CAPITOLO
TREDICESIMO

Rimasi paralizzata dal terrore, facendomi piccola come un coniglio in un cespuglio.

Ma dall’altra parte della stiva una voce imperiosa parlò: «Perché?! Perché desidero che questa barca dondoli. Perché voglio, anzi no, ordino che questa barca dondoli». E, in effetti, il giovane visconte Tewksbury, marchese di Basilwether, si mise a dondolare, piegandosi avanti e indietro, avanti e indietro, disturbando la quiete della nostra prigione.

«Ehi, tu!» Lo sguardo spietato del cane da guardia si posò su di lui. «Finiscila!»

«Prova a fermarmi.» Lord Tewksbury ricambiò il suo sguardo con alterigia e continuò a dondolare.

«Ti devo costringere?» L’uomo balzò in piedi. «Pensi di essere un duro, eh? Diamine, ora ti faccio vedere io.» Serrando i pugni, avanzò verso Tewksbury, e così facendo mi diede la schiena.

Mi rizzai a sedere e mi contorsi, sbilanciandomi verso un lato e armeggiando di nuovo con i polsi legati per ritrovare la stecca del corsetto.

Il nostro carceriere tirò un calcio feroce alla gamba di lord Tewksbury.

Il ragazzo non emise alcun suono, ma io avrei voluto gridare. Avrei voluto colpire, afferrare, fermare quell’uomo cattivo. In effetti, persi completamente la testa, e mi divincolai con tale foga contro le corde che mi cingevano le mani che per poco non mi lussai entrambe le spalle.

Alla fine qualcosa si spezzò. Sentii un dolore terribile.

L’uomo tirò un altro calcio a Tewksbury.

«Continua, dai» disse il ragazzo. «Mi piace.» Ma la voce incrinata con cui lo disse rese evidente che mentiva.

Le braccia mi facevano così male che pensai di aver spezzato un osso e non la corda, ma poi mi trovai davanti agli occhi le mie stesse mani, talmente malconce e insanguinate da sembrarmi irriconoscibili. Lembi di canapa mi pendevano dai polsi.

«Ti piace? Vediamo se ti piace adesso» squittì quel miserabile mascalzone, calciando lord Tewksbury per la terza volta, forte.

Quella volta, Tewky gemette.

E, nello stesso momento, io mi alzai in piedi con le caviglie ancora legate. Ma non avevo alcun bisogno di camminare, perché mi trovavo giusto alle spalle del nostro cane da guardia. Le mie mani, che sembravano già sapere cosa fare, scelsero una grossa pietra dalla zavorra, nello stesso istante in cui l’uomo caricò la gamba indietro per tirare un altro calcio. Prima che potesse farlo, sollevai la mia arma primitiva e la calai con decisione sulla sua testa.

Cadde dritto nella sentina senza emettere un fiato, facendo schizzare acqua ovunque, e non si mosse più.

Rimasi a fissarlo, inebetita.

«Idiota, slegami le mani!» urlò lord Tewksbury.

L’uomo galleggiava nell’acqua. Era immobile, ma vivo.

«Slegami, sciocca!»

Il tono perentorio del ragazzo mi spronò ad agire. Gli voltai la schiena.

«Stupida, che stai facendo?»

Stavo preservando la poca dignità che mi restava, anche se non glielo dissi. Sbottonando una parte del corpetto, affondai la mano nel mio bagaglio anteriore e trovai il coltellino tascabile che avevo preso dal kit da disegno e riposto nel “modellatore per busto” assieme a una matita e alcuni fogli di carta ripiegati. Dopo essermi di nuovo abbottonata, aprii il coltellino, mi chinai e tagliai le corde che mi cingevano le caviglie.

