mano una vanga… Erano lavori di cui si occupava Dick, e in ogni caso mamma non aveva proprio il pollice verde; le piaceva lasciare che fiori resistenti crescessero spontanei.
Questo per quanto riguarda i crisantemi nel giardino. Quali si potevano considerare i suoi crisantemi?
L’orologio a pendolo dabbasso scoccò le due. Non ero mai stata in piedi così tardi prima d’ora. Mi sentivo la testa leggera, quasi non fosse più ancorata alle mie spalle.
Ormai ero abbastanza stanca e tranquilla da poter andare a letto, ma non ne avevo più voglia.
Un attimo. Mamma mi aveva donato un altro libro: Il significato dei fiori. Lo afferrai, consultai l’indice e cercai crisantemo.
«Il dono di un crisantemo indica il legame famigliare e, per estensione, l’affetto.»
Un tacito segno d’affetto era meglio di niente.
Senza grande convinzione, cercai il fiore del pisello odoroso.
«Arrivederci e grazie per il bel tempo trascorso assieme. Un dono fatto prima della partenza.»
Partenza.
Poi, cercai il cardo.
«Ribellione.»
Be’. Sorrisi tristemente. Mamma mi aveva lasciato un messaggio, dopotutto. Partenza e ribellione in un vaso giapponese. Nel suo arioso soggiorno circondato da centinaia di acquerelli alle pareti.
Sbattei le palpebre mentre un sorriso mi si allargava sul volto. «Enola» sussurrai a me stessa «hai trovato la soluzione.»
“I miei crisantemi.” Quelli che mamma aveva dipinto, e che aveva incorniciato e messo in bella mostra sulla parete del suo soggiorno.
Ne ero certa.
Pur senza avere alcuna idea di come qualcosa potesse trovarsi “dentro” a un quadro di mamma o di cosa poteva trattarsi, sapevo di aver ragione, e sapevo che dovevo andare a guardare. In quel preciso istante. Nell’ora più buia della notte. Quando nessun altro, in particolare mio fratello Mycroft, poteva controllarmi.
Le femmine dovevano giocare con le bambole. Nel corso degli anni, adulti benintenzionati mi avevano regalato diverse bambole. Io le odiavo, strappavo loro la testa appena potevo, ma ora avevo finalmente trovato un modo per utilizzarle. Avevo nascosto la chiave delle stanze di mia madre nel cranio cavo di una bambola bionda. Ci misi un secondo a ritrovarla.
Poi, dopo aver abbassato lo stoppino della lampada a olio, aprii dolcemente la porta della camera portando la candela con me.
L’ingresso delle stanze di mia madre si trovava sul lato opposto del corridoio, esattamente davanti alla stanza degli ospiti.
Dove stava dormendo mio fratello Mycroft.
O almeno, speravo stesse dormendo.
Speravo avesse il sonno profondo.
Scalza, con la candela in una mano e la preziosa chiave nell’altra, attraversai il corridoio in punta di piedi.
Dalla stanza di Mycroft proveniva un rumore selvaggio, simile a quello che potrebbe fare un maiale steso beatamente al sole.
Evidentemente, mio fratello russava.
Un chiaro indizio che stava effettivamente dormendo.
Ottimo.
Nel modo più silenzioso possibile, inserii e girai la chiave nella toppa della porta di mia madre. La serratura scattò. E, mentre giravo il pomello, sentii il chiavistello fare clic.
Un grugnito interruppe il russare ritmato di Mycroft.
Voltandomi verso la porta della sua stanza, rimasi immobile.
Sentii un fruscio di lenzuola, come se si stesse rigirando tra le coperte. La rete del suo letto scricchiolò. Poi riprese a russare. Sgattaiolai nel salotto privato di mamma chiudendomi la porta alle spalle, e finalmente espirai.
Sollevando la candela, alzai lo sguardo sui quadri.
Mia madre aveva dipinto tantissimi acquerelli di una miriade di specie di fiori.
Studiai le quattro pareti, sforzando gli occhi per riuscire a distinguere i disegni alla tenue luce della candela. Finalmente trovai una rappresentazione di crisantemi rossicci e dorati come quelli del mio libriccino.
Se mi mettevo in punta di piedi, riuscivo a sfiorare il bordo inferiore della cornice, che era fragile e intagliata per somigliare a delle canne di bambù, come i mobili della stanza, con gli estremi sporgenti che si incrociavano. Sollevai con delicatezza la cornice e la tirai giù, persuadendo il fil di ferro a sfilarsi dal chiodo. Portai il dipinto al tavolino da tè, vi poggiai a fianco la candela, e lo studiai.
Enola, guarda tra i miei crisantemi.
Avevo spesso osservato mamma incorniciare i suoi disegni. Partiva proprio dalla cornice, che poneva a faccia in giù su un tavolo, e proseguiva con una lastra di vetro trasparente. Poi era il turno di una specie di cornice interna, ritagliata da una spessa carta colorata. A questa incollava con delicatezza il bordo superiore dell’acquerello. Poi aggiungeva sul retro un sottile compensato pitturato di bianco. Il tutto era tenuto insieme da alcuni minuscoli chiodi inseriti lateralmente nella cornice, sul retro della quale mamma incollava infine una carta marrone per nascondere i chiodi e tenere fuori la polvere.
Voltai il dipinto dei crisantemi e mi misi a osservare la carta marrone.
Inspirando profondamente, feci leva con le unghie su un lato, tentando di sollevare la carta senza strapparla. Ne venne via una strisciolina, ma non aveva importanza. Notai che c’era qualcosa nascosto sotto il dipinto, tra la carta marrone e il supporto di legno… Qualcosa ripiegato. Qualcosa di colore bianco.
Un biglietto da parte di mamma!
Una lettera in cui forse mi spiegava il perché della sua sparizione ed esprimeva il suo dispiacere e affetto, o mi invitava addirittura a seguirla…
Con il cuore martellante che gridava “ti prego, ti prego” e le dita tremanti, estrassi il rettangolo di carta.
Fremendo, lo aprii.
Sì, si trattava proprio di una nota da parte di mamma. Ma non del tipo che avevo sperato.
Era una banconota del valore di cento sterline.
Più soldi di quanti la gente comune vedeva in un anno intero.
Ma non era denaro ciò che desideravo da mia madre.
Devo ammettere che mi addormentai piangendo. Ma almeno riuscii a prendere sonno, tirando dritto fino a mattina, e nessuno mi disturbò eccetto la signora Lane, che a un certo punto entrò per svegliarmi e per chiedermi se mi sentissi male. Le risposi di no, che ero solo stanca, e lei uscì. La sentii riferire a qualcuno nel corridoio, con ogni probabilità a suo marito: «È esaurita, e per forza, povero agnellino…»
Quando mi svegliai, nel primo pomeriggio, anche se bramavo di fare colazione o di pranzare, non saltai subito giù dal letto. Rimasi invece distesa ancora per un attimo e mi costrinsi a riflettere a mente fresca sulla mia situazione.
Dunque, anche se non si trattava di ciò che avevo sperato, ricevere dei soldi era meglio di niente.
In segreto, mamma mi aveva lasciato una gran bella somma.
Che, senza dubbio, aveva sottratto a Mycroft.
Con l’inganno.
Era giusto che la tenessi?
Non si trattava certo di denaro che Mycroft si era guadagnato. Da quanto avevo capito, questi soldi gli erano piombati addosso per il semplice fatto di essere il figlio primogenito di nostro padre.
Canoni d’affitto accumulati secolo dopo secolo, e che ogni anno aumentavano il suo patrimonio. E a che fine? Il mantenimento di Ferndell Hall e della proprietà.
Questi soldi, così come i lampadari, erano stati davvero ereditati assieme alla casa.
E quella casa era, o avrebbe dovuto essere, la dimora di mia madre.
Dal punto di vista legale, il denaro non era né di mia madre, né mio. Ma moralmente… Molto, molto spesso mamma mi aveva spiegato quanto ingiuste fossero certe leggi. Per esempio, se una donna si dava da fare per scrivere e pubblicare un libro, i proventi dovevano andare al marito. Ma non è assurdo?
E quale assurdità sarebbe dunque stata restituire a mio fratello Mycroft una banconota da cento sterline solo perché era il figlio primogenito!
La legge poteva andare a farsi friggere, decisi con soddisfazione; moralmente, i soldi erano miei. Mamma aveva fatto tanta fatica e tanti sacrifici per estorcerli alla proprietà. E poi li aveva allungati a me.
Quanto altro denaro c’era? Mi aveva lasciato molti messaggi in codice…
In cosa voleva che lo spendessi?
In un certo senso, grazie al suo esempio, conoscevo già la risposta a quella domanda.