Non riuscendo a vedere cosa stavo combinando dietro alla mia voluminosa gonna nera, lord Tewksbury smise di darmi ordini e cominciò a supplicarmi: «Ti prego. Ti prego! Ho visto ciò che stavi facendo e ti ho aiutata, no? Ti prego…»

«Sssh. Tra un secondo.» Non appena mi fui slegata i piedi, mi voltai, scavalcai la forma inerte della nostra guardia, e mi chinai sul ragazzo imprigionato. Con un taglio rapido, recisi la corda che gli legava le mani dietro alla schiena, poi gli porsi il coltello affinché potesse liberarsi i piedi da solo. Mi asciugai il sangue dei polsi sulla gonna rovinata del vestito. Studiai i tagli – non erano abbastanza profondi da essere pericolosi –, poi mi passai una mano tra i capelli che ormai non conservavano alcuna parvenza di uno chignon ma cadevano scompigliati attorno alle spalle. In mezzo a quel groviglio trovai un paio di forcine, con le quali cercai di chiudere lo strappo del vestito.

«Muoviti, per favore!» mi esortò il visconte Tewksbury, che nel frattempo si era alzato e teneva in mano il mio coltellino ancora aperto a mo’ di arma.

Aveva ragione, ovviamente; non c’era tempo per rendersi presentabile. Annuendo, mi avvicinai alla scala che ci avrebbe portati alla salvezza, con Tewksbury al mio fianco. Quando la raggiungemmo, tuttavia, esitammo, squadrandoci l’un l’altra.

«Prima le signore?» disse incerto sua Eccellenza.

«Mi sacrifico in favore del lord» risposi, non riuscendo a ripetermi altro se non che una ragazza non dovrebbe mai trovarsi nella situazione di permettere a un uomo di guardarle sotto la gonna. Non stavo affatto pensando a cosa ci aspettasse di sopra.

Annuendo, con il coltellino ancora stretto nel pugno, Tewksbury si arrampicò su per la scala.

Non appena sollevò la botola, la luce mi abbagliò. La notte si era trasformata in giorno; non era chiaro se fosse mattina o pomeriggio. Ho solo un vago, baluginante ricordo della cauta maniera in cui il giovane visconte fece capolino e si guardò attorno. Poi appoggiò silenziosamente la botola sul ponte, si arrampicò fuori e mi fece segno di seguirlo, veloce.

Mentre salivo il più rapidamente possibile, realizzai che mi stava aspettando, la mano tesa per aiutarmi a uscire dalla stiva. Benché mi avesse chiamata in rapida successione un’idiota, una sciocca e una stupida, il ragazzo dimostrava di avere un po’ di galanteria. Fuggire senza di me sarebbe stato più facile, ma poiché eravamo stati compagni di cella, sembrava giusto affrontare assieme anche la fuga. A me non era certo venuto in mente di abbandonarlo, ed evidentemente nemmeno lui aveva pensato di potermi lasciare lì.

Raggiusi la cima della scala e afferrai la sua mano…

Una voce terribile ringhiò un’imprecazione che non avevo mai sentito o immaginato potesse esistere. Non appena emersi dalla botola vidi una sagoma alta, massiccia e scarlatta sfrecciare fuori da una cabina e in un balzo attraversare il ponte nella nostra direzione.

In quell’attimo terribile imparai che i gentiluomini, o perlomeno quel gentiluomo che gentile non era per niente, indossavano innominabili indumenti intimi di flanella rosso sangue, che li coprivano dai polsi alle caviglie.

Lanciai un urlo.

«Muoviti!» Balzando in piedi, Tewksbury mi sollevò addirittura dalla scala, scagliandomi lontana dalla minaccia rossa che ci veniva incontro. «Corri!»

Sembrava aver intenzione di rallentare il bruto con il suo coltellino.

«Corri tu!» Con una mano sollevai sopra alle ginocchia una manciata di gonne e sottogonne, mentre con l’altra lo afferrai per il colletto e lo trascinai verso l’estremità opposta della barca. Assieme – anche se dovetti necessariamente lasciare la presa – oltrepassammo con un balzo il braccio d’acqua sottostante e atterrammo sulle assi traballanti di ciò che immagino si potesse chiamare un molo. Poi, trascinando le gonne con entrambe le mani, corsi il più velocemente possibile lungo una passerella stretta e instabile.

«Non riuscirete ad andare lontani!» sbraitò una voce inferocita dalla barca. «Aspettate solo che mi metta dei vestiti e riesca ad acciuffarvi!»

Essendo slanciata mi piaceva correre, ma non se dovevo incespicare sui miei stessi dannati vestiti e di sicuro non su un labirinto di assi marce e viscide di melma. Tra noi e le taverne e i magazzini che si stagliavano sulla riva del Tamigi si frapponevano una miriade di moli e acqua salmastra, pontili, passerelle e liquido puzzolente.

«Da… che… parte?» boccheggiò Tewky. Non riuscivo più a pensare a lui come a un lord, un visconte, o il figlio di un duca; ormai, mentre mi seguiva ansimante, era diventato il mio compagno.

«Non lo so!»

Giunti in un vicolo cieco, circondati da acqua scura come il catrame, ci voltammo per tornare indietro, scivolando e perdendo l’equilibrio più volte. Ancora una volta un canale d’acqua ci sbarrava la strada. Cominciai a tremare perché, se fossi caduta in quel fiume nero, sarebbe stata la mia fine; sarei annegata. Dubitavo che Tewksbury sapesse nuotare, ma non c’era tempo per tergiversare. Il nostro gigantesco nemico, ancora troppo vicino, si fiondò di nuovo fuori dalla cabina, questa volta con addosso degli abiti decenti infilati alla svelta, e ringhiò: «Vi ucciderò entrambi!» Come un orso inferocito, balzò giù dalla nave e atterrò sulla rete labirintica di pontili.

Peggio ancora, una piccola figura sbilenca lo seguiva allo stesso modo in cui un cane affamato avrebbe seguito un mendicante. Evidentemente avrei dovuto colpire quel bruto con più forza.

«Salta!» strillai, e con le gonne che svolazzavano da tutte le parti saltai su un altro pontile.

Le assi oscillarono sotto il mio peso, ma riuscii a mantenere l’equilibrio. Poi, non appena cercai di riprendere fiato, Tewksbury atterrò con un tonfo accanto me e ci fece oscillare di nuovo, più violentemente. Essendo ormai a corto di fiato, non riuscii a lanciare un urlo vero e proprio, ma squittii. Tewky mi afferrò per un braccio e gridò: «Corri!» e questa volta si mise lui alla testa della fuga. A un certo punto doveva aver perso il coltellino: la sua mano destra, disarmata, tremava. Mi attraversarono dei brividi più forti di prima, perché riuscivo a sentire i passi pesanti del tagliagole scuotere il pontile sotto di noi.

«Oh, no!» mi disperai, appena giungemmo con uno scivolone all’estremità di un altro moletto che non portava da nessuna parte.

Tewky imprecò in un modo irripetibile.

«Vergognati. Di qua.» Voltandomi, presi di nuovo il comando e in pochi secondi atterrammo su un terreno più stabile, fatto di ciottoli, mattoni e malta.

Ma i nostri nemici, che conoscevano la strada, raggiunsero anch’essi la riva a un tiro di schioppo da noi. Riuscivo a vedere il sangue rappreso sulla testa del piccoletto e la rabbia nei suoi occhietti socchiusi. Riuscivo a vedere i peli che spuntavano dalle orecchie del tagliagole e il furore che imporporava il suo viso a forma di palla. Una luna rossa, cattivo presagio.

Confesso che gridai un’altra volta, anzi, strillai come un coniglio colpito da un proiettile. Stringendo la mano di Tewky nella mia, fuggii alla cieca per un vicolo e svoltai dietro a un angolo. «Muoviti!» Correndo a zigzag tra carri stracolmi trainati da cavalli da tiro stremati, attraversammo di sghembo una strada e raggiungemmo un’altra svolta.

Ormai ero senza fiato, sudata in viso e sotto il vestito, fin troppo consapevole del caldo della giornata. Riuscivo ancora a sentire il rumore di passi svelti che ci seguivano.

Tewky stava rallentando. Trascinandolo, lo sentii sussultare di dolore a ogni passo. I suoi piedi, nudi e doloranti contro la dura pietra. E la strada dal fiume in poi era tutta in salita. «Su, forza

«Non ce la faccio» ansimò il ragazzo, cercando di sfilare la sua mano dalla mia con uno strattone. Io strinsi la presa.

«Sì che ce la fai. Devi farcela.»

«Tu… vai. Mettiti al sicuro.»

«No.» Scrollandomi di dosso il panico cieco che mi stava invadendo, mi guardai attorno senza smettere di correre. Sembrava che stessimo per oltrepassare la zona dei carri, moli e magazzini. Correvamo adesso lungo una strada mal ridotta, fiancheggiata da case scalcinate e da esercizi pubblici ancora più scalcinati: un pescivendolo, un banco dei pegni, un ombrellaio. E i venditori ambulanti: «Cozze vive, ostriche vive!», «Ghiaccioli dolci! Freschi ghiaccioli al gusto di fragola!» In giro c’era un po’ di gente, uno spazzino con un carro trainato da un asino, uomini che spingevano carriole contenenti scarti di metallo, donne e ragazze che giravano con cuffie e grembiuli un tempo bianchi ma ormai così sudici da aver preso il colore dei funghi.

Gente, sì, ma non del tipo che ci avrebbe aiutati, e non in numero sufficiente da far passare inosservati un ragazzino fuggiasco né tantomeno una ragazza ansimante, scompigliata, con il capo scoperto e un abito da vedova strappato e sporco di sangue.

«Fermatevi, ladruncoli!» sbraitò una voce dietro di noi, rauca ma ancora forte. «Fermate quelle due canaglie! Delinquenti! Borseggiatori!»

Diverse persone si voltarono a fissare me e Tewky mentre fuggivamo lungo una strada costeggiata da negozi di robaccia: arredamento di seconda mano, vestiti usati, cappelli rammendati, scarpe e stivali risuolati e ancora vestiti usati. In quella frenesia di caldo e terrore, i volti delle persone mi apparivano davanti agli occhi per un secondo prima di scomparire.

Riconobbi uno dei visi, anche se non ricordavo dove l’avessi visto.

Poi, mentre continuavamo a correre, mi tornò in mente.

«Tewky! Veloce!»

Deviando dalla strada principale, sfrecciai lungo un vicolo che si snodava tra due pensioni diroccate, svoltai l’angolo dove si trovava una mangiatoia per mucche e fuggii dietro agli edifici attraversando un gruppo di stalle puzzolenti convertite in abitazioni dove si poteva ancora respirare il tanfo di asini, capre, oche e galline. Svoltai di nuovo…

«Non ci scapperete!» ringhiò a una distanza sconfortante una voce spaventosa dall’altro lato della stalla.

«Arrendetevi!» urlò una seconda voce, stavolta stridula.

«Idiota» gridò Tewksbury, rivolgendosi chiaramente a me. «Perché stiamo correndo in cerchio? Ci prenderanno!»

«Vedrai. Seguimi.» Abbandonando la sua mano e con essa la poca dignità che mi restava, aprii con uno strattone i bottoni del mio corpetto. Mentre correvo per una sudicia viuzza, affondai l’avambraccio nel mio bagaglio anteriore e, sfiorando un mazzetto di fogli non sgualciti, ne estrassi uno. Lo nascosi nel palmo della mano mentre svoltavo l’ultimo angolo prima di ritrovarmi nuovamente nella strada principale, e allora corsi verso un negozio di vestiti usati.

La proprietaria era in piedi fuori dalla porta che si godeva il panorama urbano e la brezza rinfrescante, ma non appena mi vide precipitarmi in quella direzione la sua espressione, da allegra, si trasformò subito in allarmata.

Non assomigliava più a un pettirosso o a un rospo, ma piuttosto a un topolino intrappolato sotto la zampa di un gatto. «No!» ansimò mentre gli correvo incontro. «No, Cutter mi ucciderebbe. Non ho intenzione di rimetterci la vita…»

Non c’era tempo per discutere. Io e Tewky avevamo ancora un secondo prima che i due criminali svoltassero l’angolo e ci vedessero. In quel momento, ficcai una banconota da cento sterline tra le mani della presunta signora Culhane, afferrai Tewky per la manica e lo trascinai con me nell’Emporio dell’usato di Culhane.